𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝐗𝐈𝐈. 𝐁𝐲𝐫𝐨𝐧
~ 𝟏𝟗𝟖𝟕 ~
Le strade di Notting Hill erano ricoperte da un soffice strato di gelida neve e i lampioni, così come le decorazioni natalizie, illuminavano le vie e ispiravano non solo festosità, ma anche allegria e calore.
«Più si va avanti negli anni e più sembra vogliano per forza farti odiare il Natale» borbottò Dario mentre camminava accanto a Maximilian. Intanto cercava di non farsi travolgere da certuni passanti che parevano andare di fretta o comunque far ben poca attenzione a dove mettevano i piedi, tanto erano impegnati a chiacchierare e a pensare ai fatti propri. «Lo sanno che tu e io potremmo probabilmente ammazzare almeno un centinaio di loro, se solo ci dessimo alla pazza gioia?»
Max soffocò una risata. «Mi sembra di capire che non apprezzi questa festività» osservò scherzoso. Erano trascorsi tre mesi e in quel lasso di tempo Dario si era ripreso completamente dopo il fattaccio avvenuto durante l'ultima missione. Dopo di essa aveva scelto, molto saggiamente e dopo aver chiesto un parere sincero allo stesso Max, di prendersi una specie di vacanza per riposare e dedicarsi alla propria vita privata.
Mancavano tre giorni a Natale e quella sera si erano dati appuntamento a Notting Hill, dove Max risiedeva, per uscire e farsi un giro. Una cosa tranquilla, in poche parole.
Rio sbuffò sonoramente. «Puoi scommetterci le palle, biondo» replicò senza tante cerimonie. «Non mi piaceva neppure quando ero ancora umano.» L'ultimo Natale che aveva trascorso da mortale non era stato dei più lieti e a quel punto la sua soglia di sopportazione già carente aveva raggiunto i minimi storici. Da allora in avanti aveva piazzato nella mente una bella X rosso fiammante sul Natale.
Wildbrook annuì. «Posso chiederti come si festeggiava in epoca rinascimentale o corro il rischio di farmi incenerire prima della fine dell'anno?»
«Se proprio devi chiedere...»
Il giovane non-morto sorrise di sbieco e gli mollò un gentile colpo di gomito sul fianco per incoraggiarlo a vuotare il sacco.
Dario borbottò una svogliata imprecazione. «Oh, e va bene! Si davano feste, si andava a messa. So che a Milano, all'epoca di Galeazzo Sforza, vi era la tradizione del Ciocco natalizio. Si prendeva un pezzo di legno, uno dei migliori, lo si decorava e poi, al tramonto, lo si ardeva nel camino e infine c'era un banchetto. La tradizione era presente anche in casa mia e a Firenze in generale. Insomma, non è che le cose siano cambiate un granché. Quando ero ragazzino non c'era Babbo Natale e il consumismo pauroso che abbiamo oggigiorno.»
Max fece un cenno, trovando interessante come alcune tradizioni tendessero a somigliarsi in varie zone europee. «Non ti piaceva neanche allora, quindi? Per niente?»
«Per niente. La cosa che più detestavo erano le feste in sé per sé, per non parlare di quando giungevano a casa i vari parenti di mio padre e della mia matrigna. Odiavo la confusione, specie vedere mio padre tutto allegro e di buon umore quando poi, magari, solo alcune ore prima aveva deciso di regalarmi per Natale una bella serie di cinghiate come solo lui sapeva darle. Mi permettevano però di ritirarmi prima del consueto e di andare a dormire. Non che alla maggior parte di loro importasse qualcosa. Per fortuna le loro attenzioni erano quasi sempre rivolte ai miei genitori e a mio fratello. Io me ne stavo bello bello in un angolo e cercavo di fingere di non esistere.»
Maximilian evitò di rivolgergli un'occhiata dispiaciuta e rattristata sapendo che a Dario non piaceva esser compatito o roba del genere. «Neanche i miei ricordi sono dei migliori, a esser onesto.»
Dario si morse il labbro inferiore e lo guardò di sottecchi. «Non ti ho mai fatto domande approfondite sulla tua famiglia o da dove vieni. Insomma, non so quasi niente della tua vita precedente alla trasformazione.» Sapeva solo che aveva avuto un passato travagliato, ma niente di più.
«Non c'è molto da dire» replicò Max stringendosi nelle spalle. «I miei genitori erano persone molto rigide e decisamente poco affettuose. Insomma, non riesco a ricordare una sola volta in cui mia madre si sia avvicinata a me per abbracciarmi o baciarmi. Mio padre, poi, neanche a parlarne. Non era nella loro natura esternare l'affetto. Lei era una credente vecchio stampo cattolico, fin troppo fervente: leggeva quasi sempre la Bibbia e ricordo che se mi capitava di tornare da scuola con un brutto voto, lei si alzava dalla poltrona e mi colpiva con quella. Ci imponeva di pregare spesso, specialmente prima dei pasti e prima di andare a letto. So che sembra orribile, ma mi insegnò a odiare la religione, mi mostrò il suo lato più folle e crudele. Solo in seguito alla mia trasformazione ho cercato di riavvicinarmici e di coglierne i veri insegnamenti, quelli che parlano di tolleranza e di amore verso il prossimo.»
Dario fece un lungo sospiro. «Cristo santo» commentò. «Oggigiorno sarebbe un perfetto soggetto da denuncia per abusi su minore. Avevi dei fratelli? Prima hai parlato al plurale.»
«In effetti sì, li avevo» rispose Max, abbozzando un sorriso mesto. «Una sorella, la più grande fra di noi, un fratello nato dopo di lei, c'ero io e poi, infine, il più piccolo. Onestamente andavo d'accordo con solo due di loro e mi affezionai soprattutto a lei.»
«Come si chiamavano?»
«Elizabeth, detta Betty, Michael e Theodore.»
Rio annuì. «E... sai se sono ancora vivi?»
«Non saprei» ammise Max. «Non li ho più visti dopo che morii. Ci fu solo un breve momento in cui fui sul punto di tornare da Betty. Mi aveva sempre trattato bene ed era stata l'unica nella mia famiglia ad aver detto che non le importava di chi ero e di cosa facevo nel privato. Non le importava niente, ero pur sempre suo fratello e mi voleva bene. Mi disse questo quando una volta venne a trovarmi in manicomio. Quella volta ricordo che mi sfogai con lei, piansi come un bambino e la pregai di far ragionare i nostri genitori. Le dissi che sarei morto o sarei impazzito sul serio là dentro. Fu lei, a quel punto, a suggerirmi di dare a tutti loro ciò che volevano. Mi pregò di mentire in modo che mi credessero di nuovo normale, per così dire, e mi permettessero di andarmene da quel posto. Alla fine lo feci e decisi che sarebbe stato molto meglio se avessi cercato di essere come tutti gli altri, ma come sai già... insomma, non funzionò.»
«Theodore e Michael, invece?»
Max sospirò. «Michael era tornato vivo dalla guerra, ma era rimasto segnato nel corpo e nella mente dalla vita al fronte e da ciò che aveva visto. Aveva perso la facoltà di camminare e questo, poco a poco, l'aveva reso scostante e difficile da capire negli atteggiamenti. Theodore aveva cinque anni in meno di me e quando lo vidi per l'ultima volta, stava ancora studiando per diventare medico. Mia sorella, invece, aveva trovato lavoro come istitutrice presso una famiglia molto benestante in modo da aiutare suo marito a sbarcare il lunario. Era già sposata da dieci anni quando persi contatti con la mia famiglia al completo. Aveva due figli ma vidi nascere solo il primo, il secondo arrivò proprio mentre io ero internato. Non ho mai saputo se Michael e Theodore, alla fine, riuscirono a far qualcosa della loro esistenza. Mi piace pensare di sì.»
Dario avrebbe voluto stringergli una mano, ma entrambi avevano convenuto che era meglio non ostentare troppo gesti del genere in pubblico.
«Il tuo accento non è quello di un londinese o dintorni» osservò. «Dove abitavi?»
Max sbuffò una risata. «Ho il tipico accento di Oaksfield, infatti» convenne.
Rio rallentò il passo. «Oaksfield, hai detto?»
«Sì, perché?»
Il vampiro dai capelli bruni scosse il capo. «Diciamo che è piuttosto famosa quella contea fra noi Soprannaturali. Se sei nato e cresciuto laggiù saprai sicuramente dei Fratelli di Oaksfield Manor.»
«Eccome! Una volta mi raccontarono quella leggenda e non chiusi occhio per un bel po'.»
«Beh, è tutto vero, Max. In quel posto davvero avvennero fatti orribili. Fatti di cui, stando a quel che si dice e io stesso ebbi modo di venire a risapere, un tale di nome Allaire si rese protagonista e responsabile.»
Max ricordava che era stato Askan a parlargli di Allaire, ma non aveva accennato al coinvolgimento di quel Cacciatore nelle vicissitudini di Oaksfield Manor. «Quindi... quindi davvero morì qualcuno in quel castello?»
«Sì, Max. Qualcuno ci rimise la vita e mi dispiace dire che non potei non seguire le vicende da vicino. Conoscevo Allaire e non sai quanto mi faccia schifo ammetterlo.»
Max si rese conto che Askan non gli aveva detto neppure che Dario aveva fatto la conoscenza di Allaire. «Che tipo era?» chiese, non volendo realmente saperlo. L'espressione di Rio bastava e avanzava a chiarire tutto.
Il moro fece una smorfia. «Un cazzone arrogante che si meritò cosa poi gli accadde. Se lo meritò fin nel midollo, credimi.»
«Ovvero?»
«Non mi è permesso di parlarne nello specifico. È un argomento molto confidenziale e mi venne imposto di non farne parola. Dico solo che se la andò a cercare, Max, e che la pena capitale parve persino troppo magnanima per lui dopo ciò che aveva fatto. A volte non posso non credere che quanto poi avvenne a Firenze, col senno di poi, risultò quasi essere una specie di punizione, come se si fosse attirato addosso una maledizione che esigeva il suo sangue per essere placata.» Dario spiegò a Max della storia dell'Efialte, la creatura cui aveva già accennato Askan. «Io ero lì, Max. mi venne ordinato di dargli una mano e dovetti purtroppo obbedire. Vidi la città in cui ero nato venir distrutta da un drago e credimi, Max, non avevo mai visto un drago in tutta la mia vita prima di quel giorno. Persino a Obyria erano talmente rari da sfociare nella leggenda e nel mondo umano non se ne vedeva più uno da millenni, eppure quella volta vidi un drago completamente nero e dai pulsanti occhi azzurri devastare tutto quanto seguendo però la scia di Allaire e lui soltanto. Sembrava avercela con lui. Mi parve quasi una questione personale. Con un incantesimo della durata di qualche ora mi venne permesso di operare alla luce del sole e di aiutare quell'idiota a porre fine al disastro. Riuscii a colpire per primo la bestia, ma col senno di poi avrei dovuto forse passare a fil di spada Allaire. Gli diedi l'occasione di cacciare il drago dalla città e farlo tornare nella dimensione da cui era provenuto, nonché di sigillare il passaggio fra l'Oltrespecchio e gli altri mondi. Non volle mai dirmi perché quell'affare si fosse intestardito di arrostirlo, ma lessi nei suoi occhi la menzogna. Sapevo che stava mentendo e nascondendo qualcosa, e neppure dopo il processo e l'esecuzione riuscii a scoprire la verità.»
Max si rese conto che era diverso sentirsi raccontare ogni cosa dal punto di vista di Dario, un autentico testimone dell'accaduto. «Quando lo conoscesti per la prima volta?»
«Dal giorno in cui divenne il pupillo e allievo del Principe che all'epoca servivo» replicò senza entusiasmo Rio. «E giuro che per me fu difficile sopportarli entrambi. Erano fatti l'uno per l'altro e insieme risultavano insopportabili. Allaire, poi, era un autentico sbruffone e si divertiva a provocare la gente, soprattutto me. Una volta ne ebbi così abbastanza delle sue provocazioni che gli rifilai un pugno dritto in faccia. Non ero una persona eccessivamente impulsiva, ma avevo i miei limiti e guai a chi li superava. Richard ovviamente lo venne a risapere e per poco non rischiai il benservito. Allaire era presente e se la rise alle spalle di Richard per tutto il tempo, cosa che per un soffio mi spinse a voler pareggiare di nuovo i conti e fargli seriamente del male.»
Max si accigliò. «Ma cosa aveva fatto per farti arrabbiare così?»
Dario non rispose subito. «Non so come, ma in qualche maniera era venuto a risapere alcuni particolari della mia storia strettamente personale, cose che non avevo rivelato a nessuno o quasi. Sapeva persino chi era stato a crearmi, dettagli che mai avevo confidato ad altri. Disse una cosa che mi fece perdere le staffe, ma negò tutto non appena Richard ci fece convocare entrambi per sapere che storia fosse quella. Ovviamente credette a lui.»
Max era incredulo. «Ma tu eri il capo delle sue guardie personali» commentò perplesso. Di tanto in tanto Dario si era aperto con lui circa la sua storia passata «Non avresti avuto ragioni valide per mentirgli.»
«Ero un soldato come tutti gli altri, Max. Non ero al di sopra dei miei sottoposti e Allaire era il suo pupillo, come già ho detto. Anzi, per lui era quasi come un figlio vero e proprio.»
«Non vuol dire che un figlio non possa raccontare frottole.»
«Però gode del beneficio del dubbio, no? Sempre e comunque.»
Maximilian sospirò. «Scusa se lo dico, ma quel Richard non era granché serio.»
«Fa' pure. Era un idiota con il potere. La combinazione peggiore che esista.»
Max sorrise di sbieco. «Mi ha fatto piacere che tu mi abbia chiesto della mia famiglia, sai?» confessò. «E parlarne... non lo so, mi ha fatto stare meglio.»
Dario rispose al sorriso. «Se parlarne ti fa stare bene, allora puoi farlo tutte le volte che vuoi.»
Maximilian avrebbe voluto baciarlo e infischiarsene della gente che li attorniava ovunque, ma decise di osare solo in parte e dopo aver vagato alla cieca con le dita, avvolse quest'ultime attorno a quelle di Rio, il quale ricambiò la stretta. «Forse questo sarà un Natale migliore per entrambi, eh?»
«Forse, sì» concesse il moro. «Comunque verrò a trascorrerlo a casa tua. Ora che hai sistemato l'appartamento, devo ammettere di preferirlo quasi al mio castello.»
Nel frattempo optarono per andare in un locale in modo da poter chiacchierare come una coppia qualsiasi al riparo dal gelo, tuttavia Max si fermò e Dario lo imitò. «Che succede?» chiese, notando lo sguardo del biondo. Quest'ultimo non replicò e dopo un breve attimo di indecisione, si avvicinò alla soglia di una vetrina luminosa e si accovacciò pian piano. Dario si sporse e finalmente comprese: proprio lì, nell'angolo accanto al muro di mattoni, c'era una figura minuscola e tremante che a primo acchito sembrava una palla di pelo ritto, ispido e malconcio di colore nero. Due occhietti di un lattiginoso azzurro fissavano con aria guardinga, spaventata e al tempo stesso implorante, Max.
«Accidenti» commentò a mezza voce Rio. Odiava vedere un animale in simili condizioni. Non sopportava di vederli soffrire, una delle cose che in lui non erano mai cambiate neppure in seguito alla trasformazione. A volte non poteva non credere che gli animali si trovassero al di sopra degli esseri umani. Erano infinitamente più puri di cuore, spontanei e altruisti degli uomini. «Spero solo che non scappi» si permise di dire. «Di solito quando gli animali capiscono cosa siamo, tendono a fuggire.» Eppure c'era qualcosa di anomalo, lo percepiva e lo vedeva. Gli fu chiaro quando osservò Maximilian accostare una mano e il micetto, anziché arretrare o scappare, scelse di avvicinarsi a sua volta e poi, addirittura, permise al giovane vampiro di prenderlo su. Sulle labbra di Dario fece capolino un sorriso involontario e spontaneo. «Persino gli animali ti adorano. Che dire, Wildbrook... sei un uomo da sposare!»
«Ci stai un po' zitto?» biascicò Max, il quale si sentì pervadere dall'imbarazzo e da una strana sensazione dolce-amara. Qualcosa nelle parole di Dario gli aveva fatto mancare un battito. Si rimise su e il micetto si accoccolò fra le sue braccia, facendo disperatamente le fusa. «Credo che dovremo cambiare i piani per stasera.»
«Sì, lo credo anch'io» convenne Rio con indulgenza. «Su, torniamo al tuo appartamento. Sulla via del ritorno prenderemo qualcosa da mangiare per il tuo nuovo coinquilino, il negozio di fronte al palazzo dovrebbe essere ancora aperto.»
Max aveva scoperto che il gattino recuperato dalla strada era un maschio. Lui e Dario avevano indetto una specie di scherzosa gara per decidere il nome, visto che il più giovane aveva insistito perché lo scegliessero assieme. La scelta finale era stata Byron, in onore di uno degli scrittori e poeti preferiti di Max. Attualmente il piccolo Byron, dopo essersi rimpinzato ben bene con una scatoletta di cibo per gatti, se ne stava a sonnecchiare con fare beato in una specie di nido di asciugamani rimediato dai due vampiri in attesa di poter trovargli una sistemazione più decente.
«Beh... sempre meglio che dormire su un marciapiede» sentenziò Maximilian, sorridendo intenerito mentre con l'indice accarezzava la testolina all'animale. Si era già innamorato di quel piccoletto.
Dario, tuttavia, stava guardando lui, steso di pancia sulla moquette di fronte al partner e al nido di asciugamani. «È raro che un animale si fidi così presto di un vampiro. Voglio dire... sei un bravo ragazzo, questo ormai è chiaro, però... bisogna avere un cuore veramente buono per conquistare la fiducia di un altro essere vivente capace di percepire la nostra natura che gli umani invece ignorano.»
Max si strinse nelle spalle. «Ho agito di istinto. Non potevo ignorarlo, non dopo averlo notato. Penso che solo una persona crudele ci sarebbe riuscita.»
«Hai fatto bene.»
«Vedrai che col tempo si fiderà anche di te.»
«Non ha tutti i torti. Non lo biasimo. Non biasimo nessuno che a ragion veduta decida di mantenere con me le distanze» ammise Dario. Non si era stupito quando Byron si era mostrato nei suoi riguardi molto reticente. Al minimo tentativo di venir accarezzato aveva soffiato subito.
Max scosse la testa e raggiunse una delle sue mani, stringendola. «Io mi sono fidato subito di te» gli ricordò. «Questo non conta?»
Il moro sospirò. «Oh, Max» fece indulgente, «non so se ti saresti subito aperto con me se solo tu fossi stato al corrente di certe cose del mio passato. Quello che mi ha stupito è non averti visto scappare.»
Fra tante altre cose di cui aveva ben poco di cui vantarsi, c'era anche un orribile dato di fatto: era stato uno dei pochi vampiri ad aver raggiunto una tale soglia di ferocia da aver iniziato a predare altri vampiri. Ecco perché quasi sempre i novellini con lui battevano in ritirata, se consapevoli delle dicerie sul suo conto.
«Che tu ci creda o meno, c'è stato un tempo in cui nessuno, neppure gli altri non-morti, erano al sicuro in mia presenza.»
Non tutti i vampiri erano uguali e ne esistevano diverse specie che possedevano differenze ben definite. Alcuni, ad esempio, non si nutrivano di sangue, bensì di soffio vitale o addirittura di anime che reclamavano tramite un semplice e letale bacio; altri ancora, invece, traevano beneficio e sostentamento dai rapporti carnali, un po' come accadeva per i Succubi e gli Incubi. Insomma, non si doveva fare di ogni erba un fascio. Il ramo da cui discendevano Max e Dario, purtroppo, era noto per la ferocia e aggressività che alcuni individui erano capaci di mostrare nei confronti di qualsiasi altro essere vivente, nonché per la tolleranza verso la carne cruda e la compatibilità con le doti magiche, le quali, anziché venir meno, si rafforzavano ed espandevano. Un altro dei tanti loro lati oscuri, tuttavia, erano gli episodi, per quanto rari, di aggressioni a danno di altri vampiri, proprio come a volte accadeva in certe specie animali, come ad esempio gli squali. In poche parole, non erano propriamente osannati ed erano diventati famosi per le ragioni sbagliate.
Dario, che molti anni prima era stato rinominato dalla stampa americana ‟il Macellaio di New York" proprio perché, all'inizio del secolo, si era reso responsabile di letali e sanguinose aggressioni a danno di molti cittadini newyorkesi, in realtà aveva alternato ogni tanto scegliendo di reclamare le vite di altri vampiri come lui. L'aspetto più agghiacciante di tutti era che anche a distanza di così tanto tempo, ricordava bene di aver pensato che i vampiri fossero molto meglio degli umani, più stimolanti da predare e meno facili da uccidere. Ovviamente provava profonda vergogna e un radicato rammarico per le azioni commesse all'epoca, azioni che per poco non gli avevano valso la pena capitale o un eterno soggiorno in prigione. Perché era tornato in libertà? Semplicemente per il fatto che il Principe Atlas si era reso conto che sarebbe stato molto più utile da vivo che da morto, una volta addestrato a dovere e riportato alla ragione. L'addestramento, come tale era stato definito, aveva compreso mesi e mesi di esperimenti e di metodi che in qualsiasi altro luogo chiunque avrebbe considerato barbari, ma che erano però riusciti a eliminare per sempre la possibilità che Dario potesse sprofondare all'inferno una seconda volta. In poche parole lo avevano portato a sviluppare una avversione radicata e ben studiata nei confronti del sangue, della carne e della morte in generale.
Era quella la ragione per cui, anche nel presente, faticava a nutrirsi e a mantenersi in salute quanto bastava a rimanere operativo e in forze. Gli avevano insegnato a collegare al sangue un senso di rifiuto, di autentica nausea e di disgusto tali da scoraggiarlo a superare il limite, ma non avevano pensato agli effetti collaterali di quella spietata cura riabilitativa. Ci aveva impiegato un anno intero, in seguito al rilascio e alla reintroduzione nella società civile, per smaltire tutta la robaccia che gli avevano forzato in gola o nelle vene per stimolare le reazioni negative alla vista del sangue o di un cadavere.
Una piccola parte di lui, indebolita e ridotta alla timidezza e all'impotenza, sapeva distinguere il piacere derivato dal nutrirsi di sangue, ma era talmente piccola da perdersi sotto il peso del ronzio infernale suscitato da quella che era stata in fin dei conti una tortura, seppur a fin di bene. Si era semplicemente adattato perché il suo organismo, forzato all'angolo, aveva scelto di reagire, di adattarsi anziché arrendersi alla morte. Non era più bravo di altri a controllarsi. Era solo bravo a ricacciare indietro i conati ogni qual volta avvertiva il sentore di sangue nell'aria.
Il tocco gentile di Max e le sue dita che gli scostarono i capelli dal viso lo riportarono al presente. «Non devi continuare per forza, se non te la senti» gli assicurò il biondo. «E comunque... il tuo passato non mi riguarda. Non ero presente, non posso giudicare a priori se non ero lì ad assistere a dati eventi, e non mi importa di cosa dicono gli altri sul tuo conto. Per me sei una brava persona e... beh, come tutti, hai fatto degli strafalcioni di tanto in tanto, ma chi non ne fa? Intanto sei stato il solo vampiro ad avermi spontaneamente graziato della tua presenza senza che chiedessi alcunché. Non ti sei comportato come se ti ritenessi superiore a me e questo basta e avanza, almeno per il sottoscritto.»
Dario si sentiva in colpa a non fargli presente certe cose della propria storia personale, ma ultimamente aveva iniziato a ripetere a se stesso che prima o poi si sarebbe fatto coraggio e avrebbe raccontato tutto a Max. Ne aveva il diritto, d'altronde.
«Sei troppo buono con me» mormorò. «Non faccio che chiedermi cosa io abbia potuto fare per meritarlo.»
Max non rispose e lo fece alzare, poi lo condusse, mano nella mano, in bagno. Si fermarono di fronte allo specchio e lui si piazzò proprio alle spalle di Rio. «Esisti» disse. «E per fortuna sei riuscito a sopravvivere anche dopo aver rischiato la vita. Il regalo più grande che la mia esistenza sempre stata solitaria avrebbe potuto farmi si trova proprio qui, davanti a me, riflesso in questo specchio. Chiunque merita da parte del prossimo almeno un gesto disinteressato, ma nel tuo caso ho tante ragioni per essere buono. Non potrei fare diversamente e non so cosa farci.» Lo fece voltare e gli prese il viso fra le mani. «Per quel che mi riguarda, ora c'è solo il presente. Il passato non è altro che una pioggia di coriandoli.»
Un bacio dolce e casto sigillò tali parole.
Grace guardò con la coda dell'occhio Max e Harper chiacchierare piacevolmente, poi i suoi occhi verdazzurri tornarono su Dario che quella sera pareva aver occhi solo per il compagno.
Da quel che aveva capito, non si definivano ancora fidanzati. Niente d'ufficiale, anche se a giudicare dalle occhiate che si erano lanciati fino ad allora parevano già belli che affiatati.
«Insomma, siete già passati al livello successivo, ovvero condividere un animale domestico e crescerlo insieme» commentò maliziosa. «Siete proprio da manuale.»
Rio si riscosse e la squadrò malamente. «Ma smettila. Byron vive con lui, non con me.»
«Eppure hai deciso di trascorrere il Natale qui, a casa sua. Vi frequentate da un anno e ancora non avete il coraggio di definirvi fidanzati, anche se uscite almeno tre volte a settimana e vi fate gli occhi dolci tutte le volte che incrociate gli sguardi.»
Lui sbuffò. «Abbiamo solo deciso di andare per gradi. Un giorno alla volta, ecco. Non voglio affrettare niente, Grace, e non penso di poter essere biasimato.»
Grace alzò gli occhi al cielo e si versò in gola un sorso di Vino Rosato al quale era stato aggiunto, ovviamente, del sangue. «Ah, per l'amor del cielo!» si lamentò. «Ma guardalo! È il ragazzo della porta accanto sexy che non sa di esser tale, ha un debole per i gattini, il complesso del crocerossino e in più stravede per te, ti vizia e ti coccola anche quando meriteresti un calcio nel deretano! Mi chiedo cosa tu voglia ti dimostri ancora!»
«Non deve dimostrarmi niente e... il punto è proprio questo, Grace: è un bravo ragazzo.»
«Dunque qual è il problema?»
«Ho paura che a furia di restare con me smetta di esserlo» ammise Dario. «Non voglio che quell'ingenuità nei suoi occhi finisca per svanire. È quella ad avermi convinto, ad avermi attratto. Mi piace perché è una brava persona, un uomo perbene. Non so proprio cosa pensi possa dargli uno come me. Vede qualcosa che io non riesco a vedere e che... allo stesso tempo... sento che in realtà non esiste.»
Grace a quelle parole bevve ancora per farsi forza, per non parlare d'impulso come avrebbe tanto voluto fare. Non voleva mandare a quel paese Rio proprio la sera della Vigilia di Natale. Fece un bel respiro. «Anche tu sei una brava persona. Il resto è acqua passata. La colpa non è mai stata tua. La colpa, purtroppo, è del mostro che ti ha creato e del suo sangue che ancora circola nelle tue vene. Non eri in quel modo prima di trasformarti, giusto?»
Lui non rispose subito. «Oppure l'occasione fa l'uomo ladro.»
«E questo cosa vorrebbe dire?»
«Voglio dire che quella mia indole attendeva solo il giusto pretesto per emergere e far casino.» Dario avrebbe voluto spiegarsi meglio, ma non ci riusciva. Il punto era uno e uno soltanto: non voleva rischiare, prima o poi, per qualche assurda ragione, di cedere al lato oscuro presente in tutti i vampiri, specialmente quelli come lui, e di fare così magari del male anche a Max. Chi gli assicurava che le catene fatte forgiare appositamente per lui da Atlas tanti anni prima non si fossero arrugginite e stessero perdendo la presa poco a poco? Davvero sarebbero sempre state in grado di tenerlo a bada?
Se per disgrazia avessero ceduto o avessero allentato la morsa, causando così un bel disastro, non se lo sarebbe mai e poi mai perdonato. Mai.
Grace lo squadrò duramente, poi guardò altrove e sibilò a denti stretti: «Giuro che se mai dovessi incrociare quella puttana di Carmilla, le strapperò le budella a mani nude fischiettando Starman di Bowie!»
Era stata lei, Carmilla, a fargli il lavaggio del cervello e a favorire la nascita del Macellaio di New York. Dopo che si erano conosciuti e che Dario si era lasciato incantare, anzi stregare da lei, non aveva più capito un bel niente. Aveva evinto questo da ciò che poi lui stesso le aveva raccontato. Succube di Carmilla, delle sue doti non solo da seduttrice, ma anche da manipolatrice. Si era impegnata un bel po' a costruire il vampiro perfetto, quel modello di mostro sotto mentite spoglie crudele e sanguinario. Altro che storie, era stata lei a traviarlo, a mettergli in testa che uccidere per divertimento, per soddisfare bassi istinti, fosse molto meglio del lottare costantemente contro tutto quello che Dario, prima di incrociare Carmilla, aveva sempre condannato e guardato con disprezzo. Poi ecco che era arrivata quella serpe e tutti i buoni propositi erano andati in fumo. Le coincidenze non esistevano, ecco cosa pensava Grace.
«Non tornerai mai a essere ciò che eri all'epoca. Non lo farai perché non sei così, non sei come Arwin o come Carmilla. Sai meglio di chiunque altro che persino un vampiro può essere buono e può lottare per il bene, invece di schierarsi col male. Non tornerai mai a essere il Macellaio perché non vuoi esserlo, perché ti disgusta anche solo il soffermarti su quel pensiero. Non sei un mostro e conosci benissimo la differenza tra cosa è giusto e cosa non lo è.» Accennò a Max. «E lui è un ragazzo in gamba, è più forte di quanto voglia dar a vedere. L'ho capito quando l'ho visto rimboccarsi le maniche e lavorare sodo per rimetterti in sesto e farti passare la dipendenza dai Fiori del Buio. Non è uno stupido e sa bene con chi ha a che fare, Dario. Lo sa, ma non gli interessa, non lo considera importante. Quel ragazzo ti ama, va bene? E per noi trovare qualcuno che ci ami sul serio è raro, è un dono. Non ti azzardare a gettarlo via solo perché in quel tuo cervello bacato ti sei auto-convinto di non meritare un amore del genere, altrimenti ti strappo gli occhi e ti prendo a calci. Solo uno stupido rinuncerebbe a tutto quanto.»
Rio contrasse la mascella in una posa ostinata. «Avevi detto che avresti portato la tua attuale ragazza. Che fine ha fatto?» chiese, cambiando argomento. Sapeva che lei aveva ragione, ma non si sarebbe mai azzardato ad ammetterlo apertamente col rischio di farla gongolare per almeno dieci anni.
Grace si strinse nelle spalle. «Oh, niente. Abbiamo discusso, l'ho mandata a quel paese e sono venuta da sola» spiegò brevemente. «Non l'ho mollata nel vero senso della parola, ma penso che siamo entrambe arrivate alla frutta.»
«Non sembra importartene un granché.»
«Non tutti riusciamo a trovare l'amore della nostra vita. E poi odiavo il profumo che usava.»
La chiacchierata proseguì e poi, a mezzanotte, decisero di scambiarsi i regali. Harper aveva deciso di regalare a Maximilian un oggetto nuovo di zecca con cui avrebbe potuto decorare e inaugurare la nuova residenza nella quale, tra qualche settimana, si sarebbe ufficialmente trasferito. Si trattava di una casa a schiera a Londra decisamente più spaziosa di quell'appartamento. L'oggetto in questione si rivelò essere un forno a microonde che sarebbe stato molto comodo per riscaldare il sangue in modo pratico e veloce.
Grace regalò al giovane vampiro, invece, un orologio da polso il cui quadrante era stato ricavato dalla madreperla e, dunque, risultava iridescente a seconda di come veniva esposto alla luce.
Il dono che Max, tuttavia, apprezzò di più, fu proprio quello di Dario: una macchina da scrivere. Non appena sollevò il coperchio della scatola rivestita dall'elegante carta dorata da regalo, i suoi occhi si spalancarono. Guardò Rio senza sapere cosa dire. Non aveva più visto una macchina da scrivere sin dalla giovinezza, quando abitava ancora con i suoi genitori e suo padre ne custodiva una gelosamente nel proprio studio. Dario abbozzò un sorriso e si strinse nelle spalle. «Non è stato facile scegliere cosa regalarti. Alla fine, però, mi sono detto che di cose da dire ne hai parecchie, perciò... perché non metterle su carta? A volte rendere concreti i pensieri aiuta.»
Non era uno di quei modelli elettronici che negli ultimi anni erano stati messi in commercio. Era una vera macchina da scrivere.
«Dio, è... è bellissima» esalò Max. E lui che gli aveva regalato una semplice collana dal ciondolo a forma di testa di volpe. Si sentiva quasi inadeguato. Non aggiunse altro, agguantò per i vestiti Dario, il quale sedeva accanto a lui sul divano, e lo baciò di getto. Solo dopo essersi scambiati una dolce effusione si accorsero che Grace, in vena di mattane come sempre, si era alzata ed era andata a strappare un piccolo ramoscello di vischio dalla ghirlanda appesa al portone, per poi tenerlo sospeso sopra di loro.
Max sghignazzò. «Sei una tradizionalista» osservò divertito.
«Un bacio sotto il vischio è sempre d'obbligo» replicò lei maliziosa, dando una gomitata a Dario. «Comunque, riflettevo: ma se lui è il mio Creatore, e quindi in un certo senso una sorta di padre adottivo, allora tu sei il mio patrigno?»
Rio alzò gli occhi al cielo, desiderando di sotterrarsi, mentre gli altri se la ridevano di gusto, specialmente per la sua reazione chiaramente imbarazzata.
Un'ora più tardi lui e Max rimasero da soli, dopo aver salutato gli invitati. Entrambi si diedero da fare per riordinare un po' l'ambiente. Rio, mentre si apprestava a portare i bicchieri in cucina, si fermò e chiese, facendosi coraggio: «Ormai ci conosciamo e frequentiamo da un anno, giusto?»
Max riuscì in tempo a togliere a Byron un nastro da regalo prima che potesse pericolarcisi o persino mangiarlo. A volte i gatti ingerivano le cose più disparate. «Beh, sì» rispose, lanciando un'occhiata severa al micetto.
Dario annuì lentamente. «È che... non posso non chiedermi, a questo punto, cosa siamo io e te. Voglio dire... siamo una coppia? Oppure solo due scemi che di tanto in tanto escono e poi si danno alla pazza gioia?»
Maximilian capì che era un discorso realmente serio e si sedé sul divano. Dario ripose i bicchieri sul tavolino e fece lo stesso, torturandosi le mani. Il biondo si rese conto di non averlo mai visto così nervoso e... fragile. «Penso che, almeno secondo il pensiero comune, possiamo definirci una coppia» rispose cauto. «Ti spaventa questo?» chiese poi, senza accusa nella voce. Voleva solo capire come si sentiva.
Rio scosse il capo. «No. È solo che...», fece un bel respiro. «Il punto è che questo è stato il miglior Natale che ho trascorso nel giro, più o meno, di quest'ultimo secolo. Tanti anni prima ricordo di averne trascorso uno dietro alle sbarre, in totale solitudine, in un posto dove lo spirito natalizio non poteva penetrare. C'era solo disperazione, c'era quella voce nella mia testa che continuava a ripetermi che era finita, che non avrei mai più rivisto il mondo esterno o assaporato di nuovo la gentilezza del prossimo. Però... stasera... stasera è stato tutto diverso, come tutte le volte in cui tu sei presente, al mio fianco.» Odiava tergiversare e biascicare come un ragazzino impacciato, ma al momento gli era impossibile parlare con la solita, sfacciata sicurezza che lo caratterizzava. «Ho sempre odiato il Natale perché in realtà mi mette una tristezza infinita. Riesco solo a pensare che un altro anno sta per finire. Mi ricorda che il futuro rimarrà sempre un punto interrogativo, ed è pazzesco se consideriamo che i vampiri sono immortali. Insomma, non dovrebbe preoccuparci l'avvenire, giusto? Io invece ne ho il costante terrore. Stasera, invece, non ci ho quasi mai pensato. C'eri solo tu. In un anno sei diventato una delle mie poche certezze, sei una presenza costante che ho imparato ad apprezzare e a desiderare. Prima di conoscerti ero solo, proprio come dicesti tu l'anno scorso, quando ti rividi alla mia festa di compleanno. Solo dopo essermi reso conto di essere da solo ho realizzato davvero quanto fosse orribile la solitudine, e in un solo anno tu sei stato capace di scacciarla, di riempire il vuoto.»
Una pausa.
«Non sono una persona perfetta come pensano tutti. Vedono qualcosa che in realtà non esiste. Tu invece mi vedi per quello che sono, difetti compresi. Non sai quanto per me sia liberatorio poter stare qui in tua compagnia e sapere che non ho bisogno di indossare una maschera per farmi benvolere o per non risultare odioso. Quando sono con te so che non c'è alcun pericolo, che sono al sicuro. Posso dire ciò che voglio senza essere giudicato, sapendo che i miei segreti sono ben protetti in mano tua.»
Max alla fine parlò e lo fece in maniera laconica e diretta: «Beh... a fronte di tutto ciò... direi che la giusta definizione per noi due sia ‟fidanzati"».
Ci aveva riflettuto parecchio anche lui e alla fine quel termine gli si era palesato davanti agli occhi come una rivelazione. «Le persone che fanno come noi, che trascorrono del tempo insieme e si sussurrano a vicenda ciò che provano, di solito si chiamano così.»
Fidanzati.
Dario realizzò che era proprio così, anche se in minima parte quella definizione lo spaventava. L'ultimo fidanzamento non era andato un granché bene e si era concluso nel peggiore dei modi. Aveva paura che accettando quella realtà per l'ennesima volta, poi un giorno l'incanto si sarebbe spezzato anche con Max.
«Allora... allora cerchiamo di far funzionare questo fidanzamento, se di quello si tratta» disse infine. «Per tante ragioni, Max, tu... tu sei la mia ultima speranza. Sei quella piccola e flebile candela immersa nel buio che mi impedisce di perdermi completamente nella notte, quindi... ti prego... alimenta sempre quella fiamma. Fa' che duri il più possibile, perché Dio solo sa quanto le tenebre mi spaventino.»
Il buio lo aveva sempre terrorizzato, prima quand'era stato bambino e in seguito quando aveva sbattuto la testa contro la triste e crudele realtà che mai più avrebbe potuto guardare il sole sorgere e risplendere nel cielo. Forse era stato il trauma peggiore di tutti. Il giorno gli era sempre piaciuto. Durante le ore diurne ogni ombra sembrava meno minacciosa e mostruosa grazie a quel luminoso astro, ma quando il sole tramontava tutto assumeva connotati sinistri e lugubri.
In tutti quei secoli era venuto a conoscenza di molti rimedi all'intolleranza al sole dei vampiri, ma nessuno duraturo o realmente funzionante. Una volta una strega gli aveva detto che la sola cura al vampirismo fosse non diventare un vampiro, cosa che forse riassumeva in larga parte ciò che le streghe e i maghi pensavano di quelli come lui.
Max gli sorrise, si avvicinò di più e gli sfiorò una guancia. «Vieni, posa la testa sul mio petto, ed io t'acquieterò con baci e baci» sussurrò, citando alla perfezione Lord Byron. Quella risposta fu sufficiente, non ebbe bisogno di ulteriori accompagnamenti o infiorettature. Il loro senso era chiaro: proprio come l'anno prima, di nuovo Max aveva fatto intendere che era ancora valida la sua promessa di essere il porto sicuro di Dario, quel piccolo angolo di mondo capace di tenerlo al riparo dalle tempeste e dagli affanni.
Rio sorrise, la bocca che tremava. «Allora cosa aspetti? Baciami» replicò, accogliendo un attimo dopo le labbra di Maximilian e abbandonandosi alle carezze che quelle mani gentili lasciavano su tutto il suo corpo che mai era stato così sensibile al tocco di qualcuno.
Anche quando Max lo sfiorava e basta, per lui il minimo contatto corrispondeva a una piacevole scossa elettrica che lo rianimava e faceva sentire vivo, realmente tale.
Si sfilò il semplice dolcevita nero, azione che scompose del tutto la treccia in cui aveva acconciato i lunghi capelli. I gesti di tutti e due erano impazienti, quasi caotici. Max si sporse e lo baciò ancora. «Buon Natale» mormorò. «Di tutti i regali che avrei potuto ricevere, tu sei stato in assoluto il migliore.»
E quello del millenovecentoottantasette fu davvero uno dei migliori Natali che entrambi avessero mai trascorso.
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