𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝐈𝐈. 𝐔𝐧𝐚 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧𝐚 𝐬𝐨𝐥𝐚
«Ti hanno mai detto che è da maleducati fissare gli altri?»
A quelle parole Max si sentì gelare e lentamente sollevò lo sguardo, incontrando quei grandi occhi talmente scuri da sembrare neri. Occhi nei quali era molto facile perdersi perché simili a due pozzi privi di fondo.
Suo malgrado non poté non pensare che sembrava sul serio un attore, uno di quelli per cui le ragazzine sbavavano, a ragion veduta. Aveva lunghi capelli castani perfettamente curati che terminavano in morbide volute le quali, nonostante tutto, parevano naturali e non attribuibili a qualche artificio. Tutto quello che Maximilian stava guardando non era frutto dell'epoca edonista in cui si trovavano, ma della generosità di Madre Natura.
Era stato chiaramente baciato da Venere in persona quel vampiro, e il peggio era che lui stesso ne era al corrente, perfettamente consapevole di ciò che gli altri vedevano. Aveva tanta di quella sicurezza da far provare a Max un velo di invidia.
Una cosa era sicura: era terribilmente diretto.
Il giovane non-morto deglutì rumorosamente e tamburellò le dita sul tavolo come un bimbo impacciato, ben attento a tenere le mani lontane da quella del vampiro dagli occhi seducenti. Teneva la testa talmente bassa che gli occhiali ormai erano a un passo dal cadere giù dal ponte del naso. In teoria non soffriva più di miopia, il vampirismo aveva rimediato a quel difetto, ma a lui piaceva portare gli occhiali, si sentiva più sicuro a indossarli, più se stesso.
«I-Io... non volevo, mi dispiace» biascicò, solo per poi scorgere sul bel viso dello sconosciuto un sorriso sghembo e divertito, seguito da una risata accennata e musicale. Aveva persino una bella voce, dannazione! «Cielo, rilassati! Scherzavo e basta!» Due piccoli e affilati canini per pochi secondi spiccarono nella dentatura perlacea. Di per sé erano retrattili, ma alcuni nella loro specie preferivano tenerli sempre in bella vista, quasi come se non gli importasse niente del rischio di essere scoperti. D'altro canto, esistevano anche esseri umani con canini particolarmente appuntiti e ormai non erano più nel Medioevo, i contadini armati di forconi, aglio, croci e paletti di legno erano svaniti da un pezzo.
«D-Davvero?» replicò Max nervosamente, senza riuscire a incrociare per non più di pochi istanti le iridi scure e ipnotiche dell'altro vampiro. Era di natura timido, talmente tanto che in collegio alcuni lo avevano spesso definito uno scemo ritardato, ma non era colpa sua se aveva paura di aprirsi o non si riteneva abbastanza degno dell'attenzione del prossimo.
«Certo che sì» confermò il moro, lanciando una rapida occhiata alle proprie spalle verso la fidanzata, o amica, alla quale poi si rivolse. Max seguì il loro scambio di battute: lei si chiamava Grace e a quanto pareva lui aveva deciso di...
Un attimo. Ha detto che vuole restare qui a parlare con me?
Il giovane vampiro lo squadrò inebetito prendere posto di fronte a lui. Per essere un succhiasangue non più così recente sprizzava vitalità che era una bellezza!
«M-Ma cosa... perché...» balbettò Max.
«Io e lei non stiamo insieme, e poi onestamente non è bello vedere qualcuno starsene da solo in un angolo in un posto come questo dove, a ragion di logica, ci si dovrebbe divertire!» spiegò con nonchalance l'altro, stringendosi nelle spalle e incrociando le braccia.
Max, nonostante tutto, si sentì meglio nell'udire che non era fidanzato, cosa d'altronde abbastanza comune fra quelli come loro. Che senso aveva legarsi, per creature immortali che non potevano trarre vantaggi da una relazione fissa? I vampiri, poi, erano di per sé abbastanza individualisti, preferivano cacciare da soli, o al massimo in coppia. La cosa che davvero stupiva era che a Obyria ci fosse un intero regno composto solo da vampiri, regno tra l'altro fra i più potenti e ricchi.
Si rese conto di star di nuovo fissando il bel tenebroso con troppa insistenza e spostò altrove lo sguardo, decisamente in imbarazzo. Persino nel modo di vestire si sentiva inferiore anni luce rispetto a lui, decisamente alla moda e amante dei colori che sfoggiava con fierezza.
«Il gatto ti ha mangiato la lingua, biondo?» lo apostrofò scherzoso quella specie di diabolico angelo.
Ora so quale aspetto potrebbe avere Lucifero, pensò stupidamente Max.
In fin dei conti il Diavolo non era l'angelo più bello di tutto il creato, nonché il ribelle per eccellenza? L'angelo con il fuoco nello sguardo, e di fuoco, in quegli occhi caldi e scuri, ve n'era un bel po'.
Max di nuovo non seppe come rispondere e si sentì sempre più idiota e incapace di sostenere una conversazione. Non era mai andato nel pallone fino a tal punto.
L'altro sbatté le palpebre un paio di volte, le lunghe ciglia che esprimevano chiara perplessità. «Uhm, ti faccio paura o roba simile?» chiese, di nuovo diretto e senza fronzoli inutili.
«N-No, sono solo spiazzato.»
«Spiazzato?» L'interlocutore di Max piegò il capo verso sinistra e il giovane non-morto non poté non ripensare a uno di quei gatti sornioni che se ne stavano a fissare il prossimo comodamente appollaiati chissà dove. Ci mancava solo che quel tipo cominciasse a fare le fusa. Era stato decisamente colto di sorpresa e quel che era peggio era che Max, al momento, faticava a concentrarsi sulla conversazione con quegli occhi scuri che lo studiavano.
«Insomma, non mi conosci, eppure...»
«Eppure eccomi qua» lo interruppe il moro, facendo di nuovo un sorriso sghembo. «Be', dato che sei un vampiro come me ho pensato fosse inutile parafrasare, e poi mi piace essere diretto e scioccare le persone!» L'occhiolino fu il colpo di grazia per Maximilian, il quale sarebbe diventato color ciliegia se solo fosse stato ancora vivo. Quel vampiro ancora privo di un nome, poi, non stava fingendo o altro, era naturalmente espansivo e in un certo senso civettuolo. Doveva divertirsi un bel po' a mandare in pappa il cervello altrui.
«L-La tua amica non se la prenderà per esser stata piantata in asso?»
«Nah, siamo usciti per nutrirci, in realtà, perciò prima o poi ci saremmo separati lo stesso.» All'occhiata tesa e inquisitoria di Max, il suo interlocutore celò a stento una lieve risata. «Non siamo fra quelli che uccidono, rilassati! Prendiamo quanto ci serve e poi gli ospiti tornano alle loro vite! Senza contare che il morso di un vampiro, se dato come si deve, risulta tutto tranne che spiacevole. Dovresti saperle queste cose, o no?»
«E... f-fate anche altro con i vostri ospiti o... ? I-Intendo...», Max si diede dello scemo per una domanda così personale e forse offensiva, o comunque troppo sfacciata, ma l'altro socchiuse lo sguardo con fare malizioso e incuriosito, persino compiaciuto. «Mi chiedi se ce li portiamo a letto? A volte capita, sì, come a tanti altri della nostra specie! Frequentare solo vampiri sarebbe terribilmente noioso! Ma te lo immagini?»
Maximilian, percependo il tono di voce svogliato e vedendo che ogni tanto lo sguardo dell'altro indugiava verso sinistra, proprio oltre le sue spalle, si voltò e capì dopo un po' che a quanto pareva il bellimbusto aveva fatto già un'altra conquista, e si trattava di un tipo niente male.
Per un attimo il suo stomaco subì una strana e spiacevole stretta, una voce dentro la sua testa gli ripeteva di attirare di nuovo l'attenzione del vampiro dai sorrisi impertinenti, così da distoglierlo da quella sorta di flirt. «Io, comunque, mi chiamo Max» si sbrigò a parlare, ma si sentì uno scemo per non aver saputo trovare nulla di più interessante e quel tipo sembrava perdere facilmente interesse non appena trovava qualcosa di meglio su cui concentrarsi. Per fortuna funzionò e il vampiro dai capelli scuri posò il mento sulla mano sollevata e lo guardò dritto negli occhi con fare sornione. Di nuovo Max non riuscì a capire cosa significasse quell'espressione. Gli tornò però in mente l'immagine iconica di Holly Golightly che, con i guanti neri, il diadema e l'elegante bocchino, guardava dritto negli occhi lo spettatore. «Piacere, Max. Prova a indovinare come mi chiamo io, adesso.»
Eh, bel pupone, tra un po' scorderò pure il mio di nome, pensò il giovane vampiro, deglutendo pesantemente.
«Uhm...», ci pensò un secondo. «John?»
«Cosa?» Il moro rise di gusto. «Puoi fare di meglio! Avanti! Un po' di fantasia!»
«William? Forse Michael?» L'altro arricciò il naso e tale espressione bastò da sé a far intendere che era stato un altro buco nell'acqua. «Ti dò un indizio: purtroppo è un nome particolare e non molto comune, almeno qui. In tutta onestà io l'ho sempre detestato!»
«M-Ma è un nome... non lo so, straniero?»
«Esatto.»
Max, onestamente, non aveva idea di quali potessero essere le origini di quel vampiro. Lo aveva scambiato per un anglosassone d'hoc, in tutta franchezza. Non aveva alcun accento particolare e ormai era difficile evincere le origini di qualcuno semplicemente basandosi sull'aspetto. Era una società moderna, ormai! «Un altro aiutino?»
«È breve e comincia con la d.»
«David?»
«Ti sembra un nome straniero? A me pare inglese!» punzecchiò il vampiro ancora privo di identità, il quale nel frattempo si era acceso una sigaretta dall'insolito colore rosso e pareva civettare persino con un gesto semplice come quello di aspirare del fumo. Niente da fare: era sensuale e la sua era una propensione naturale. L'odore che recepì il biondo, comunque, ricordava molto quello del sangue. Davvero strano!
«In effetti no. Mi arrendo» cercò di scherzare Maximilian.
«Tu ti arrendi troppo facilmente, Max» lo stuzzicò ancora l'altro, poi finse un sospiro drammatico. «E va bene!» Tese le dita affusolate, su tre di esse vi erano anelli d'argento e ora che l'angolatura del capo lo consentiva, portava anche un orecchino rotondo e molto semplice, sempre del medesimo metallo. «Dario, ma per gli amici e chi vuole rientrare nelle mie grazie, invece, sono Rio.»
Max deglutì e gli strinse la mano, la quale era gelida, pareva di una statua di ghiaccio. Lui si era nutrito prima di uscire, perciò era tiepido. Frugò nella memoria. «È un nome molto antico, vero?»
«Stai dicendo che sono vecchio?» lo punzecchiò di nuovo Dario.
«N-No, no! Assolutamente! Sei... sembri... uhm...»
«Rilassati, scherzavo!», rise il moro.
A Max quel vampiro piaceva sempre di più, specie per la vitalità; era del tutto in armonia con ciò che lo circondava, quel tempo sembrava appartenergli. «Quindi da dove vieni? Ti avevo scambiato per un inglese come me!»
«Sono italiano, in realtà per metà spagnolo, ma in ogni caso sempre europeo come te» ammise Dario. «Vivo da così tanto all'estero che ho perso il mio accento, ormai. Adoro l'Inghilterra e sì, soprattutto gli inglesi! Hanno un buon sapore, in tutti i sensi!»
Maximilian abbozzò un sorriso. «E da quanto sei un vampiro?»
«Se te lo dico ho paura che ti verrà uno scompenso» replicò con bonaria malizia l'altro, guardandolo da sopra le lunghe ciglia. Diamine, persino la Hepburn avrebbe fatto carte false per quelle dannate ciglia.
«Cento anni? N-No, anzi... facciamo una sessantina? Sì?»
Il moro rise deliziato, il suono simile a quello di un usignolo. «Oh, mi lusinghi, ma no!»
«Duecento?»
Dario mostrò quattro dita: «Quattrocentosessantasei, per l'esattezza, se consideriamo anche la mia data di nascita. Pieno Rinascimento!»
Max stava bevendo per cercare di sciogliersi un po' e a momenti la bibita gli andò di traverso. Fissò attonito il vampiro. «Quanti, scusa?» Provò a non guardarlo come se di colpo gli sembrasse un alieno, ma non era semplice e mai gli era capitato di incrociare uno della sua specie con ben quattro secoli alle spalle. Secoli portati divinamente, tra l'altro.
«Non essere così sconvolto! Ci sono alcuni che ne hanno più di mille, di anni, almeno stando a quello che dicono in giro! A confronto io sono nato l'altro ieri!»
«Oh, Dio...»
«Nah, dubito che Dio c'entri qualcosa. Tu, invece?»
Max provò uno spiacevole senso di inferiorità. «Io sono un vampiro dal Quarantanove, ossia da trentasette anni» rivelò timidamente. «A volte ancora fatico ad accettarlo.»
Vide Dario farsi dispiaciuto. Pareva capirlo, ma non disse niente. Su quell'argomento era chiaramente molto schivo. «Beh, in generale tutti devono fare i conti col dover bere sangue per vivere, ma prima o poi ci si abitua, come per ogni altra condizione» si limitò a dire, stringendosi nelle spalle e rimanendo, con molto garbo e con tanta scaltrezza, neutrale. «Certo, ogni tanto è una vera noia! Specie se come al sottoscritto ti tocca di sopportare un'epoca dopo l'altra!» Fece una smorfia lieve. «Scommetto che anche tu hai una triste storia alle spalle, dico bene?»
«Perché dovrei?» replicò Max, con troppa impulsività.
«Di solito è più o meno la prassi» spiegò Rio, di nuovo senza peli sulla lingua. «Nasciamo, cresciamo, poi qualcosa ci manda a puttane l'esistenza e ci ritroviamo con un paio di zanne e l'allergia al sole. Non si diventa vampiri comportandosi bene, Max. I bravi bambini vanno in Paradiso e quelli cattivi restano qui, vampiri o fantasmi. Qualcosa di tragico c'è sempre nei retroscena. Un preciso momento in cui ci trovavamo nel posto sbagliato al momento sbagliato e, soprattutto, con la persona sbagliata.»
«E qual è la tua triste storia, sentiamo?» buttò lì Maximilian, passando un po' sulla difensiva. Non gli piaceva parlare del proprio passato. In parte se ne vergognava, in parte quasi lo rimpiangeva. Non era stato semplice non poter più vedere la luce del sole e vivere solo di notte, né di tanto in tanto dover per forza ingegnarsi per far sparire i cadaveri di alcune vittime che avevano avuto la sfortuna di incrociarlo quando era ancora troppo inesperto, privo di una guida che gli spiegasse che uccidere non era obbligatorio e che anche per i vampiri esisteva una sorta di libero arbitrio.
Quel periodo di dannosa inesperienza era stato il primo motivo in assoluto che lo aveva spinto a lasciare Oaksfield, il piccolo paese risiedente nell'omonima contea dove un tempo aveva vissuto. Un luogo, per quanto abitato da non più di tremila anime, ricco comunque di storie, dicerie e miti, tra cui la famosa ‟Leggenda dei Fratelli di Oaksfield Manor", tanto tragica quanto a tratti orripilante. Ricordava che da bambino gliel'avevano raccontata i suoi cugini, più grandi di lui di ben cinque anni, e tutto era finito con lui che non era riuscito a dormire per un bel po' di notti consecutive.
Dario restrinse di poco lo sguardo. Sembrava allo stesso tempo infastidito e accattivato, come se Max gli avesse appena lanciato un guanto di sfida e per giunta dritto in faccia. «La mia è una storia dell'orrore mescolata a un pizzico di tragedia. Oserei dire che è degna solo di essere raccontata durante la notte di Ognissanti. Non è di certo un argomento che si sposa bene con un locale come questo» rispose enigmatico, tenendogli comunque testa. «Lasciamo riposare in pace i morti e gli scheletri al sicuro nel loro bell'armadio. Che ne dici?»
Non era una risposta davvero ambigua né buttata lì per fare scena. Faceva intendere che i suoi trascorsi non fossero stati migliori di quelli del suo interlocutore e, probabilmente, di tanti altri. Eppure Max sentiva che nel suo caso di orrori nascosti ve n'erano parecchi. «Be', anche la mia» replicò, poi scelse di nuovo di virare altrove il tema della chiacchierata. «Conosci molti della nostra specie?»
«Quanto basta a non sentire la loro mancanza, specie se si tratta di quella vecchia e noiosa salma che governa su tutti quanti» rispose Dario, rilassando la schiena contro la seggiola e stringendosi nelle spalle. Oltre lo scollo a V aperto della camicia si intravedeva il petto magro, glabro, ma comunque ben scolpito, simile a quello delle statue Greche. Attorno al collo indossava un collare scintillante di quelli che erano senza dubbio diamanti veri. Aveva buon gusto, questo era chiaro. «Mi trattengo il minimo ad Athanasia, quello che è sufficiente a gestire affari finanziari e roba simile. Preferisco gli umani, sono più interessanti. Mi piace parlare con loro e sapere che possiedono ancora un cuore che batte. Aver a che fare con gente della mia specie è come frequentare dei rettili a sangue freddo, se capisci a cosa alludo, e ho sempre detestato i serpenti e i coccodrilli. Forse, però... sarebbe meglio parlare di squali. Credo renda al meglio l'idea che mi sono fatto dei nostri simili.»
Max fece un cenno. «Ti capisco eccome, fidati. Neanche io mi trovo bene laggiù. Dicono che siamo tutti uguali, eppure i vampiri che ho conosciuto non fanno che denigrarmi e solo perché sono stato trasformato da qualche decennio. Persino tra di noi c'è il dannato razzismo.»
«Il razzismo esiste da sempre e non possiamo farci niente.»
«Secondo me sì, invece. Si potrebbe fare qualcosa.»
«Dillo ai nostri compari licantropi, perennemente divisi fra gang, malavita e lotte di quartiere. Si fanno la guerra e solo perché appartengono a branchi differenti! Più divisi di così...! Hanno reso Miami ancora più invivibile. Jackpot, direi!»
«Anche gli umani lo fanno. Voglio dire, tu vieni dall'Italia. Non è laggiù il cuore della malavita?»
«Eppure i licantropi si credono superiori alle creature umane, il che la dice lunga su un bel po' di cose, non trovi?»
Max lo squadrò. «Non ti piacciono gli uomini-lupo?» lo punzecchiò.
«Affatto! Uno di loro è un mio vecchio amico e sì, ho frequentato un uomo-lupo, una volta, ma non approvo la convinzione di credersi superiori a tutti e a tutto che tanti, a Obyria, condividono. Non sono razzista, mai stato e mai lo sarò, ma come ho già detto: è un problema comune che va avanti dall'alba dei tempi, perciò rilassati, Max, ed evita di starci troppo a pensare. Le cose vanno così e basta.»
«Ma se nessuno farà mai niente per migliorare la situazione, allora...»
«Nessuno lo farà mai e questo, semplicemente, perché in fin dei conti ad alcuni una condizione del genere fa molto comodo. Mai sentito parlare, Max, di divide et impera? È più facile governare su una comunità divisa da pregiudizi vecchi come il mondo. L'unione fa la forza, d'altronde, o sbaglio? Tutto potrebbe cambiare se solo la gente finalmente riuscisse a capire dove si trova davvero il potere, ma in fin dei conti il popolo è come un eterno neonato e proprio non ce la fa a staccarsi dal seno del leader di turno, della tanto decantata pseudo-democrazia e dal costante assillo che senza un presidente, un senatore o chicchessia non si va da nessuna parte. Non mi definisco anarchico, ma non nascondo che gradirei assai vedere un po' della crema di Obyria saltare da un dirupo e schiantarsi. Purtroppo non viviamo in un'utopia platonica dove tutto è esattamente come dovrebbe essere. Rido se ripenso a quel tale che affermò, una volta, che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Non oso immaginare, allora, che razza di vero inferno sia per i nostri alter ego disgraziati schiaffati in una dimensione alternativa. Mi piace pensare di esser nato laggiù come un fiore o un albero e, dunque, di poter assistere allo spettacolino senza dover prendervi parte per forza. Sempre meglio del dover trascorrere secoli ad assistere alla lenta discesa nella banalità del genere umano e anche di quello sovrannaturale.»
Max non riusciva a capire quella sua visione così cinica e realista, quasi... spietata. Insomma, aveva più di quattrocento anni alle spalle, sarebbe dovuto essere il primo a credere nel domani e nel progresso! Era chiaro che si fosse fatto una cultura anche dal punto di vista filosofico, perciò era incredibile che avesse pensieri fino a tal punto pessimisti.
«Il mondo, però, è cambiato nei secoli, questo non puoi negarlo. Nessuno dice che non potrebbe migliorare, e parlo soprattutto per Obyria.»
Dario lo squadrò per qualche istante in silenzio, poi: «In base a ciò che ho visto, piccolo Max, il mondo è sempre cambiato in peggio, e Obyria di certo non fa l'eccezione. Credo e sostengo, anzi, che Obyria sia l'esempio lampante di cosa accade quando si consegna a delle formiche ingorde un palazzo di marzapane». Sventolò una mano come a voler scacciare la faccenda o persino a voler spazzar via Obyria stessa dalla faccia della Terra. La sua espressione era decisamente mutata. Non era più civettuolo e frizzante come prima. Per un attimo a Max era quasi sembrato rancoroso nei confronti di Obyria e coloro che la amministravano. Forse, considerando la sua età, non era solo un'impressione né era da escludere che avesse ragione a mostrare tanta acredine.
Maximilian capì, dunque, che quei discorsi cominciavano a intristire e a infastidire Dario. Lo comprese dal modo in cui quest'ultimo tornò a ricambiare l'ennesimo sguardo del tipo di prima. Fu un contatto visivo più lungo e intenso rispetto a quello precedente, cosa che diede sui nervi a Max. Si agitò appena sul posto. Sentiva la disperata necessità di impedire a Rio di rivolgere altrove l'attenzione. Voleva trovare un modo per farlo restare dov'era, per poter godere un altro po' della sua compagnia, per ascoltarlo. Era un vampiro arguto e accattivante, se non altro non lo aveva snobbato come invece tanti altri avevano fatto. Era chiaro, tuttavia, che avrebbe accolto molto presto le lusinghe di quel tizio, il quale stava antipatico a Max, anche se non aveva fatto nulla per meritare pensieri ben poco lusinghieri.
Per un attimo, uno soltanto, Maximilian si domandò cosa avesse di sbagliato e cos'avesse quel tipo che lui, invece, non aveva. In fin dei conti, se Rio si trovava lì anziché a flirtare con il bellimbusto, un motivo doveva pur esserci!
Schiarì la voce, cercò qualcosa da dire, un argomento più leggero di cui parlare. Gli piaceva la sua voce, il suono che aveva, il modo in cui le parole scivolavano fuori da quelle labbra che di tanto in tanto tornava a fissare. Non era solo bello, ma qualcosa di più. C'era bellezza anche dentro, glielo si leggeva negli occhi. Non era come gli altri. Dario era diverso. Dal suo sguardo si capì che era sul punto di congedarsi e allora Max, ancor prima di rendersi conto di cosa faceva, afferrò la sua mano, impedendogli così di andar via. Quando si accorse di esser stato troppo repentino, però, biascicò una scusa. «Non so cosa mi sia preso» balbettò. Sentiva il suo sguardo addosso. Probabilmente doveva sembrargli un idiota.
«Sei una persona sola, Max. Te lo si legge negli occhi» si limitò a rispondere l'altro vampiro, prima di fare un informale gesto di saluto e allontanarsi. Dopo ciò che aveva detto, il suo atteggiamento pareva quasi suggerire un ‟avresti bisogno di compagnia, ma non è un mio problema". Non si poteva biasimarlo, eppure a Max fece male vederlo parlare con il tizio che sin dal principio lo aveva preso di mira.
Magari il problema era che Maximilian, a differenza di quel gran bell'esempio di mascolina bellezza, non esprimeva la stessa disinvolta sicurezza e Dario, semplicemente, apprezzava di più chi sapeva farsi valere e aveva le idee chiare. Aveva un gusto particolare per gli intraprendenti e i temerari. Quelli come Max, sicuramente, gli ispiravano solo tenerezza, come avrebbero potuto fare un micetto o un cagnolino.
Vuotò il bicchiere e fu allora che prese una decisione. Per una volta nella vita scelse di essere avventato e magari anche un po' prepotente e pazzo: si alzò, raggiunse i due e convinse il solo vampiro che gli fosse mai andato a genio fino ad allora a prestargli di nuovo attenzione. Dario si scusò con il proprio interlocutore, o meglio spasimante, e dopo aver sospirato in modo un po' teatrale e scocciato, si voltò a guardare Max. Quest'ultimo si fece coraggio. «Hai detto che sono una persona sola e hai ragione, lo sono, però... mi piace parlare con te.»
«Ti piace parlare con me» ripeté lentamente Rio, squadrandolo quasi con aria sospettosa e con molta, scettica perplessità. «Tutto questo ammirevole panegirico per dire cosa, esattamente?» Era tutto fuorché impressionato o colpito. Max sul momento restò di sasso per quell'improvvisa freddezza, neanche gli avesse detto qualcosa di male o lo avesse preso a schiaffi davanti a tutti, poi però tentò di spiegarsi meglio. In effetti non aveva fatto il punto della situazione né detto niente di costruttivo. «Q-Quello che cerco di dire è... insomma... se potremmo passare del tempo insieme, per conoscerci meglio. Fino ad ora ho conosciuto altri vampiri che mi hanno trattato sì e no da zerbino, ma tu sembri diverso. Lo so, ti conosco più o meno da mezz'ora, ma sento che se non ti avessi detto tutto questo, me ne sarei pentito per il resto dell'eternità! S-So di suonare esagerato, ma credimi, Dario, è la verità!»
Dario alzò gli occhi al cielo, giunse le mani e le inclinò verso di lui, come una madre che per l'ennesima volta tentava di spiegare una cosa ovvia a un bambino ottuso. «Max, perdona il poco tatto, ma penso tu abbia preso un bel granchio» disse, ragionevole e disincantato. «Se prima ho scelto di sedermi e parlare con te per un po' è stato solo perché era davvero triste vederti stare in un angolino per conto tuo. Ciò non vuol dire che io voglia frequentarti. Capisci? Senza menare il can per l'aia, diciamo che non sono alla ricerca di una compagnia stabile, se sai cosa intendo.» Max, per la prima volta, vide una gran serietà nel suo sguardo, anziché beffardaggine o sottile presa in giro. Diceva sul serio e forse era questa la cosa peggiore, perché a lui quella mezz'ora trascorsa in compagnia sua era sembrata una vera e propria boccata di aria fresca. Dario gli piaceva a pelle, anche se si conoscevano appena e probabilmente non si sarebbero più rivisti. Lo aveva fatto sentire un suo pari e non uno zerbino, come tanti altri in precedenza. La sua delusione dovette risultare palese, perché poi Rio sembrò raddolcirsi e aggiunse, con una punta di reale afflizione: «Se ho dato un'impressione sbagliata, mi dispiace averlo fatto. Sul serio, Max: scusami». Si pose una mano sul cuore, come a voler enfatizzare la breve apologia.
Maximilian sapeva che aveva tutte le ragioni del mondo per mandarlo a quel paese come stava chiaramente facendo, seppur con garbo, e scelse di accettare la cosa, anche se... anche se si sentiva umiliato, in un certo senso. Aveva fatto proprio una gran bella figura da scemo, ma cos'altro poteva fare, d'altronde? Non poteva forzare Dario, non se lui era affezionato al proprio individualismo. Deglutì a vuoto. «Se tu dovessi mai cambiare idea, mi chiamo Max Wildbrook e... in caso volessi venire a trovarmi, abito a Notting Hill.»
Dario fece un lieve sorriso cordiale, fin troppo tale. «Magari passerò per un saluto» rispose, ma era chiaro che lo aveva detto solo per cortesia, per non far sentire Max ancora più imbarazzato e Wildbrook non seppe se essergli grato o meno per tale magra consolazione. Cos'era peggio fra un'illusione e una triste realtà?
Prima di andare si voltò a guardarlo da lontano un'ultima volta, consapevole che non avrebbe più rivisto i suoi occhi scuri né il suo viso angelico che Botticelli in persona sembrava aver dipinto con tanta cura e con tanto, spassionato amore.
Solo per un istante il bel vampiro ricambiò la sua occhiata, ma da come lo fece a Max fu chiaro il finale di tutto quanto: si era trattato solo dell'ennesimo breve momento di pace, di una goccia di vita in mezzo a un mare di eternità vuota e insensata. Gli era comunque grato per avergli dimostrato che non tutti i vampiri erano uguali, che ve ne erano degli altri che sapevano pensare con la loro testa e non avevano paura di fare i bastian contrari, i salmoni di turno che risalivano il fiume e andavano contro la prepotente corrente del perbenismo da strapazzo molto in voga a Obyria.
Per quanto fosse assurda una cosa simile, gli sarebbe mancato. Per il resto della serata, durante la quale alla fine fece ritorno a casa e si lasciò cadere sul letto, dove trascorse ore a fissare il soffitto finché non fu costretto a chiudere le finestre per evitare di far entrare la luce del sole, la sola cosa a cui Max riuscì a pensare fu Dario. Pensò a lui e alla flebile e vuota speranza di poter un giorno rivederlo, anche solo di sfuggita, camminando per strada. Solo per un fugace attimo, non chiedeva nient'altro.
Si girò su di un fianco. Non riusciva a togliersi dalla testa l'idea che per lui quell'uomo fosse stato quasi un fulmine a ciel sereno; finalmente qualcuno era arrivato a smuovere le fin troppo tranquille e piatte acque della sua vita. Gli aveva dato una scossa indelebile. Era come se dentro di lui, proprio in quel preciso istante, un qualcosa avesse iniziato a tremare, a palpitare e fremere come un uccellino in gabbia.
Complice l'arrivo del giorno, che corrispondeva al sopraggiungere della solita letargia dei vampiri, alla fine si addormentò e per un po' tutti i suoi pensieri vennero messi a tacere.
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