𝐏𝐫𝐨𝐥𝐨𝐠𝐨. 𝐋𝐚 𝐥𝐞𝐠𝐠𝐞𝐧𝐝𝐚 𝐡𝐚 𝐢𝐧𝐢𝐳𝐢𝐨
Cosa consiglio di ascoltare: "Here Comes the Boogey Man" di Henry Hall & His Orchestra.
https://youtu.be/Xi31NAktYDw
𝟐𝟑 𝐋𝐮𝐠𝐥𝐢𝐨 𝟏𝟗𝟔𝟓
𝐂𝐚𝐬𝐚 𝐓𝐫𝐞𝐲𝐬𝐨𝐧, 𝐯𝐢𝐜𝐢𝐧𝐨 𝐓𝐨𝐩𝐞𝐤𝐚,
𝐊𝐚𝐧𝐬𝐚𝐬
Era ormai da una buona mezz'ora che la piccola Josephine se ne stava rintanata dentro il mobile in salotto, proprio lo stesso su cui era stata sistemata la televisione nuova di zecca che suo padre aveva comprato alcuni giorni prima.
Da dentro quella scatola parlante di medie dimensioni poteva tutt'ora udire il notiziario che i suoi genitori erano sempre soliti ascoltare.
L'attuale servizio era incentrato su un uomo molto cattivo che stava facendo del male a tante persone. Josephine aveva trascorso un intero anno ad aver paura di quel mostro. Ricordava di aver visto tantissime volte il viso di quell'uomo al telegiornale: immortalato in una fotografia, di aspetto piuttosto giovane e a primo acchito gradevole, ma le era sempre stato sufficiente ascoltare le cose orrende di cui si era reso responsabile per capire che quella del criminale era una semplice facciata.
Josephine Treyson premette di più la manina contro le labbra nell'udire i passi farsi sempre più vicini al suo nascondiglio.
Era successo tutto così in fretta e le cose si erano fatte sempre più strane da quando, solo una settimana addietro, aveva cominciato a vedere quello strano e buffo ragazzo dappertutto: prima fuori da scuola, poi a casa della sua amichetta Clara e in tanti altri posti, finché, quella stessa mattina, non aveva scorto la sua figura proprio a casa sua. Più volte il ragazzo aveva cercato di avvicinarla, ma avendo provato nei suoi confronti sin dal principio una paura senza nome, lei si era tenuta ben lontana da lui.
Quella mattina aveva appena cominciato a fare colazione quando, di colpo, il giovane era ricomparso fuori dalla finestra, quella sopra il lavabo dove la mamma puliva sempre i piatti. Come al solito aveva cercato di dirlo a sua madre e si era aspettata che la donna, da routine, la rimproverasse per l'ennesima volta e le ricordasse che le bugie avevano il naso lungo e le gambe corte; le aveva sempre ripetuto che mentire era peccato, che raccontare frottole conduceva le persone all'inferno e che baggianate come quella di un ragazzo dai capelli e gli occhi viola e la faccia sempre triste fossero, per l'appunto, sciocchezze. Non esistevano persone con simili caratteristiche che sua madre aveva definito balorde.
Quella mattina, però, la mamma aveva guardato fuori dalla finestra e aveva urlato, rompendo persino un piatto nel lavandino. Jo era semplicemente rimasta seduta, fissando un po' atterrita e un po' curiosa il ragazzo. Come al solito il giovanotto non aveva detto una sola parola, si era limitato a fissare entrambe con sguardo triste e... dispiaciuto. Non era ricomparso per cercare di parlare a Josephine, come le altre volte.
Pochi minuti dopo, proprio mentre la mamma stava per chiamare la polizia, ecco che tutte e due avevano udito dei rumori fuori dalla porta, quella che si affacciava sul giardino sul retro. Non era stato il ragazzo, lui era rimasto fermo alla finestra per tutto il tempo, immobile, come in attesa di qualcosa.
Qualcun altro aveva preso a calci la porta e poi era entrato.
Sua madre, spaventata, aveva posato la cornetta e preso in braccio lei, portandola al mobile e dicendole di nascondersi, come quando giocava a nascondino. Quasi percependo che qualcosa di brutto presto sarebbe accaduto, Jo non aveva protestato e aveva dato retta alla mamma, obbedendo all'ordine di stare zitta e di non uscire per nessun motivo da lì.
Era stato difficile fare come le era stato detto, perché dopo un po' aveva sentito sua madre parlare con qualcuno, poi delle grida orribili e penetranti, rumore di oggetti andati in frantumi e, dopo un lungo silenzio, un leggero tonfo sul pavimento, simile a qualcosa di pesante caduto a terra.
Nei minuti seguenti dei passi avevano iniziato a fare il giro della casa. Li aveva sentiti risuonare per quella che le era sembrata un'eternità, specialmente dentro quel buco stretto e buio.
Caldo, faceva così tanto caldo lì dentro, e Josephine sudava e tremava all'unisono. Quel gioco non le piaceva. Perché la mamma non era tornata a dirle di uscire? Chi c'era in casa? E quel tonfo?
I passi si fermarono e non ci volle chissà quanta intelligenza alla piccola per capire che quella persona si trovava di fronte al mobile.
«...Il pluriomicida Winston Harrison Fawkes pare essersi dileguato da ormai diversi giorni. Le autorità, attualmente, brancolano ancora nel buio e l'intera città di Topeka è avvolta nel terrore che Fawkes possa colpire di nuovo. Secondo gli inquirenti...»
La voce del giornalista si arrestò di colpo. Probabilmente la televisione era stata spenta.
Nella stanza calò dunque un teso, denso silenzio, finché, in maniera attutita e ovattata, Josephine non udì qualcosa di appuntito e metallico strisciare sul mobile, battere su di esso in modo lento, ritmicamente, cosa che le fece venire in mente il suono di un lugubre e strano tamburo. Una voce di uomo risuonò nel salotto. Non era assolutamente quella di sua madre, poco ma sicuro, ma nemmeno quella di papà. Papà aveva una voce chiara e bella, calda, le piaceva ascoltarla. No... non era lui. Quell'uomo aveva la voce rauca, gracchiante come quella di un corvo e, più di tutto il resto, sgradevole e gelida come l'inverno che strisciava sotto i vestiti quando erano troppo leggeri. Forse in circostanze normali sarebbe stata bella, persino simile a quella del padre di Josephine, ma la cattiveria, l'istinto omicida, l'avevano plasmata e distorta.
«Esci fuori, bambina. Vieni fuori a giocare, non ti farò niente.»
Josephine scosse il capo energicamente, trattenendo a stento un singhiozzo. Delle calde lacrime le affollavano il paffuto e roseo viso, reso ancor più rosso dal caldo soffocante.
Aveva tanta paura e sapeva di non poter contare sull'aiuto di papà, perché era partito per il lavoro prima che lei si svegliasse.
La mamma non si era più fatta sentire dopo quel fracasso e la piccola sentiva che qualcosa di brutto le era accaduto. Doveva essere così, altrimenti non avrebbe mai permesso a quell'uomo di terrorizzarla.
«Esci, avanti!»
La voce, prima paziente, stava iniziando a innervosirsi e arrabbiarsi.
Josephine sobbalzò al suono di un gran fracasso di mobili che venivano presi a calci, compreso quello dentro il quale lei si trovava. Le sfuggì un singhiozzo e sussultò di nuovo, ma riuscì almeno a non gridare.
Cominciava a pensare di dover disobbedire alla mamma e di dover scappare per chiedere aiuto in città. Topeka distava poco. Forse, se fosse riuscita a correre abbastanza forte, magari ce l'avrebbe fatta a fuggire.
Sapeva, sentiva che quell'uomo le avrebbe fatto del male molto presto, se non si fosse decisa a fare qualcosa, a lottare.
«Non lo ripeterò un'altra volta, Josephine: esci subito fuori allo scoperto, prima che il Lupo Cattivo si arrabbi sul serio!»
Furono quelle parole, insieme all'ennesimo rumore, a dare alla bambina la forza e la disperazione di spalancare lo sportello e precipitarsi fuori dal salotto e via, via verso la porta di casa, approfittando della disattenzione dell'individuo. Tentò con tutta se stessa di non far caso all'ambiente messo a soqquadro e alle macchie scarlatte e fresche qui e là, ovunque, lungo l'ingresso principale.
Il cuore le batteva così forte che la gola le pulsava, il fiato corto era più dovuto alla paura che allo sforzo.
Eccola lì, la porta! La salvezza!
Corse di più e finalmente la raggiunse. Le mani le tremavano ed erano sudaticce, cosa che le procurò non poca difficoltà mentre si sporgeva sulle punte delle scarpette e con le dita cercava di girare il lucido pomello. Ci riuscì e si ritrovò di fronte quello strano ragazzo. Le scappò un piccolo urlo e per la prima volta la bimba lo sentì parlare: «Scappa, corri più forte che puoi, Josephine. Vattene da qui, lui sta arrivando», il tono era accorato e teso.
Jo, con gli occhioni castani spalancati, non riuscì a muoversi, a fare niente. Scosse la testa, incerta tra il provare a sgusciare fra le gambe del giovanotto, raggiungere la porta sul retro, oppure ancora... fidarsi.
Quel ragazzo le metteva i brividi e lei non riusciva più a riporre fiducia in nessuno.
Voleva solo la mamma. Già, ma dov'era la mamma? Perché non l'aveva vista, mentre fuggiva?
Indietreggiò un pochino, ma ciò spinse il giovane a chinarsi verso di lei e a tenderle una pallida mano. La bimba fissò le sue dita bianche, quella pelle che pareva quasi trasparente. Sembrava risplendere di propria ed evanescente luce.
Dei passi veloci e una voce che le ordinava di fermarsi, proprio alle sue spalle, la convinsero ad accettare l'aiuto del ragazzo. Lo strano figuro chiuse con un secco tonfo la porta in faccia all'uomo, per poi stringere saldamente la mano a Josephine e gridarle di correre, di andare con lui.
Corsero entrambi, forte, la bimba col fiato corto e i polmoni che le esplodevano, mentre invece il suo bizzarro salvatore pareva non soffrire affatto né per il caldo torrido né per lo sforzo, ma non le importava, non in quel momento.
Era salva, lui l'aveva aiutata. Tuttavia, quando finalmente raggiunsero la città e infine la polizia, si bloccò e in lacrime disse al ragazzo che dovevano tornare indietro, che la mamma era ancora lì dentro con quel mostro.
Eppure lui non disse nulla, si limitò a fissarla con lo sguardo ancora più malinconico e rattristato del solito. Le accarezzò i capelli con delicatezza, un gesto il cui calore le ricordò un po' quello del suo papà.
«Mi dispiace, piccola Josephine. Sii forte come lo sei stata poco fa.»
La bimba distolse per qualche secondo lo sguardo e quando esso tornò sul ragazzo dai capelli viola, si rese conto che lui era sparito nel nulla. Si era dissolto come fumo, lasciando lei, una minuta e tremante bambina di sei anni, proprio di fronte alla stazione di polizia.
Quel giorno, per la prima volta in un anno, il pluriomicida Winston Fawkes aveva fallito la propria missione sanguinaria. Senza neppure volerlo aveva lasciato una piccola superstite, una testimone e fu proprio grazie a lei che l'assassino venne catturato, dopo una breve latitanza.
Malgrado ciò, Josephine non rivide mai più sua madre né quel misterioso ragazzo dai capelli e gli occhi color lavanda.
Dopo la fine del dolore e della paura vissuti da Topeka e dall'intero stato del Kansas, da quel giorno nacque la leggenda urbana di Lavender Boy, ovvero il bizzarro giovane che apparentemente sembrava mostrarsi e farsi vivo per avvertire la gente di un pericolo o di una disgrazia imminenti. Forse, ancora, era lui stesso portatore di morte e sventura, chi poteva saperlo!
D'altronde le leggende non sarebbero tali se si conoscesse la verità dietro di esse, no?
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