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𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝐈𝐈. 𝐈𝐥 𝐑𝐚𝐠𝐚𝐳𝐳𝐨 𝐜𝐨𝐥 𝐕𝐢𝐨𝐥𝐢𝐧𝐨


Cosa consiglio di ascoltare: ‟Big Bad World" di Kodaline.

https://youtu.be/UJ5t0LdxLho

Con reticenza e vergogna sollevò il foglio del proprio compito in classe e lo consegnò al professor Donoghue, ma non si arrischiò a guardare l'uomo in faccia. Si mordicchiò il labbro inferiore e come sempre faceva quando era terribilmente agitata o ansiosa, la sua gamba accavallata sopra l'altra prese a ballettare, nemmeno fosse stata vittima di un principio di Parkison fulminante.

Aspettava che Donoghue, un individuo maschile sulla cinquantina o persino sulla sessantina, con capelli bianchi e un viso tanto duro quanto terribilmente arcigno, passasse oltre.

Di nuovo le sue speranze si rivelarono vane e non trascorsero che pochi nanosecondi prima che Amelia si rendesse conto di avere su di sé lo sguardo del professore colmo di glaciale giudizio. La ragazza deglutì a vuoto e sollevò adagio gli occhi. «Stavolta si è veramente superata, signorina Spencer. Questo foglio è talmente immacolato che servirebbero degli occhiali da sole per guardarlo» la apostrofò duramente Donoghue, come al solito dotato di lingua e battute taglienti.
I compagni di Amelia rivolsero a quest'ultima uno sguardo compassionevole e lei dovette trattenersi dallo sbottare e chieder loro in malo modo che diavolo avessero da fissarla come se fosse stata un cagnolino zoppo e randagio.

Odiava certi sguardi.

Irrigidì la mascella e tornò a guardare il professore, rimanendo in silenzio. Era meglio stare zitti, piuttosto che rispondere come avrebbe voluto invece fare e beccarsi, magari, una punizione.

Lei era sempre stata a quel modo: pronta a sfidare chiunque senza troppo badare al posto che una persona occupava socialmente, e non le piacevano le battutine subdole di Donoghue.

Essendo quell'aula dotata di banchi singoli, James era sulla fila accanto e il suo posto, dunque, in posizione parallela a quello dell'amica. Dal ragazzo provenne un leggero sospiro rattristato, cosa che attirò l'attenzione di Donoghue, il quale si voltò a guardare il giovane mentre ritirava pure il suo di compito. Osservò con aria spaesata e stupita il foglio quasi del tutto bianco, poi guardò James con tanto di occhi.

«Signor Peterson, mi meraviglio di lei!» fece stizzito, osservando ancora una volta quella sorta di cimitero su carta.

Il test era quasi del tutto immacolato, incompleto, e non era così difficile capire le molteplici ragioni della stizza dell'uomo: per prima cosa, James era quello che tutti definivano il cocco di ogni professore, compreso Donoghue, e se era così osannato, non c'era da stupirsi che l'aver lasciato un test in bianco o quasi avesse suscitato tanto scalpore.

Il ragazzo tamburellò con imbarazzo le dita sul banco. «M-Mi dispiace» biascicò. Anziché esser paonazzo, era pallido come un cencio e con un sottotono leggermente verdognolo, pareva a un passo dal sentirsi realmente male. Quella era la prima strigliata che riceveva da parte di un insegnante per via di un compito andato male. Tuttavia... di sicuro era il pensiero di ciò che avrebbero detto i suoi genitori ad angosciarlo, e non la ramanzina che stava per arrivare dalla bocca del professor Donoghue, contratta in una posa severa e di chiaro, sconcertato rimprovero.

Amelia guardò il suo migliore amico come se fosse del tutto uscito di senno.

Che storia era quella? Poco prima di entrare in classe James aveva ammesso di ricordare lo stesso gran parte degli argomenti!

«Male, molto male. Il votaccio che sicuramente prenderà influirà molto sulla sua media» concluse il professor Donoghue severo, passando infine oltre. Era chiaro che avesse parlato facendo uso di una grossa iperbole, ma quella frase restava fra le più efficaci all'interno del complesso habitat scolastico e Peterson diede subito l'idea all'intera classe che di lì a poco si sarebbe sotterrato per l'imbarazzo.

Amelia scrisse in fretta un bigliettino all'amico e dopo averlo accartocciato, lo lanciò sul suo banco. James esitò prima di leggerne il contenuto e infine rispose, scrivendo che le avrebbe spiegato tutto durante la ricreazione. Lei sbuffò e si accasciò sulla seggiola così in avanti da sfiorare quasi con il mento il banco. James a volte sapeva esser snervante, pur senza farlo apposta. C'erano occasioni in cui la ragazza avrebbe tanto voluto conoscere fin nei minimi dettagli il meccanismo all'interno del cervello del suo migliore amico.

Il resto delle lezioni, da lì in avanti, trascorse in modo lento e monotono. Durante un paio di esse Amelia e James dovettero come al solito separarsi per andare in aule diverse, cosa che accrebbe di molto l'insofferenza di entrambi. L'una anelava con impazienza al confronto, l'altro invece ne aveva il timore. Quando finalmente arrivò la pausa che la ragazza fino ad allora tanto aveva atteso, insieme a un taciturno James uscì dall'aula di storia. Dato che almeno aveva smesso di piovere e l'aria era abbastanza frizzante e non così spiacevole, scelsero di andare in cortile a parlare, mentre intorno a loro regnava il solito chiasso e cicaleccio.

Un'altra stranezza di quel bizzarro James di quella mattina si rivelò essere la sua improvvisa inappetenza, del tutto insolite e ingiustificata.
Amelia, invece, portò con sé una fetta di torta alle mele presa alla mensa; se la mangiò nel giro di cinque minuti, battendo ogni record, e si affrettò così tanto perché voleva sapere ad ogni costo cosa avesse James che non andava.

Non si era mai comportato a quel modo, era veramente troppo strano e non gli avrebbe permesso di tenersi tutto dentro. Era successo qualche altra volta in passato e quando alla fine il ragazzo aveva vuotato il sacco, non era mai stata un'allegra chiacchierata.

Mentre Amelia sfilava una sigaretta dal pacchetto che aveva in tasca e se la accendeva, ben attenta a sincerarsi che non ci fossero nei paraggi dei professori rompiscatole, di nuovo tornò a studiare l'amico con sguardo a dir poco penetrante e con lo stesso zelo di un cane antidroga in cerca di una traccia da seguire.

James era più ingenuo di quanto egli stesso pensasse, se credeva di poter cavarsela con una delle sue solite scuse, quelle che usava sempre per minimizzare i problemi che lo angustiavano.

Elly gli voleva un gran bene, ma certe volte avrebbe voluto strangolarlo come un pollo per quella sua fissa a dir poco masochista di non prender mai sul serio certe situazioni, a cominciare dal bullismo massiccio che subiva spesso e che prontamente continuava a nascondere a casa. Non denunciava mai quegli episodi parlandone magari con un professore o, meglio ancora, con la preside. Amelia glielo aveva detto e ripetuto che le opzioni erano quelle, mentre la terza era che lui finalmente cominciasse a tirar fuori gli artigli e reagire, ma lei sapeva che non sarebbe stato capace di prendere a calci nessuno, neppure un sasso. James era un tipo mansueto, discreto, in poche parole: l'anello mancante fra una marmotta e un essere umano.
Era snervante. Lei al suo posto avrebbe fatto fuoco e fiamme, altro che subire, restare a terra e prendere le botte.

Erano seduti su uno dei tavoli di legno – muniti di panche apposite – messi qui e là nel cortile sul retro, a poca distanza dal campo dove si tenevano sempre le partite di football scolastiche.

Amelia ebbe l'impulso di sbottare e scuotere James come una maracas, poi però pensò che sarebbe stato molto meglio restare calma e non aggredirlo. Rischiava soltanto di farlo chiudere ancora di più. 

Quel Peterson! Un paguro mai avrebbe potuto eguagliare la sua tendenza a ritrarsi subito nel guscio al minimo accenno di tempesta!

«Che è successo durante il compito in classe? Non dirmi che sei stato colpito da un'amnesia improvvisa!» esordì Amelia, tentando di fare una battuta, ma fallì perché il tono era estremamente serio.

James la guardò per alcuni istanti, poi tornò a fissare un punto imprecisato. «N-Non mi andava che tu fossi l'unica a prendere l'insufficienza. Ricordavo quasi tutte le risposte, ma non riuscivo a scriverle. Ogni tanto tornavo a guardare verso di te e vedevo il tuo foglio restare bianco e allora... beh, ho deciso che non sarebbe stato un dramma fingere per una volta di non sapere un bel niente.» La schiettezza con cui ammise subito tutto risultò a dir poco spiazzante e Amelia, per sicurezza, lanciò una breve occhiata alle proprie braccia, per controllare che fossero ancora al loro posto e non fossero cadute sull'erba.

Dopo esser rimasta ad occhi sbarrati e impietrita, lo afferrò per un braccio e lo fece chinare verso di sé, occhi negli occhi. 

«Fermo, fermo, fermo! Vorresti dirmi che lo hai fatto apposta di consegnare il foglio in bianco? Dico, io, sei impazzito? E me lo dici così?»

Peterson fece un debole e nervoso sorriso.  «I-In un certo senso... gli amici sono quelli che, se ammazzi qualcuno, a-arrivano subito e ti aiutano a far sparire il cadavere, no?» replicò, guardandola incerto, come se si aspettasse che da un momento all'altro lei sarebbe esplosa a mo' di vulcano.

Elly non seppe se mollargli una botta in testa per la cosa in sé o per quella pessima uscita. Nel dubbio, per la rabbia e l'indignazione, gli mollò un leggero pugno sulla spalla. «Idiota di un Peterson! Non capisci niente! Ora fai pure il kamikaze, di' un po'?»

«Non volevo farti arrabbiare» pigolò lui, facendosi piccolo, come per sparire.

«Potevi pensarci due volte prima di fare una simile cazzata» replicò burberamente lei. «E poi vieni a piangere perché i tuoi ti tormentano e pretendono sempre la luna da te. Cosa credi che faranno dopo aver saputo dell'insufficienza? Meglio se fai le valigie e ti trasferisci in Repubblica Dominicana! Almeno ti abbronzerai un po'! Che razza di scemo!»

«I-Io...»

«Ecco, lo vedi? A volte non ragioni proprio! Lo dico e lo ripeto: non capisci un tubo. Ah, Dio! Qualcuno mi fermi perché sto per prenderti a schiaffi.»

James non disse nulla e si limitò a massaggiarsi il braccio sul punto colpito.

La ragazza sospirò e gli lanciò una breve occhiata dispiaciuta. Forse aveva esagerato. In fin dei conti lui lo aveva solo fatto per una sorta di solidarietà. Nemmeno fosse la prima volta che si prendeva in spalla anche i suoi, di problemi. «Scusa, non volevo urlarti addosso.» In parte era ancora innervosita per l'accaduto avvenuto alcune ore prima fuori da scuola, quando aveva visto quello strano soggetto; poi si era aggiunto il compito andato male, perciò aveva semplicemente incassato troppa frustrazione e aveva finito per scaricarla addosso a James. Per scusarsi ulteriormente gli accarezzò una spalla, la stessa che prima aveva percosso.  «Grazie, Jay. Il fatto è che non voglio causarti altri problemi e non voglio che tu vada a fondo con me. Sei troppo bravo e fatichi ogni santo giorno per dare il massimo. Non farti problemi la prossima volta, okay? Se anche mi bocciassero e tu invece andassi avanti, sarei comunque fiera di te. Meriti il college più di chiunque altro, e sai che ci tengo che tu insegua i tuoi obiettivi.»

Peterson abbozzò un sorriso. «Non ti bocceranno, sai che ti darò una mano, e comunque non fai così schifo.»

«Okay, ma basta con il fingerti un somaro, chiaro? La prossima volta passami un bigliettino come al solito e stop.»

«Ricevuto.»

La conversazione si interruppe quando lui lanciò una breve occhiata verso il piccolo capannello di ragazzi che chiacchieravano e schiamazzavano. Erano i soliti soggetti che se ne andavano in giro con la giacca appartenente alla squadra di football scolastica. Amelia non provava molta simpatia per quella gente e, in tutta onestà, il football neppure le piaceva. Considerava noiosi gli sport in sé per sé.

Si domandò perché James stesse guardando verso quel gruppo con aria pressoché imbambolata. Non era la prima volta che accadeva, ma ultimamente succedeva sempre. Aveva alcuni sospetti e non erano per nulla buoni né degni di esser considerati. James non dava l'impressione di aver paura di loro, quindi era da escludere che lo avessero trattato male come altre carogne in giro per la scuola.

Amelia non sapeva davvero più cosa pensare. Gli picchiettò sulla spalla destra. James si riscosse, sussultando leggermente. Si guardò attorno e poi concentrò su di lei. «R-Rientriamo, dai» biascicò. «Fa troppo freddo e non voglio rischiare di ammalarmi.»

«Eh? Ma cosa...», la ragazza lo fissò sconvolta. Si sentì a dir poco presa per i fondelli. Sapeva benissimo che James raramente si ammalava, a dire il vero quasi mai. Malgrado fosse mingherlino, aveva la resistenza di un cavallo da tiro e comunque era palese che avesse appena accampato una scusa, per di più balorda.

«V-Vieni, Elly» fece più frettoloso che mai Peterson, facendola alzare e trascinandola quasi per un braccio.

«Ma che diavoloaccio... ehi! Non tirare così! Aspetta un po'!»

«Su, su, andiamo!» incalzò stridulo l'altro.

Non ci fu verso di farlo ragionare né desistere. Appena tuttavia furono nel corridoio, Amelia gli chiese cosa diamine gli fosse preso all'improvviso. «Insomma, prima eri tutto tranquillo e poi ecco che fai lo schizzato!» Non fece nemmeno in tempo a dire ciò, che James si scusò con lei e disse senza tanti giri di parole di dover andare in bagno. «Manca poco alla fine dell'intervallo, aspettami direttamente in classe!»

La giovane Spencer gonfiò le guance e lo guardò sparire nella toilette maschile a pochi metri da dove si trovavano. «Ultimamente è matto col botto» bofonchiò irritata. Tra un borbottio e l'altro, decise di avviarsi.

James, nel frattempo, si era rinchiuso in uno dei gabinetti, nel tentativo di darsi una calmata e aspettare che la solita scenata da mammola passasse. Rilassò la schiena contro la porta e premette le mani sul viso, inspirando ed espirando.
Sta' calmo, sta' calmo, si ripeté.
Gli tremavano le gambe come due blocchi di gelatina e sapeva di esser rosso in viso come un lampone maturo.

Non poteva andar avanti così, doveva smetterla e affrontare le proprie paure o, ancora meglio, la realtà.

Poco a poco riuscì a calmarsi, ma non durò molto. Una voce proveniente da fuori e le parole da essa accompagnate gli fecero strabuzzare gli occhi e impiantarono un altro tipo di paura nel suo animo. Deglutì a vuoto, sperando che non lo avessero visto entrare in bagno.

Fa' che non mi abbiano visto. Ti prego, ti prego!

Sentì di nuovo parlare il ragazzo e serrò gli occhi lucidi come specchi d'acqua. Non voleva esser picchiato di nuovo, e non per le botte in sé per sé, ma per non far preoccupare ancora una volta Amelia e la governante che lavorava a casa sua da prima che lui nascesse. Beth gli voleva bene e non avrebbe tollerato ancora per molto di curare le ferite che di tanto in tanto riportava dopo pestaggi troppo pesanti.

«Che hai oggi, Sapientone? Mamma e papà ti hanno tolto il ciuccio?» 

Seguirono le risate di due suoi compagni di classe, i soliti bulletti. La cosa che non gli tornò, fu il rendersi conto che non potevano sapere che lui era lì dentro. Non c'era nessuno quando era entrato in bagno e le voci non erano vicine al gabinetto, ma abbastanza lontane, e il bagno era piuttosto grande. C'era qualcun altro. Sapeva di non essere la loro unica vittima, ma quel soprannome carico di disprezzo lo avevano sempre riservato solo e soltanto a lui. Una sorta di spregevole trattamento d'onore.

Deglutendo a fatica, spaesato e intimorito, aprì di poco la porta, solo per osservare i due ragazzi sghignazzare e lanciare sguardi divertiti e sprezzanti verso l'altra parte del bagno.

Ma che diavolo sta succedendo? 

«Adesso nemmeno rispondi o piagnucoli più? Sua Maestà è troppo in alto per parlare con quelli come noi?» incalzò uno dei due, Samuel.

James, non facendocela più e deciso a scoprire cosa stesse succedendo, aprì di più e riuscì a sbirciare fuori, attento a non far scricchiolare la porta.  Ciò che vide a momenti gli procurò un infarto. Le mani presero a sudargli.
Non poteva essere...
Che stava succedendo? Perché c'era un ragazzo tale e quale a lui? Perché, piuttosto, non lo aveva notato quando era entrato poco fa?

Lo osservò meglio, sistemandosi gli occhiali sul dorso del naso con dita tremanti. Miseriaccia, erano identici e... no, no, non poteva essere! Forse era solo una sua impressione, anzi doveva esser così!

Era decisamente un individuo bizzarro, comunque: in silenzio, con aria malinconica e quasi vuota, se ne stava vicino alla finestra del bagno. La schiena era addossata al muro e il collo voltato di lato, il viso rivolto verso il vetro. Stava lì, immobile come una statua. Sulle sue labbra c'era una specie di amara e arresa mestizia e come se tutto ciò già non fosse stato abbastanza inquietante, a colpire realmente James fu anche il colorito di quel tizio, per giunta vestito proprio come lui: un pallore cadaverico, la mingherlina mole era evanescente e in parte semitrasparente. Non sembrava del tutto materiale, nemmeno la sua felpa insolitamente sporca di macchie scure qui e là o i jeans strappati parevano sul serio palpabili.

Era sangue quello che aveva prodotto tali macchie? Era sangue il rivolo scuro ormai seccatosi che vedeva su un angolo della bocca?

James fu assalito da qualcosa che mai, prima di allora, aveva sentito. Un dolore senza nome e lontano, eppure incredibilmente vicino, pungente come una spina nel cuore, asfissiante. I suoi battiti accelerarono, nel suo petto c'era ormai un purosangue imbizzarrito che correva all'impazzata. Le gambe gli stavano per cedere. Finalmente capì cosa stava realmente provando: terrore. Era terrorizzato.

Gli altri due ragazzi, scambiandosi un'occhiata confusa, si avvicinarono e ancora una volta tentarono di approcciare il clone con le solite battute: «Che ti è successo, Peterson? Sembra che un treno ti sia passato sopra».

Lo avevano chiamato col suo cognome. Allora non era solo un'impressione, era tutto reale.

Quando il più alto fra di loro tentò di dargli uno spintone, ritrasse quasi con orrore e sgomento la mano, la quale era praticamente passata attraverso la spalla dell'altro James. Il clone spostò lo sguardo sul ragazzo e rimase ancora una volta in silenzio, squadrandolo con i grandi occhi tristi e di un azzurro spento, opaco. Occhi che sembravano privi di vita alcuna. Al vero Peterson ricordarono quelli degli animali impagliati.

Jay tentò di sporgersi di più, ma come al solito fu sbadato e cadde a terra con un tonfo, spalancando così la porta del gabinetto. I due bulli si voltarono di scatto e, furenti, lo raggiunsero, lo agguantarono e lo spinsero contro il muro che separava un gabinetto dall'altro.

«Sei in vena di scherzi? Cosa stavi cercando di fare? Come hai fatto a farlo?» gli ruggì in faccia quello che aveva tentato di toccare il suo clone, adesso sparito nel nulla.

Jay, tremando come una foglia, rispose: «I-Io non lo so, lo giuro» pigolò a voce bassa.

«Non lo sai, eh? Allora ti rinfreschiamo noi la memoria!»

James non fece in tempo a prepararsi al pugno che un istante dopo si riversò sul suo stomaco, seguito da un altro in faccia. Lo lasciarono andare solo perché era appena entrato un altro ragazzo, il quale tuttavia agì da codardo e fece finta di nulla, limitandosi a lavarsi le mani e a ignorare lo sguardo implorante di Peterson. «Prendi pure questo, stronzetto!» Un altro calcio, sempre allo stomaco, gli fece mancare il fiato. James si piegò su se stesso, percependo un retrogusto di ferro e ruggine, il sapore del sangue, in bocca. «Andiamo, dai. Questo coniglio non ne vale nemmeno la pena.» Li udì allontanarsi e uscire, non prima di avergli dato del senza palle, testuali parole.

Si portò una mano alla bocca e la ripulì dal rivolo di sangue. Dovette rimettersi in piedi da solo con estrema fatica, perché tanto sapeva che non avrebbe ricevuto aiuto alcuno. Era abituato a quel trattamento, ma ciò non rendeva la situazione più facile da sopportare. La sola cosa a consolarlo era che ormai si era arrivati al giro di boa. Soltanto qualche altro mese e poi tutto sarebbe finito. Resistere, doveva solo fare questo.

Premendo una mano sullo stomaco, in attesa che passasse il dolore, decise con quella libera di darsi una ripulita e lavare via il sangue  dalle labbra, sperando che i lividi avrebbero tardato il più possibile a mostrarsi. 

Non ci vedeva chiaramente, in quel momento l'unico impulso era di piangere e alla fine tale bisogno venne accontentato. Si appoggiò con entrambe le mani ai lati del lavandino, col capo chino, come se sulle spalle avvertisse un invisibile e insopportabile peso. A volte gli capitava di fermarsi a pensare e di sentirsi davvero stanco di tutto, di chiedersi che cavolo ci fosse di sbagliato in lui e perché tante cose stessero andando così male. Se lo domandava e non sapeva rispondersi, perché forse non c'era una vera e propria risposta. Era così e basta, e nessuno poteva farci niente.

Aveva provato a parlarne con suo padre e lui gli aveva laconicamente risposto di restituire tutte le botte con tanto di interessi, di comportarsi finalmente da uomo e imparare a cavarsela da solo. Ciò era successo più o meno un paio di anni prima e da allora James aveva rinunciato a parlarne nuovamente coi genitori. Tanto non lo avrebbero ascoltato, nessuno voleva ascoltare uno come lui piagnucolare e lamentarsi. Suo padre e sua madre avevano ben altro a cui pensare e cose più importanti da sistemare.

Lei lottava ogni giorno per non litigare di continuo con il marito, e il padre di James spesso era troppo preso dall'altra famiglia per badare a ciò che accadeva in casa.

Non era la fine del mondo essere pestati ogni tanto, c'era chi stava molto peggio di lui e questo bastava a convincerlo a non pensarci più del dovuto e ad andare avanti.

Riaprì il rubinetto e si rinfrescò nuovamente il viso, respirando a fondo e tentando di calmare la crisi di pianto appena sopraggiunta. Si sentiva così... patetico, a volte solo, per quanto la compagnia di Amelia avesse sempre fatto miracoli. Tuttavia non bastava a ricolmare il vuoto che da tanto sentiva all'altezza del cuore. C'erano momenti in cui avrebbe dato qualunque cosa per essere un altro, una persona diversa con una vita differente, nonché apprezzato da più persone possibili. Appartenere a una famiglia ricca non risolveva tutti i problemi, nel suo caso li causava soltanto.

Appena ebbe tolto le mani dal volto, sopraggiunse qualcosa di diverso: paura e orrore, mai provati così intensamente prima di allora. Fece uno scatto indietro, lo sguardo fisso sullo specchio, le gambe che iniziavano a tremare e a diventare di nuovo più instabili della gelatina. Le sue labbra si schiusero, come per lasciar andare un grido, ma nessun suono provenne da esse.

Di nuovo si era palesata quella sua copia emaciata e malmessa con quell'orrido pallore sul viso e quegli aloni violacei attorno agli occhi. Erano così spenti, vitrei... morti. Erano veramente occhi senza vita. Non aveva l'aspetto di un vivente, ma di qualcuno che aveva attraversato l'inferno e ne era uscito abbastanza male.
Cos'era quel sangue sui suoi vestiti logori? Era chiaro che si trattasse di quello. E la palese debolezza fisica, quell'affaticamento generale? Sembrava un cervo ferito ormai in procinto di ricevere il colpo di grazia da parte del cacciatore.

«C-Chi sei?» mormorò James con voce incrinata.

Nessuna risposta. Si sentì un dannato pazzo a parlare con una semplice immagine riflessa in uno specchio. Non poteva avere un aspetto del genere, gli era andata di lusso coi bulli, almeno per una volta!

Cosa davvero lo spaventava, paradossalmente, era lo sguardo apatico, il quale non mutò di una virgola neppure quando il riflesso si mosse in maniera indipendente sotto i suoi occhi sbarrati, sollevando pian piano una mano e posandola sullo specchio. Lo ricolmò di terrore vedere poi quella mano lasciare una traccia scarlatta, che si fece via via strascicata mentre le dita scivolavano e sparivano oltre il limitare della superficie riflettente.

Un pensiero, anzi un ricordo, lo fece tremare più forte: una volta suo nonno aveva detto di aver avuto un'esperienza simile, sebbene se ne fossero accorti due suoi amici. Avevano detto di averlo visto uscire da una stanza e poi ecco che, tornando a chiacchierare, lo avevano trovato seduto ancora sul divano, con lo sguardo vuoto e assente.

Si erano sentiti dei pazzi quando poi il loro vero amico era ritornato e quella specie di copia era svanita di colpo.

Finalmente un nome riaffiorò dai ricordi: doppelgänger. Lo spettro di una persona del tutto tale e quale ad essa. Rimembrò di aver letto qualcosa sull'argomento e di essersi fatto una bella risata per l'assurdità e la totale mancanza di scientifiche prove circa il fenomeno.  La logica per lui era sempre stata alla base di tutto.

Gli parve di sentire la voce di suo nonno in persona pronunciare quel nome in perfetto accento tedesco: ‟Der doppelgänger".

‟Come se spiritelli e fantasmi esistessero, poi!" si era detto, chiudendo il pc, senza pensare più all'argomento.

C'era da aggiungere che suo nonno era sempre stato una persona molto bizzarra, sin dalla gioventù, e tanti avevano detto che il suo successo era andato di pari passo con la pazzia. Ma allora ciò significava che anche lui era diventato pazzo.

Se davvero lo fossi, non starei qui a chiedermelo, no?

Gli sarebbe esplosa la testa con tutti quei ragionamenti. Nel pensare non si accorse subito che il presunto doppelcoso aveva appena abbandonato lo specchio per avvicinarsi a lui. In qualche maniera ne era uscito e lo stava fissando, sempre in silenzio. Non proiettava alcuna ombra e nello specchio era rimasto solo il riflesso del vero James, il quale avrebbe voluto scappare, ma si sentiva imprigionato nella totale immobilità. La sua copia finalmente parlò e la voce aveva una cadenza lenta e funerea, un tono rauco e appena udibile, una sorta di flebile rantolio. Parlò e lo fece avvicinandoglisi del tutto, sussurrandogli all'orecchio: «Sta' attento, James. Sta per accadere».

James si chiese, disperato, cosa stesse per accadere e perché avrebbe dovuto star attento. Guardò l'individuo a occhi spalancati. Tra le tante altre cose, si diceva che i doppelgänger fossero capaci persino di parlare col loro corrispettivo terreno, di rivelare segreti più o meno importanti e persino il futuro. Per alcuni erano una sorta di gemelli malvagi, per altri apparizioni che si palesavano in sogno, per altri ancora entità incorporee visibili da chiunque.

Per James, fino a solo venti minuti addietro, una montagna di frottole per creduloni. Forse era svenuto e stava semplicemente avendo una specie di incubo. Anzi, era assolutamente così. I doppelgänger non esistevano. Non esisteva niente che non si potesse spiegare logicamente. Erano tutte scemenze!

Convinto dunque di essere in un sogno, non si allarmò più di tanto quando sentì la propria voce rispondere a quella sorta di spettro, entità o qualunque cosa fosse. Probabilmente solo frutto del suo subconscio, anche se tale dettaglio non era molto rassicurante. «I-Io non capisco. Cosa intendi dire? Cosa sta per succedere?» mormorò.

«Quando capirai sarà troppo tardi.» L'apparizione arretrò, rivolgendogli un'ultima tetra occhiata, prima di uscire e andarsene per i fatti propri. James raggiunse l'uscita, si sporse e lo osservò camminare tra gli altri ragazzi lungo il corridoio. Alcuni si voltarono a guardare la sua copia con sguardo stizzito o preoccupato, sicuramente per lo stato generale in cui versava. Il giovane Peterson per un attimo pensò che tutti potessero udire la voce di quell'entità intonare con voce bassa e spenta una specie di filastrocca a ritmo di canzoncina. Il suo sospetto di essere in un sogno si fece più forte quando si rese conto che solo lui sentiva la straziante e inquietante melodia. Era nella sua testa e parlava chiaramente di uno spettro o simili. Non era molto esplicito il significato. Trattava, però, senza dubbio di qualcuno che se ne andava in giro ad uccidere malcapitati. Un certo Violinista.

James, solo per un attimo, pensò a suo nonno, ma la filastrocca parlava in realtà di un ragazzo.

The boy with the violin
has fair eyes and skin.

He wanders by the streets
vibrating his loved strings.

If you'll walk down the street
and you'll start to hear that sound
you'd better not to be around.

'Cause if the boy will see ya there
he will be your worst nightmare.

With a song, a sad face and a sigh
he will look ya, straight in the eye.

His violin will start to play
and you won't be able to not obey.

He will approach and look at you
and with his strings and music
he'll strangle you.

If you do not want to die
never stand in the way
of the Violin Boy.

Do not ever look at him
in the eye.

Traduzione [N.B. Potrebbe perdere un po' di musicalità, ma il senso rimane invariato]

Il ragazzo col violino
ha occhi e capelli chiari

Vaga per le strade
e sollecita le amate corde

Se ti aggiri per le vie
e cominci a udire le sue melodie
meglio per te non essere nei paraggi

Perché se il ragazzo ti scoverà
il tuo peggior incubo egli diventerà

Con una canzone, un viso amaro e un sospiro,
dritto negli occhi ti guarderà

Il suo violino a suonare comincerà
e non potrai più far a meno a lui d'obbedire

Si avvicinerà, ti guarderà,
con le sue corde e la sua musica
ti strangolerà

Mai incrociare il suo cammino
se morir non vorrai

Mai negli occhi guardarlo dovrai.

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