III. Una grande e infelice famiglia di dannati
Nota Iniziale
Tutto quello che leggerete in questo capitolo, o quasi, è stato inventato di sana pianta da me. Ricordo, quindi, che mi sto distanziando dal mito di Orfeo e, allo stesso tempo, mi sto attenendo solo in minima parte alle versioni originali della sua storia! Buon proseguimento!
P.S. Questa è senza dubbio la storia più breve che abbia mai creato! xD Spero che vi sia piaciuto questo breve salto nel passato del Principe della Notte!
In un primo momento pensai stupidamente che Orfeo volesse stringermi una mano, ma mi sentii appunto uno sciocco non appena mi accorsi che in verità tale gesto mirò solamente a riprendere il medaglione.
Vidi la pietra rossa risplendere tra le sue dita pallide, le quali ne sfiorarono la liscia e bombata superficie.
«Da principio Thanatos si infuriò, a ragion veduta. Non volevo saperne di lasciare il mondo dei vivi, anche se il mio corpo era stato smembrato e gettato nel letto di un fiume dentro un misero sacco. Capii di dover di nuovo giocare d'astuzia, come feci con Persefone. Sulla mia testa pendeva la minaccia di un supplizio divino eterno e forse anche per questo diedi il meglio di me in quella situazione. Le dissi di essere consapevole della mia morte, di avere il dovere di abbandonare per sempre quelle terre e discendere nell'Ade, ciononostante la pregai di concedermi di rimettere insieme i resti del mio corpo e restare unito ad esso per sempre, così da non dover più temere la morte.»
Orfeo sbuffò una risata.
«Mi prese per folle e pensò a uno scherzo di pessimo gusto. Una creatura inferiore che si permetteva di avanzare pretese e suggerire un eventuale patto! Tuttavia non mollai la presa e le dissi che le avrei dato in cambio qualsiasi cosa, o fatto tutto quello che mi avrebbe chiesto di fare. Sembra assurdo e in effetti lo era. Cosa mai avrebbe potuto desiderare la Morte, che aveva l'intero Universo ai propri piedi, da un semplice uomo, un suonatore di lira per di più arrogante?»
Feci una smorfia.
«In effetti non suona come una trovata brillante.»
«Devo darti ragione, ma la Morte, Thanatos, è scaltra e astuta come nient'altro a questo mondo o in altri. Ingannarla è praticamente impossibile.»
«Ti prese a calci?» buttai lì, ironico.
«Accettò la mia offerta. Devi sapere che ha comunque un punto debole e in quel momento lo individuai: come il Diavolo ama i patti, quando sono abbastanza interessanti da suscitare la sua curiosità. Thanatos è una di quelle entità che facilmente tende ad annoiarsi e non si può di certo biasimarla per questo.»
Incrociai le braccia.
«Dunque cosa fece?»
«Disse che forse c'era un modo con cui avrei potuto pagare il mio debito verso di lei. Poi, però, rifletté e scelse con arguzia di volgere la situazione a proprio vantaggio, così da togliersi qualche incarico dalle spalle. Col senno di poi avrei dovuto capire sin dal principio cosa celava nei suoi occhi improvvisamente accesi da una luce sibillina. Luccicavano d'interesse e questo li rendeva più sinistri del solito.»
Orfeo deglutì a fatica.
«Prima di continuare, voglio dirti una cosa. Qualcosa che mai ho detto ai tuoi predecessori e ora ho finalmente il coraggio di esternare.»
«Ossia?»
«Vi chiedo, a ognuno di voi, di perdonarmi. Perdonatemi per aver commesso quel madornale errore che finì per condannarci tutti in eterno. Perdonatemi per il debito che mai nessuno di noi riuscirà ad estinguere.»
Credo che se solo fossi stato ancora vivo, il sangue mi si sarebbe gelato nelle vene.
Non riuscii a spiccicare parola. D'altro canto come avrei potuto rispondere?
«Perdonarti per cosa, di preciso?»
«Tra non molto lo capirai e mi odierai come tutti coloro che sono venuti prima di te» mormorò abbattuto Orfeo.
Gli strinsi debolmente l'avambraccio.
«Ti prego, continua e non aggiungere altro.»
Avevo il cuore in gola e fremevo per sapere di più, anche se sentivo che non mi sarebbe piaciuta la verità dietro le origini di tutti noi.
Lo sapevo, ma come al solito la mia curiosità era superiore a qualsiasi altro sentimento o emozione; il proverbio secondo cui il gatto finì per morire a causa dell'esser curioso, non mi aveva mai sfiorato né scoraggiato.
Orfeo annuì.
«La prima cosa che fece Thanatos, fu aiutarmi a recuperare il mio corpo e rimetterlo insieme, un pezzo alla volta. Mi insegnò una tecnica che diceva fosse propria del suo mondo, quello delle tenebre eterne. Il suo sangue, misto alla terra della riva del fiume dove ero stato assassinato e al fango rimasto sul sacco. Mescolò il tutto in una piccola ciotola e rimasi sbalordito quando vidi quella poltiglia divenire lentamente sempre più chiara e lucente, fino a diventare qualcosa che mai avevo visto prima di allora. Era una materia abbastanza soda, la consistenza al giorno d'oggi la potremmo paragonare a semplice crema per le mani, ma il colore non saprei descriverlo in altri modi se non con il termine iridescente. Pulsava di luce, come se vi si trovasse all'interno polvere di diamanti. Non si distanziava molto dal sangue di Thanatos che secondi prima avevo visto colare nel contenitore.»
Mi accigliai.
Quella tecnica non mi sembrava nuova e poco dopo riuscii ad unire i punti, realizzando che la Morte restava in ogni caso un Essere Celeste, un Angelo e di quelli tra i più antichi e potenti.
Solo una specie diversa da quella angelica era capace di ricreare quel procedimento.
Quando conobbi Orfeo, l'ignoranza non mi permise di evitare di dire idiozie, anche se in effetti all'epoca non avevo tutti i torti.
«I Padroni della Vita e della Morte. Solo loro conoscevano questa tecnica» sussurrai.
Orfeo fece un cenno di assenso.
«Perché loro sono i suoi diretti discepoli, per così definirli. O meglio, erano tali, finché non si estinsero. Nessun altro, a parte loro e la Morte in persona, sono capaci di fabbricare l'unguento capace di sanare qualsiasi ferita e di ricomporre addirittura corpi smembrati. Sembra che funzioni anche per gli scheletri, ma in tal caso è un lavoro certosino e poco piacevole.»
«Riporta allo stato originale le spoglie di chiunque?»
«Sì, esatto. Quei bricconi, a ragion veduta, si sono sempre guardati bene dallo spifferare in giro questo segreto di famiglia. Tuttavia, tu ne sembri a conoscenza.»
Guardai altrove.
«Uhm, diciamo che... ho avuto modo di conoscere uno di loro. L'ultimo, a quanto ne so.»
Orfeo sorrise appena.
«Non c'è bisogno di pronunciare il suo nome e ti sarei grato se evitassi di farlo» disse indulgente, ma c'era durezza nel suo sguardo.
La sua richiesta non mi colse di sorpresa.
Nessuno aveva mai amato particolarmente la persona in questione, la quale per i suoi crimini era stata condannata all'oblio dei posteri, la pena massima nella comunità soprannaturale.
Non c'è nulla di peggio che esser dimenticati, persino dai propri discendenti.
Si chiamava Athanase Allaire e anche se al giorno d'oggi tante sono le cose che sono affiorate sul suo conto, cose che secoli addietro nessuno di noi era venuto a risapere, non ho cambiato né cambierò mai opinione su di lui: meritò fino in fondo la fine che fece, forse fu persino troppo misericordiosa la punizione inflittagli.
«Non temere, neanche a me stava granché simpatico. Anche tu devi aver avuto qualche screzio con lui, suppongo.»
«Definire screzio l'offesa che lui fu capace di arrecarmi, sarebbe riduttivo.»
«Com'è che non l'hai strangolato?»
«Non credere che non provai a farlo. Purtroppo era lesto e sfuggente come un'anguilla.»
Risi per quel paragone, conoscendo soprattutto il tipo cui era rivolto.
«Diciamo pure che era un gran bel serpente a sonagli.»
«Suvvia, Dario, non offendiamo quei poveri rettili.»
Risi piano, poi tornai serio.
«Quindi, in breve, ricompose il tuo corpo. Poi?» scelsi di tornare al discorso principale.
Allaire in ogni caso non meritava più attenzioni del necessario.
Era un essere malvagio, spregevole, secondo solo a gente come il mio Creatore.
«Sì, lo rimise a nuovo e quando ebbe terminato, tornammo a discutere dei termini del patto.»
Recitò, credo, a memoria le parole che gli rivolse Thanatos.
«Così sia, allora. Anima e corpo rimarranno uniti, ma aspetta a gioire, perché il prezzo di questa cortesia sarà uno soltanto, il solo metodo di scambio con me possibile: diventerai il mio braccio, la lama della mia falce, il mio servo. D'ora in poi non sei più soltanto un uomo, ma qualcosa di diverso. Più potente e letale, tutti col tempo impareranno a temerti.»
Orfeo inizialmente aveva gioito, perché nessun uomo al mondo è mai stato capace di sputare sul potere offertogli su di un piatto d'argento; non capendo di preciso cosa avrebbe dovuto fare, tuttavia, l'entusiasmo si era spento un po' e alla fine il musico redivivo aveva chiesto delucidazioni.
«Il luccichio negli occhi di Thanatos divenne più evidente. Capii che, come in ogni medaglia, v'era una faccia e un rovescio. Solo troppo tardi compresi che nessuno dei due volti era in verità benevolo, degno di ciò cui avevo rinunciato per sempre. Forse... forse volle punirmi per esser stato talmente sfacciato da aver avuto la faccia tosta di discendere nell'Ade per avanzare pretese coi padroni dell'Oltretomba e riavere Euridice. Avevo sfidato anche lei, in quel modo, e la Morte prima o poi punisce tutti coloro che non abbassano la cresta al suo cospetto.»
Percepii una chiara nota sofferente nella voce del mio interlocutore.
Dunque era quello il motivo per il quale si sentiva in colpa verso tutti noi, verso di me.
Noi vampiri eravamo stati condannati ad essere degli assassini, in eterno, e forse a diventare delle bestie.
«Sei morto e morto rimarrai per sempre, caro Orfeo. Non sarai, tuttavia, neppure realmente tale. Per sempre resterai imprigionato nelle tue spoglie, a meno che il tuo cuore non venga separato per sempre dal tuo corpo, o trafitto dal legno di quercia.»
Lo guardai alzarsi e rifuggire i miei occhi ad ogni costo.
«Euridice era un'Amadriade, un'entità dei boschi, e come tale era legata ad una pianta come le sue compagne. L'albero in questione era una quercia e ovviamente, questo, Thanatos lo sapeva e fu solo la prima piccola parte della sua punizione. Volle rendere letale ciò che un tempo avevo amato.»
Battei le palpebre, scosso.
«È solo un semplice caso che per recarsi qui, ad Obyria, sia necessario attraversare il portale delle Querce Imperiali? Sai di quali parlo, no? Quelle dal tronco nero e le foglie verdi come smeraldi.»
Orfeo scosse il capo.
«Il caso non esiste, né in questa realtà né in quella umana, Dario. Niente è casuale.»
Si voltò di nuovo, umettandosi le labbra.
«C'è un motivo per il quale i vampiri furono tra le ultime specie a essere ammesse nel Regno Parallelo. Pensa a cosa accadde a Richard. Non si può di certo biasimare Reida e Arian se inizialmente cercarono in ogni maniera di rendere impossibile l'accesso ad Obyria per noi vampiri. Temevano una possibile vendetta da parte sua, dopo quel che gli aveva fatto la matrigna, e per tale motivo scelsero di rendere delle querce i portali per il Regno Parallelo. Per tenere lontani noi, soprattutto Richard.»
Quelle parole mi lasciarono di stucco.
Sapevo la storia di Richard, ma non immaginavo che anche i suoi fratelli, o meglio fratellastri, all'epoca avessero nutrito seri dubbi circa le sue reali intenzioni, dopo che li aveva ritrovati.
Lo avevano tagliato fuori di proposito, e con lui tutti i nostri simili. Avevano tagliato fuori anche me.
Ci temevano e temevano, soprattutto, la straordinaria abilità oratoria del loro fratello, che avrebbe persino potuto condurre tutti i vampiri contro le streghe e gli altri popoli.
Non sapevo più cosa pensare su quelli che un tempo erano stati miei cari amici.
«Avevano paura di ciò che era diventato. In un certo senso, all'inizio, lo abbandonarono. Lo lasciarono a sé stesso.»
«Non volevano coinvolgere le specie sotto la loro protezione. All'epoca venivamo perseguitati tutti, braccati come bestie. Incolparli per aver preso delle semplici precauzioni non sarebbe giusto.»
«E dubitare dell'amore di Richard per loro fu corretto, invece?» rimbeccai, alterato. «Dopo quel che fece la madre di Arian e Reida, avrebbero dovuto stargli vicino, non allontanarlo!»
Imprecai a bassa voce.
«Lasciamo stare» dissi sconfortato. «Ormai non ha importanza. Sono morti, tutti e tre.»
Con un'occhiata gli feci intendere di non voler tornare sull'argomento.
Preferivo non sapere fino in fondo, almeno per quel che riguardava i miei migliori amici.
«Cosa fece, poi, la Morte?»
«Disse che da quel giorno in poi, per l'eternità, sarei stato costretto a uscire di casa solo al calar del sole.»
«Nelle tenebre ti relego, così che possano ricordarti ogni singolo istante la tua amata che ora è condannata per sempre a restare nell'oscurità dell'Oltretomba. Forse, così, la sentirai più vicina a te, visto che tanto smaniavi a riaverla accanto.»
Sbattei le palpebre.
«Che gran figlia di puttana» sentenziai laconico. «Fortuna che alla fine siamo riusciti a trovare un rimedio.»
Da alcuni anni ormai avevamo trovato un rimedio contro lo spiacevole effetto del sole sul nostro organismo: iniezioni di un particolare siero, o ancora pillole, sostanze che ancora oggi impiegano un po' ad attivarsi, ma in quel lasso di tempo creano una sorta di barriera invisibile e impalpabile sulla superficie della nostra pelle, in modo che i raggi risultino innocui. Come metodo non è troppo scomodo, ma non dura più di tanto.
Qualcosa nello sguardo di Orfeo mi fece giungere a una precisa conclusione.
«Tu... tu però non ne fai uso, vero?»
Lui fece cenno di no.
«Da quando sono diventato ciò che sono, non ho più visto il sole né percepito il calore dei suoi raggi sul viso. Millenni trascorsi in compagnia della luna e dei miei rimorsi. A volte ho tentato di intessere rapporti duraturi, che fossero d'amicizia o passionali, ma tutti si sono risolti nel peggiore dei modi e alla fine, per l'esattezza nel 1290 d.C. , capii per una buona volta a cosa servisse davvero il medaglione. La sua funzione, temo, è anche un'altra, subdola e crudele.»
Non mi piaceva dove stava andando a parare il discorso di Orfeo. Non mi piaceva per niente e tentai di scacciare l'agitazione facendo un altro sorso di sangue e vino speziato.
Per qualche ragione puntai lo sguardo verso le porte oltre le quali si accedeva al vestibolo e, dopo quello, agli appartamenti di mia moglie. Ragionando a mente lucida, credo che in verità avessi già da allora intuito qualcosa e, a ragion veduta, temevo per l'incolumità di Leda.
«È come se la Morte ancora oggi ammonisse ogni singolo Principe della Notte su ciò che comporta essere dei vampiri. Siamo creature reiette e maledette, figli rinnegati dalla Natura stessa, e come tali non meritiamo di conoscere l'amore. Essere il Principe della Notte, Dario, è come essere il capro espiatorio di turno. Attiriamo su di noi la punizione eterna di Thanatos così da poter permettere ai nostri simili di esser più fortunati e condurre una vita migliore.»
Persi la presa sul calice, il quale rovinò sul pavimento e si infranse in mille pezzi, fragile e sottile com'era.
«Come... come sarebbe a dire?»
«È per questo che ti ho detto che essere un Principe dei vampiri non è un privilegio, ma una condanna. Basta pensare a cosa è accaduto a Richard, il primo della stirpe del Regno della Notte, o ai suoi predecessori o coloro che vennero dopo di lui. Cosa li accomuna, Dario?»
Le mani mi tremavano. Tentai di restare lucido e non farmi prendere dal panico.
«I-Io non...»
Una morsa allo stomaco e alla gola mi impediva di parlare correttamente.
Guardai annaspando di nuovo verso quelle dannate porte secondarie.
Era vero. C'era una costante nelle sorti dei miei predecessori: erano morti, nessuno escluso, dopo aver perso per le ragioni più disparate tutto ciò che amavano, in particolare gli affetti.
Volevo alzarmi, scappare, forse addirittura abdicare non appena avessi trovato il coraggio di parlare con gli altri membri del Consiglio Obyriano, ma le mie gambe rifiutavano di muoversi di un solo centimetro.
«I-Io e Leda siamo condannati? È q-questo che cerchi di dirmi? Moriremo anche noi?» più parlavo e più la mia voce si faceva stridula, isterica.
Orfeo sollevò una mano e mi fece un cauto cenno, così da farmi calmare e poter spiegare.
Io, però, non ero in vena di restare calmo, per quanto di solito gli altri mi definiscano un tipo mansueto, in quel momento non ci vedevo più dalla rabbia e dalla paura.
Possibile che fosse tutto vero?
Mi tese il medaglione, dentro il quale il liquido continuava a vorticare.
«Leggi cosa c'è scritto.»
Le incisioni erano ricomparse. Gli strappai pressoché dalle dita il ninnolo e lo rigirai tra le mie.
Sapevo leggere il greco antico, sempre preferito rispetto al latino.
Ciò che lessi fu: ‟Un agnello va sacrificato, pur di salvare il gregge dai lupi. Nulla si ottiene, senza rinunciare a qualcosa".
Sentii la rabbia montare di nuovo. Era la conferma di ciò che temevo.
«Cristo santo» esalai, lasciandomi cadere sul letto, lo sguardo puntato nel vuoto.
«Adesso, prima di subito, mi spieghi che diavolo significa e come è possibile che ogni Principe sia destinato alle peggiori disgrazie!»
Lui annuì appena.
«Non ti nasconderò nulla, non l'ho fatto da quando abbiamo cominciato a parlare.»
«Vorrei ben vedere» rimbeccai inacidito.
«Thanatos mantenne la parola data, senza che potessi anche solo pensare di chiedere una modifica di quelle condizioni, o di ripensarci. Riunì la mia anima al corpo, tornai in vita e fu una fortuna che la notte fosse calata da un pezzo. Mi diede a malapena il tempo di abituarmi di nuovo alle mie spoglie, prima di afferrarmi un braccio e incidermi la pelle con un pugnale. Il sangue che sgorgò dalla ferita neanche giunse a bagnare la terra. La Morte lo manipolò, facendolo diventare una piccola sfera scarlatta. Un vortice nero e quando esso svanì tra le dita di Thanatos c'era un ciondolo. Lo stesso che vedi ora. Vidi delle parole incidersi da sole sulla montatura, come se un ferro rovente avesse marchiato l'argento.»
Mi alzai e fui io, stavolta, a gironzolare per la stanza come un'ape impazzita.
Ero innervosito, ad un passo dallo strangolare Orfeo.
«La Morte, in quel modo, mi maledisse per sempre, e con me tutti coloro che forse in futuro avrebbero condiviso la mia stessa sorte. Il medaglione è il modo con cui lei può controllarci tutti, la garanzia che ci lega e sottomette a lei in quanto suoi servi. Al giorno d'oggi veniamo definiti gli Angeli della Morte Terreni. Non abbiamo ali, né spade, ma solo due canini acuminati con i quali mietere le anime al posto suo.»
Quel che stavo udendo era assurdo, grottesco e terrificante.
Repressi l'impulso di tapparmi le orecchie.
«Nessuna delle nostre vittime che hanno fatto una brutta fine sono, o sono state, e ancora saranno, casuali. È il legame che abbiamo con lei a dirci chi scegliere, quando e come. Tuttavia, più le generazioni di vampiri si sono estese, e più diventa difficile per Thanatos controllarci tutti. I vampiri meno recenti possiedono un contegno che quelli giovani non hanno e probabilmente mai avranno. Quel che è certo, è che tutti voi discendete da me, in un modo o nell'altro è come se foste figli miei. Una grande e infelice famiglia di dannati.»
Lo guardai.
«Questo ancora non spiega perché proprio i Principi della Notte siano destinati a una sorte peggiore!»
«Sei sveglio, forse ci sei già arrivato e rifiuti la realtà.»
Ammutolii, poi: «Discendiamo da te, e con te condividiamo ogni cosa. Sfortuna compresa» sentenziai.
Mi tornò in mente, ancora una volta, Richard.
Possibile che lui avesse saputo sin dal principio, fin dal primo giorno della sua carica, che prima o poi la morte sarebbe venuta a reclamarlo di nuovo e per sempre, per mantenere l'antica tradizione che vedeva i Principi come delle vere e proprie vittime sacrificali, oltretutto consenzienti?
Quel pensiero mi fece stare male, forse addirittura peggio di quando giunsi nella sala del trono e mi resi conto di esser intervenuto troppo tardi.
Peggio di quando lo vidi riverso a terra, nel suo stesso sangue, con nel petto una cavità vuota, dove prima di allora si era trovato un cuore fiero e indomito.
Era come averlo visto morire una seconda volta.
Richard aveva sempre saputo e ciononostante taciuto sull'argomento, per il bene di tutti, perché quello era il compromesso, quello era il peso della nostra corona, e lui lo aveva accettato.
Per quanti anni mi aveva guardato negli occhi e pensato che nemmeno con la mia protezione sarebbe riuscito a sfuggire al suo destino?
Per quanti anni mi aveva mentito, facendo con me addirittura un patto di sangue che sanciva la nostra fratellanza e prometteva un legame eterno?
La mia rabbia, di colpo, si spostò su di lui, sul suo mero ricordo.
Odiai Richard perché mi aveva mentito, per non avermi raccontato la sola parte della sua chiacchierata con Orfeo che davvero era importante. Lo odiai per non avermi neppure permesso di tentare di salvarlo.
Cercai di trattenermi, di non esplodere come un petardo.
«Thanatos ti condannò a una sorta di supplizio, quindi. Non appena poi avessi avuto il coraggio di passare il dannato testimone a qualcun altro, la maledizione di eterna infelicità e di morte sarebbe passata a lui. È questo che vuoi dirmi?» sibilai.
Orfeo annuì soltanto, con aria grave e desolata.
«Quindi... quindi Richard... chiunque lui abbia amato nella sua esistenza... tutti loro erano morti prima ancora di esser tali?» continuai, parlando a scatti.
La maledizione era ricaduta non solo sul mio amico, sul sovrano verso cui in realtà non provavo semplice amicizia fraterna, ma qualcosa di molto più intenso.
Era ricaduta anche sui suoi cari, le persone a lui più vicine e...
«Reida e Arian? Alan?» esalai stridulo, a un passo ora dalle lacrime.
Come lo vidi fare l'ennesimo cenno di assenso, la mia pazienza si esaurì. Solo all'ultimo secondo rinunciai allo spaccare tutto ciò che vedevo nel raggio di tre metri, ripensando a mia moglie e al suo sonno sereno.
Mi morsi allora il dorso della mano, soffocai un grido disperato.
Un'intera famiglia era stata quasi del tutto sterminata, una famiglia che a me era stata un tempo a cuore.
Persone che avevo amato erano morte per i capricci di Orfeo e della dannata Morte in persona.
Era troppo, anche per me.
Crollai sulle ginocchia, chinato in avanti, e piansi come un bambino.
Piansi per il passato tornato a tormentarmi e il futuro che prima o poi avrebbe aggiunto altri volti ai miei incubi, e alla fine si sarebbe preso anche me.
Poche volte ho provato la paura che provai quella notte. Una paura raggelante, silenziosa come un serpente che strisciava sulla mia schiena e col suo morso instillava dentro di me il seme della rassegnazione.
Orfeo si inginocchiò di fronte a me.
«Vorrei poterti dire che c'è ancora tempo per tornare indietro, ma mentirei. Vedi... le elezioni di un nuovo Principe, in realtà, vengono dirette dallo stesso medaglione. È lui a scegliere il nuovo sovrano, e sempre lui è quello a far capire quando è tempo di cambiare. Richard venne scelto ancora prima di giungere qui e sfidare a duello il vampiro che alla fine abdicò. Arian e Reida avevano superato da tempo le loro riserve nei confronti del fratello e non appena vennero a sapere della scelta del medaglione, si rifiutarono in ogni maniera di permettere a Richard di salire al trono. Cercarono di salvarlo, ma nessuno sfugge al proprio destino.»
Le sue parole non mi fecero di certo sentir meglio.
Singhiozzai, annientato dalla verità e dalla consapevolezza di non poter fare niente per cambiare il passato, né il futuro.
Era il medaglione a comandare, la volontà della Morte a decidere. Loro erano i veri sovrani e il Principe della Notte un semplice burattino.
Venivamo scelti e quando il nostro compito era terminato, quando non avevamo più nulla da donare al medaglione, alla Signora dell'Oltretomba e al nostro stesso popolo, altro non restava che gettarci via, come carta straccia.
«D-Dev'esserci un modo per... non posso perdere Leda!» dissi stridulo.
«Se vuoi salvarla, allora fa' in modo che ti odi, così tanto da non voler più vederti per il resto dei suoi giorni. Se è l'amore la nostra colpa, allora l'odio è il mezzo con cui espiarla.»
Scossi il capo, più e più volte.
«No! Non le spezzerò il cuore! Tutto tranne questo!»
Orfeo tacque e capii che allora il destino avrebbe fatto il proprio fatale corso.
Avrei perso tutto, ogni cosa, e poi perso la vita, o ciò che ne sarebbe rimasto a quel punto.
Ironico e crudele che tutto fosse stato originato dall'amore, dal gesto disperato ed eroico di un marito troppo legato alla sua sposa per poter dimenticarla e lasciarla andare.
L'amore di Orfeo per Euridice ci aveva condannati tutti. Aveva condannato me, così come Leda.
La storia era destinata a ripetersi in eterno. Uno di noi avrebbe dovuto accettare di sacrificare sé stesso e ciò che amava pur di permettere ai suoi sudditi, coloro che in un certo senso erano tanti e tanti figli, di essere felici.
E cosa non avrebbe fatto un padre per i propri figli, d'altronde?
Cosa non si faceva per amore?
Non v'erano limiti, quando si trattava di quest'ultimo, così come della guerra e dell'odio.
Elementi tanto sconfinati quanto potenti e distruttivi.
Con mani tremanti raccolsi il medaglione che era caduto a terra e dentro presi una decisione, che però mai riuscii a concretizzare: decisi che avrei allontanato in qualche modo Leda, per salvarla dalla sventura.
Non lo feci mai, e alla fine — come già ho detto — Leda morì e Thanatos portò via con sé anche nostro figlio, che non feci in tempo a prendere in braccio e ad amare.
Come uno stupido caddi nella trappola intessuta dalla malasorte. Come uno stupido alla fine cedetti al desiderio di Leda di provare il rituale che ci avrebbe concesso di avere finalmente un figlio da amare e proteggere.
Accecato dal mio amore per lei, dall'infantile, banale e umano impulso di diventare padre, strinsi il cappio attorno al collo di mia moglie. Il resto lo fece la maledizione.
Tornando ad Orfeo e a quella fatidica notte, non ebbi scelta se non accettare quel fardello, come fece Richard prima di me, e sperare col tempo di non pensarci più, di essere talmente impegnato da dimenticare il prezzo della mia ascesa al potere.
Prima di andare via, mi confidò l'ultimo segreto, quello che spiegava fino in fondo il motivo per cui eravamo tutti legati indissolubilmente a nostra crudele Sorella Morte.
Mi trovavo seduto sulla ricca ed elegante poltrona di velluto accanto al camino quando lui si avvicinò e mi parlò, dopo minuti e minuti di tetro e pesante silenzio.
«Nessuno di noi può sfuggire al suo controllo, Dario. Nel momento in cui il virus si risveglia con la nostra dipartita, cediamo a lei la nostra anima. Il virus è una sorta di ennesima garanzia, come il medaglione, come tutto il resto. Quando rinasciamo, diventiamo i suoi servi, estinguiamo tutti il debito che io, come uno stupido, contrassi con lei. Per questo spero che tu non abbia mai trasformato qualcuno a tua volta.»
Non dissi una parola, mi sentii solo più svuotato, in colpa e senza speranza.
Cosa c'era da dire? Anche in quello avevo fallito. Avevo consegnato l'anima di una mia cara amica alla Morte in persona, facendola diventare una sua schiava.
Forse per questo noi vampiri, in realtà, eravamo e siamo considerati dei mostri, le creature sovrannaturali peggiori che abbiano mai solcato la Terra.
Portiamo con noi l'ombra della morte; la trasmettiamo con il nostro morso, come un'epidemia silenziosa e fatale; le camminiamo accanto e obbediamo al suo volere.
Realizzai per la prima volta che nessuno di noi, neanche uno, fosse libero nel vero senso della parola.
Eravamo come un esercito di robot, androidi di carne, sangue e sete insaziabile che rispondevano agli ordini di una sola ed unica padrona, una madre terribile e priva di umanità che forse ci detestava e rideva di noi nel suo oscuro regno.
Ci controllava tutti, lo faceva tramite il medaglione, lo stesso che per un istante ebbi l'idea di gettare tra le fiamme del camino.
Non eravamo poi così diversi dagli Angeli Caduti, quelli che erano stati per sempre cacciati dal Paradiso e non potevano più bearsi della grazia divina.
«Mi dispiace» disse Orfeo, stringendomi una spalla. «Per il tuo bene e quello di tua moglie, spero che il tuo regno duri un millennio.»
Serrai le palpebre. Fredde e dense lacrime cremisi in silenzio bagnarono le mie guance.
«Non sarò mai pronto, neanche tra mille anni. Nessuno potrebbe mai esser pronto a tutto questo.»
* * *
Se qualcuno mai dovesse leggere queste pagine dove ho deciso di custodire il mio più orribile segreto... ti chiedo di perdonarmi, di perdonarci tutti, di perdonare anche Orfeo.
Ti imploro di farlo, perché se stai leggendo queste pagine, Erede delle nostre disgrazie, allora significa che anche tu sei stato scelto e come me, prima o poi, sarai destinato a superare prove dolorose e subire perdite logoranti.
Ti supplico di non fare il mio errore e di non condannare coloro che ami; di fare un piccolo sforzo e salvare quel che hai di più caro prima che sia tardi.
Io non l'ho fatto e il medaglione, come colei che lo ha creato, alla fine ha reclamato le sue prime vittime sacrificali, e ora sono solo, a capo di un popolo che non ho scelto di governare ma devo guidare lo stesso, perché non posso fare altrimenti e ho fatto una promessa.
Intendo mantenerla, nonostante tutto.
Dario I
XXXVI° Principe della Notte
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