II. Mito o realtà?
Nota Iniziale
Premetto una cosa, prima di proseguire con il racconto: la versione della storia di Orfeo, qui, è stata rivista grandemente per ragioni di narrativa e trama e molte cose potrebbero differire dal mito originale, il quale a sua volta è comunque presente in molteplici versioni. Quindi nulla, godetevi il racconto senza star troppo a rimuginare!
Buona lettura!
Ascoltai il racconto con il quale il sedicente Orfeo mirava ad illustrarmi in modo più o meno dettagliato la prima parte della sua vita.
Mi narrò della sua antica terra, la Tracia, e la città nella quale era vissuto, Lebetra.
Fino a quel punto, ogni cosa corrispose al mito che ruotava attorno alla sua figura leggendaria: figlio della musa Calliope, venne cresciuto dal sovrano Eagro ma non a lui si dovevano le sue discendenze paterne, bensì al dio Apollo, e mi assicurò che le voci secondo le quali fosse invece un discendente di Atlante erano da considerarsi false.
Lui, infatti, combatté nella guerra di Troia eccome e lo fece al fianco di suo cugino Reso, lo stesso che poi si era schierato con i Troiani.
Reso era invece figlio di Tersicore ed era stato allevato dalle Naiadi.
Mi descrisse minuziosamente, fino al punto da risultare impressionante e lasciarmi sbalordito, il suo viaggio con gli Argonauti dove diede prova delle sue formidabili capacità di guerriero — arciere, soprattutto — e musicista. Narrò delle imprese di quel periodo, di come placò l'ira della dea Era, di come stabilì un rapporto d'amicizia con una delle divinità forse meno adatte, ovvero Ecate; rimasi quasi estasiato non appena passò al momento in cui riuscì a far addormentare un drago col solo suono della sua inseparabile lira, arte insegnatagli da Apollo in persona.
Quando pensavo che non sarei potuto stupirmi di più, venni smentito nell'attimo in cui Orfeo mise in ballo la guerra di Troia.
Descrisse con ogni particolare lo scontro con Ilio e la sua seguente caduta. Mi narrò del suo dolore per la morte di Reso causata dalle spade di Diomede ed Odisseo, nonostante il cugino fosse passato sotto i vessilli dei nemici.
Poi mi raccontò di Euridice, la sua adorata e perduta sposa, e di come fosse bella in ogni singolo aspetto; i suoi occhi luccicarono per tutto il tempo in cui si perse nel ricordare i suoi scuri capelli, fluenti come onde dell'oceano, e i suoi occhi da cerbiatta sempre ricolmi di amore per lui e curiosità nei confronti di tutto ciò che la circondava.
Da tale descrizione, non potei far a meno di pensare che in epoca moderna, quella donna non avrebbe faticato affatto a conseguire una laurea e diventare, ad esempio, una ricercatrice.
Euridice conosceva le piante mediche, sapeva quali usare per curare una ferita, o un malessere di poco conto, e Orfeo le aveva insegnato a cavalcare come un uomo e aiutata a far pratica con l'arco.
Amava Euridice più di qualsiasi altra cosa al mondo e la lunga guerra contro i Troiani non bastò a spegnere le fiamme della loro passione.
Tuttavia, a un certo punto la sua voce si spense e i suoi occhi d'ossidiana si persero da qualche parte nella stanza, senza guardare in realtà niente.
Probabilmente era vicino il momento cruciale, quello secondo il quale aveva dato inizio alle sue sventure e anche alla parte di storia che interessava a entrambi.
Deglutii e senza pensare mi alzai e camminai fino a giungere accanto al mobile dove un domestico aveva sistemato una caraffa di cristallo piena di linfa scarlatta e corposa.
Dall'odore credo vi fosse mescolato anche del vino speziato al miele. Versai un po' del contenuto in due calici anch'essi di cristallo e tornai da Orfeo.
Gliene tesi uno e lui lo prese, facendo un piccolo sorso.
Neanche quello parve servire a restituire almeno un pizzico colore alle sue guance un po' scavate, o alle sue labbra dal colore vagamente terreo.
Suppongo fosse fin troppo antico, vampiro da troppo tempo, per poter ormai passare per un comune essere umano.
Le sue ossa, ogni singola cellula, dovevano esser stati fagocitati completamente da quello che al giorno d'oggi sappiamo essere il virus responsabile della trasformazione.
Pare che tendiamo, noi vampiri, a calcificarci col tempo; le nostre ossa si irrobustiscono, fin quasi a diventare dure come pietra e resistenti come l'acciaio migliore, e alcuni organi cessano prima di funzionare, poi piano piano si disintegrano e ciò che ne resta assorbito dall'organismo rimanente.
Molte cose avvengono dentro il corpo di un vampiro e per quanto nulla potrebbe contrastare la verità secondo cui siamo morti, in realtà non lo siamo mai fino in fondo; a mio parere, la nostra è una vera e propria mutazione genetica, nella quale il virus riesce a trasformare e variare a piacimento il nostro DNA. Lo rinforza, lo plasma, lo fa evolvere.
Alcuni ci chiamano mostri, ma io credo che siamo solamente creature umane che si sono evolute nel modo più bizzarro e antitetico possibile: morendo.
Queste mie convinzioni scientifiche, tuttavia, vacillano di tanto in tanto da quando Orfeo fece la sua comparsa e mi raccontò come i vampiri veramente ebbero origine.
Da miscredente qual ero diventato all'epoca, tornai in seguito piano piano ad avere dubbi di natura non solo scientifica, ma persino teologica, in quanto ciò che Orfeo mi raccontò nessuna scienza avrebbe potuto mai spiegarlo fino in fondo.
Lo osservai vuotare poco a poco il calice, poi posarlo sul comò di legno dorato finemente lavorato.
Accennò con l'indice al medaglione che ancora stringevo tra le dita.
«Prima di continuare, Dario, voglio che tu capisca una cosa molto importante: essere eletto Principe della Notte non è un privilegio né una benedizione, forse l'esatto contrario e quel medaglione ne è la prova concreta.»
Quelle parole mi lasciarono a bocca aperta più di quel che avevo ascoltato fino a poco attimi prima.
«Come sarebbe a dire?» incalzai.
Orfeo sospirò.
«Mi sento così in colpa, verso tutti voi, nessuno escluso. Mi rammarico delle scelte che ho fatto tanto tempo fa, perché hanno condotto a questa... questa dannazione eterna, perché si tratta solo di questo. Diventare vampiri non è diverso dall'esser maledetti per sempre.»
Per qualche ragione preferii tenere per me le mie considerazioni, le quali si ritrovavano in parte d'accordo col pensiero di Orfeo.
Avevo imparato a mie spese la crudele lezione impartita dal fardello talvolta insopportabile dell'immortalità e del vampirismo in generale.
Sapevo quanto tediosa potesse essere una simile esistenza a lungo andare.
Non mi aspettavo buone notizie né, tanto meno, la fiaba della buona notte.
Abbassai lo sguardo e lo puntai sul pavimento.
«Ti prego, dimmi quello che sai. Meglio uno strappo deciso.»
Ero consapevole che qualunque cosa desiderasse confidarmi quell'uomo, avrei dovuto mantenere il segreto finché non avessi ceduto il comando a un altro.
Orfeo tornò in piedi e passeggiò nervosamente su e giù per la grande stanza da letto.
«Commisi un errore madornale, per quanto involontario. All'epoca amavo viaggiare, esplorare terre sconosciute e rifugiarmi nella natura incontaminata per suonare e comporre musica da dedicare poi a mia moglie. Un paio d'anni dopo che ero tornato dalla guerra, il richiamo dell'avventura tornò a sedurmi e come al solito cedetti alle sue lusinghe come il più incallito dei donnaioli.»
Sorrise amaramente.
«Quanto ero sciocco e sprovveduto all'epoca, per essere il figlio di un dio.»
Mio malgrado non potei evitare di farmi sfuggire un commento tristemente sarcastico.
«Credimi, Orfeo, non sei il primo figlio di gente famosa ad aver fatto uno strafalcione.»
Lui scosse la testa.
«Sai, Dario, a volte le ferite più dolorose ci vengono inferte dalle persone più impensabili. Non so scegliere quale destino sarebbe stato peggiore per Euridice tra il venir violentata e quel che invece avvenne alla fine.»
Esitò prima di proseguire.
«Non avevo fatto molta strada, quando percepii qualcosa, come un presentimento o una silenziosa premonizione. Per qualche minuto non le diedi peso, poi però mi convinsi a tornare indietro, ma... era troppo tardi ormai. Vidi Aristeo corrermi incontro, forse lui ed Euridice dovevano essersi trovati nei paraggi. La portava in braccio e lei era immobile, respirava a fatica e non rispondeva quasi più a nessuno stimolo. Aristeo mi confessò in lacrime di aver messo in fuga Euridice e lei, per sbaglio, urtò un piccolo cespuglio dove crescevano fiori di lavanda. Lì in mezzo riposava una vipera e la bestia l'aveva morsa su una gamba.»
Era evidente che ancora gli faceva male ricordare quegli eventi, anche a distanza di millenni.
«Mia moglie aveva tentato di fuggire per salvare il proprio onore e finì col perdere invece la vita, e questo a causa di un uomo con il quale condividevo lo stesso padre. Aristeo era come me figlio di Apollo e solo per questo non lo uccisi, anche se ero folle per il dolore e la rabbia.»
Tornai a guardarlo, addolorato.
«Mi dispiace, davvero.»
Non riuscivo neppure a immaginare la sua disperazione, all'epoca. Solo in seguito l'avrei compresa fin troppo bene.
Orfeo si passò le dita sulle guance con discrezione.
«Morì tra le mie braccia, senza neanche riuscire a parlarmi un'ultima volta. Non so per quanto piansi e piombai nella depressione. Trascorsero mesi nei quali rifuggii ogni contatto umano e conforto ad esso annesso. Non volevo parlare, forse neanche più vivere senza Euridice al mio fianco. Mio padre ovviamente lo venne a sapere e suppongo che poi ne parlò con mia madre, perché poi lei un giorno mi trovò mentre ero intento a suonare una delle strazianti melodie con le quali cercavo di lenire il dolore, e allo stesso tempo di torturarmi pur di non sentire il vuoto che avevo dentro. La musica un tempo mi era stata amica, ma era diventata una nemica, qualcosa con cui forse distruggermi fino in fondo.»
Mi sporsi. Nonostante l'amarezza e il dispiacere, ero anche curioso e ormai preso dalla storia.
«Quindi? Cosa ti disse Calliope?»
«Fu lei a darmi una sorta di spunto per quel che poi alla fine feci e ancora oggi viene ricordato nelle leggende. Mi disse che forse c'era ancora un barlume di speranza e che con le mie capacità non avrei di certo fallito. Sarebbe stata un'impresa rischiosa, disperata, ma se fossi riuscito a riportare indietro Euridice, sarei tornato ad esser felice.»
Annuii.
«Ti diede l'idea di scendere negli inferi e recuperare l'anima di tua moglie, dunque.»
«Sì, esatto, e come ben sai lo feci. Avrei fatto di tutto per lei.»
Mi narrò dunque della sua letterale discesa negli inferi.
«Il primo ostacolo, ovviamente, fu Caronte, il Traghettatore. Non avevo nulla con me con il quale barattare il passaggio presso la riva opposta dello Stige. Possedevo solo la mia lira e... be', un uomo disperato è capace di creare le cose più straordinarie, e di comporre le note più struggenti e maestose. Intonai una melodia per lui e Caronte si convinse a farmi salire sulla sua barca e traghettarmi dall'altra parte. Borbottò per tutto il tempo, ovviamente, e ogni tanto mi rivolse una delle sue occhiatacce da dietro le sopracciglia cespugliose, ma alla fine giunsi sano e salvo oltre lo Stige.»
Non riuscivo a smettere di fissarlo, quasi in adorazione.
Ero oramai sicuro che di fronte a me vi fosse il solo ed unico Orfeo, e di certo non capitava tutti i giorni di ricevere una visita tanto particolare.
Col cuore in gola lo guardai sfregarsi lentamente le mani e tenere lo sguardo su un punto imprecisato, totalmente immerso nei ricordi.
«La seconda prova fu Cerbero, il terribile cane a tre teste. Un mastino dal fiato fiammeggiante, fauci schiumanti che avrebbero tranciato in due un elefante e occhi che nel buio quasi totale di quel luogo desolato mi fissavano come lucciole scarlatte, iniettati di sangue e feroci. Non mi lasciai prendere dal panico, anche quando vidi che tra le sue zampe v'erano i resti di povere anime sbranate che non erano riuscite a passare oltre quel punto. So che può sembrare paradossale e assurdo, ma laggiù, anche se sei morto e ormai solo puro spirito, di fronte ad esseri sovrannaturali come Cerbero è come tornare ad esser vivi, e dunque anche fragili ed esposti. Cerbero è sempre stato famoso per aver saputo divorare anche creature immateriali. Era il suo scopo, la sua missione, e lo svolgeva egregiamente.»
«Cosa successe?»
«Di nuovo mi appellai alle mie doti di cantore e musicista. Feci la sola cosa che ero capace di fare: suonare e sperare di sfiorare le corde più tenere del cuore di quella bestia. Cantai a bassa voce, dolcemente, come avrei fatto con un bambino per farlo addormentare, e alla fine Cerbero si ammansì. Ricordo che si acquattò docilmente e tutte e tre le teste si abbandonarono sul terreno brullo degli inferi. Riuscii persino a fargli qualche carezza mentre gli passavo accanto.»
Sorrisi immaginandomi la scena in un certo senso comica nella parte finale.
Un enorme cagnolone a tre teste che si lasciava infine sprimacciare come un barboncino non era cosa da tutti i giorni.
Riempii di nuovo il mio calice e sorseggiai dell'altro sangue speziato.
«Mi imbattei a un certo punto in Issione, un uomo che era stato punito da Zeus per aver desiderato Era. Lo aveva condannato a esser legato a una ruota destinata a girare all'infinito. Non proprio una delle punizioni più crudeli che vidi laggiù, ma di certo non era neppure una goduria. Inizialmente, pensando di non poter far nulla per aiutarlo, dopo aver ascoltato la sua storia feci per proseguire, scusandomi, ma Issione mi pregò di tornare indietro e di aiutarlo. Mi convinsi, ma altro non potei fare se non far fermare la ruota per un po' col suono della lira. Non era la prima volta che riuscivo a manipolare e comandare a mio piacimento su oggetti inanimati, animali e anche esseri umani e...»
Lo fermai.
«So che sei figlio di un dio e di una musa, ma... in un certo senso non eri diverso da uno stregone, o sbaglio?»
«In effetti potrei esser definito come tale, hai ragione» convenne con un docile sorriso Orfeo, che illuminò un poco il suo viso senza tempo e privo di un'età definita.
Per alcuni istanti mi ritrovai incapace di rifuggire il suo sguardo, le sue iridi scure e profonde come pozzi senza fondo.
Mi accorsi di avere la gola secca e di sentirmi strano, così finalmente interruppi il contatto visivo e tanto per fare qualcosa, ruotai il polso così da rimescolare il sangue nel calice.
Di colpo quel denso liquido scarlatto intento a danzare nel cristallo divenne interessante come ben poche altre cose al mondo.
Schiarii la voce e tentai di far sembrare tale azione casuale.
«Uhm, dicevi?»
«Eravamo ad Issione — continuò finalmente Orfeo — e come stavo appunto dicendo, tentai di aiutarlo ad avere un minimo di tregua dal suo supplizio eterno. Purtroppo a un certo punto fui costretto a continuare il mio viaggio e allora ecco che la ruota sulla quale era imprigionato il poveraccio tornò a girare senza sosta. Mi pianse il cuore a lasciarlo lì, ma non avevo scelta».
Sbuffai una risata ironica.
«Gli dei di una volta! Che permalosi!» commentai.
«Il Dio che oggi gli umani venerano, da quel che so, sa essere quasi sempre molto più benevolo e giusto.»
«Non ne sarei così sicuro» ribattei, facendo un sorso. «E te lo dice uno che quando era ancora un umano, fu tanto così dal conseguire la cosiddetta carriera ecclesiastica.»
Feci una smorfia.
«Forse sono ingiusto e siamo solo noi uomini a fare schifo ogni secolo che passa» conclusi, in una gran bella caduta di stile.
Probabilmente era il vino che stava iniziando a fare effetto. Paradossale che gli alcolici umani, da soli, non abbiano il minimo effetto su noi vampiri e invece, se mescolati al sangue, diventino fatali per la dignità e il contegno come per i mortali.
Credo si tratti di uno dei tanti strafalcioni di Madre Natura, la quale si annoia così tanto da dar vita talvolta a creature e situazioni al limite dell'assurdo. La fallacia insita in tutti noi, creature imperfette nella nostra apparente perfezione.
Agitai una mano.
«Non badare a me. Continua.»
«Mi incuriosisce, in realtà, sapere come tu abbia fatto a diventare ciò che sei e ad arrivare fin qui, sapendo da dove sei partito.»
Mi morsi il labbro inferiore.
Non ho mai amato particolarmente soffermarmi sul mio, di passato. Lo considero pressappoco inutile ed effimero, dato che ormai sono un bel po' diverso dall'uomo che fui in vita.
«Vengo da un'epoca dove si poteva morire anche di un raffreddore, Orfeo. Credo tu sappia quanto me che una volta ben pochi arrivavano ai quarant'anni. Il Rinascimento tutti se lo immaginano come un periodo di rinascita, per l'appunto, e di rivoluzione, ma per quel che mi riguarda non fu un granché.»
«Cosa accadde?»
«Mi ammalai, ricordo molto vagamente i miei ultimi giorni di vita. Credo fu consunzione o, come oggi la chiamano, semplice tubercolosi. I medici di una volta erano degli incapaci macellai, non avrebbero saputo distinguere la differenza tra l'assistere al parto una scrofa da una donna, parola mia.»
Strinsi le spalle.
Avevo sempre odiato il mio passato. Il ricordo di mio padre, di tante altre cose che alla fine mi avevano condotto al capolinea.
Ricordarle in quel momento di certo non avrebbe aiutato la mia causa.
«Dunque? Cosa successe?»
Orfeo, tuttavia, era sinceramente dispiaciuto.
«Mi dispiace, sul serio.»
Risi piano.
«Sono italiano, non verso lacrime per l'inefficienza dell'ordine sanitario, o roba simile!»
Ovviamente la mia fu una mezza critica nei confronti dei miei connazionali che... be', senza offesa, in quell'ultimo secolo certe volte mi avevano fatto passar la voglia di vantarmi all'estero di provenire dal Bel Paese.
Orfeo scelse saggiamente di passare oltre e non soffermarsi più sulla triste storia della mia vita, in fin dei conti affatto diversa da quella di molti altri nostri simili.
Noi vampiri, spesso, siamo accomunati da un passato umano tragico, o comunque difficile.
D'altro canto bisogna per forza fare le scelte sbagliate e frequentare le persone sbagliate per ritrovarsi poi con il buzzurro di turno intento ad azzannarti alla gola in un vicolo. Non si diventa vampiri frequentando club di ricamo e roba simile, tanto per fare un esempio.
Ad ogni modo, il vino mescolato al sangue stava facendo più effetto del previsto.
Orfeo intanto proseguì e mi raccontò dell'ultima anima che incrociò sul suo cammino, ovvero Tantalo.
Proprio lo stesso che aveva ucciso suo figlio per poi servirne le carni a un banchetto, per giunta a nientepopodimeno che agli dei in persona.
Ancora oggi credo che certa gente voglia per forza farsi del male da sola, senza neppure l'ausilio di agenti esterni. Alcuni, semplicemente, se la vanno a cercare e se la trovano, questo è quel che penso e so, anche e soprattutto per esperienza personale.
In breve, Tantalo era stato condannato a restare legato ad un albero ed esser immerso fino al mento nell'acqua; proprio sopra la sua testa, dall'albero pendevano dei frutti che ovviamente lui non riusciva a raggiungere, dato che tutte le volte che tentava di avvicinarsi con la bocca e addentare uno di quelli, i rami si spostavano sempre, sollevandosi e impedendogli di sfamarsi.
Conoscevo anche quel mito e in tutta onestà non provavo, né tuttora provo, alcuna pietà per Tantalo.
Non per aver burlato gli dei, ma per aver ucciso suo figlio.
Nessun padre dovrebbe mai fare una cosa simile, né sollevare un dito contro la propria progenie se non per concedere ad essa carezze e al massimo uno scappellotto di avvertimento.
Le botte non servono a nulla, né altre punizioni corporee e — che Dio ce ne scampi — tanto meno uccidere i propri figli.
Mio padre passò tutta la propria esistenza a percuotermi come un fantoccio di pezza e punirmi anche per delle sciocchezze, e neanche in quel modo recepivo la lezione, se non il dolore che poteva provocare una cinghia di cuoio sulla pelle.
Mi riscossi e tornai ad ascoltare Orfeo.
«Tantalo mi supplicò di aiutarlo e cercai di fare qualcosa. Provai più volte a suonare e far restare fermi i rami, ma in quel modo ottenni solo di immobilizzare anche lui. Non ebbi scelta se non passare oltre e lasciare Tantalo al suo supplizio.»
«Ben gli stava» dissi d'impulso. «Perdonami, ma non riesco a provare pietà per una persona del genere.»
«Hai ragione, non devo perdonarti nulla. Tantalo ricevette un'adeguata punizione per ciò che aveva fatto.»
«Appunto.»
Orfeo esitò e capii che si stava per arrivare al punto cruciale.
«Giunsi a una gradinata ripida, la quale mi portò nel profondo dell'Ade e infine al cospetto di Persefone e suo marito.»
«Ho letto che i gradini erano mille.»
Lui rise appena.
«Non ebbi il tempo né la voglia di contarli tutti.»
«Ha senso, in effetti.»
«Le leggende ingigantiscono tante cose. Detto fra noi, dubito fossero mille scalini.»
Realizzai che Orfeo mi stava davvero simpatico, come pochi altri al mondo.
Sorrisi di sbieco.
«Cosa facesti?»
«Ade dormiva come un sasso sul suo trono e ne approfittai per cercare di convincere Persefone a lasciar andare l'anima di Euridice. Suonai, cantai i pezzi migliori e più struggenti che mi vennero in mente. Credo che le feci tornare in mente i bei giorni andati in cui non era ancora sposata con Ade ed era libera e felice. Feci leva sulla situazione di mia moglie: una giovane donna strappata troppo presto alla vita, l'intensità dell'amore che ci univa e che io non riuscivo a dimenticare, e il dolore che la perdita della mia donna mi aveva arrecato. Battei il ferro finché era caldo, assicurai a Persefone che in fin dei conti quello era solo una sorta di prestito e che Euridice sarebbe in ogni caso tornata nel regno dei morti non appena i suoi giorni si fossero conclusi per la seconda volta.»
Sogghignai.
«Da quel che so se la bevve.»
«Tutta d'un fiato» mi fece eco Orfeo. «Rimasi lì fermo, finché lei alla fine non si decise e approfittò del fatto che Ade stesse dormendo per concedermi una possibilità. Non appena vidi Euridice raggiungerci il mio cuore esplose di gioia e non perdemmo un secondo. Come sicuramente saprai, la moglie di Ade pose una condizione: non avrei dovuto mai guardarmi indietro, né guardare Euridice, finché non fossimo stati fuori dagli inferi. Andò bene, magnificamente, lei mi seguì a passo svelto e rifacemmo il percorso nel senso opposto, ma quando fummo sulla soglia...»
Orfeo sospirò tristemente.
«Come uno stupido, pensando che ormai era finita, mi voltai per guardare finalmente alla luce del sole mia moglie e... lei svanì, letteralmente. Svanì e non servì a un bel niente pregare, piangere, urlare e imprecare. Se n'era andata per sempre e per un bel po' mi convinsi di averla uccisa per la seconda volta.»
Rimasi in silenzio e, come già ho detto, solo molto tempo dopo avrei capito il suo dolore in ogni più piccola e logorante sfumatura.
Ci sono cose, al mondo, che si possono comprendere solo quando siamo noi ad averci a che fare.
Anche io persi alla fine mia moglie, e accadde probabilmente per colpa mia, perché come in uno di quegli antichi miti fui tracotante e mi permisi di desiderare un erede, quando è noto che noi vampiri siamo destinati alla solitudine e al rinunciare a tutto ciò che in vita un tempo avevamo desiderato ardentemente.
Un crudele e ironico contrappasso, quello al quale venni condannato.
Tuttavia, devo purtroppo ammettere che Orfeo invano tentò di mettermi in guardia e farmi capire il vero insegnamento dietro la sua storia.
Ero cieco e come tale mi resi conto del masso che mi sbarrava la strada solo quando vi andai a sbatterci la testa contro.
Mentre pensavo tutto ciò, distolsi lo sguardo dal pendolo, il quale segnava le quattro del mattino.
Mi resi solo allora conto di quanto tempo fosse trascorso dal momento in cui Orfeo era entrato nella mia stanza.
Tornai ad osservarlo, poi a guardare il medaglione che stringevo nel pugno.
Stupito vidi che le scritte in greco erano scomparse.
«Ma che...»
Orfeo si voltò, richiamato al presente dalla mia esclamazione rimasta in sospeso.
Capì al volo.
«Reagisce solo al tocco di colui che detiene il potere corrente. È legato ai Principi della Notte e alla nostra specie in modo indissolubile, ma come tutti gli oggetti dotati di capacità straordinarie, possiede anche una volontà tutta sua. Quello che hai in mano è fra i ninnoli più capricciosi che ci siano, Dario. Non è raro che faccia questo genere di scherzi.»
Roteai gli occhi.
«Ci mancava solo il ciondolo dispettoso alla mia personale lista di cose assurde che mi sono capitate per mano» borbottai.
Orfeo esitò.
«Devo aggiungere che... il medaglione tende ad assorbire in minima parte anche tratti dell'indole dei suoi precedenti possessori. Suppongo non ti sia estranea tanta burlona capricciosità.»
Quasi subito compresi che si riferiva a Richard.
«Fra tutte le qualità che aveva quel matto, proprio quella peggiore doveva pescare quest'affare?» chiesi senza tante remore.
«Il medaglione fa quello che vuole» ribatté semplicemente lui. «Conoscevi bene Richard, vero?»
«Come le mie tasche. Lo conoscevo così tanto che dopo la sua morte, anche se tentai di non cedere, gettai la spugna e mi discostai da Obyria e questo posto. Troppe cose me lo ricordavano. Richard era...» le parole faticarono a scivolare fuori dalle mie labbra. «Era il cuore di questa reggia. Da allora sento che questo palazzo ha perso una parte di sé per sempre» terminai in un debole sussurro.
Strinsi nel pugno il medaglione con più gentilezza, come se potesse ovviare al vuoto indelebile lasciato da Richard.
Vuoto che ancora oggi, in parte, mi fa sentire in colpa verso Leda. La amavo con tutto me stesso, eppure una briciola del mio essere non riusciva a lasciar andare l'altra persona che ai miei occhi fu tra le più importanti e insostituibili.
Non esagerai quando dissi quelle cose ad Orfeo.
Dopo la morte di Richard mandai al diavolo tutti e tutto e mi allontanai dalla comunità che avevo promesso anche a lui di proteggere sempre e ad ogni costo.
Venni meno per molto, molto tempo al giuramento, finché non venni scelto dal mio predecessore per essere la nuova guida del Regno della Notte.
Quanta ironia.
Orfeo si sedette accanto a me sulle lenzuola color rosso scuro.
«Anche io rimasi molto male per la sua dipartita. Era un vampiro relativamente giovane e con ancora molto da offrire a questo popolo. Devo confessarti che all'inizio, quando parlai con lui come sto facendo ora con te, nutrivo molti dubbi sulla sua idoneità a governare, ma lui...»
Sbuffò una risata.
«Mi sorrise beffardo e mi giurò che un giorno, prima o poi, mi sarei rimangiato tutto e alla fine avvenne. Certo, quando diede corda ai lupi mannari e ai licantropi e alla fine scoppiò la guerra, gli diedi dell'idiota e della testa calda, gli dissi che avrebbe portato i vampiri alla disfatta e forse creato uno scisma epocale di tutti i regni di Obyria, ma di nuovo mi dovetti ricredere. Mise di nuovo in riga il Principe di Castel di Luna e i suoi sudditi e in più rese potente e temuta la nostra gente, portò ricchezza e pace.»
Sorrisi nostalgico.
«Non si risparmiava mai niente, quando si trattava di aiutare anche un solo abitante del Regno della Notte. Nessuno dei miei predecessori ebbe mai l'ardire di cambiare tutto quello che aveva creato, neanche gli edifici. Li fecero ristrutturare e rinforzare, ma nulla di più. Lo rispettano tutti, anche se è morto da secoli. Mi chiedo se lo faranno anche con me. Mi chiamano il Principe dei Poveri, o roba simile.»
Orfeo fece una smorfia.
«Perché sei diverso, Dario. Non vieni da una posizione agiata come gli altri Principi prima di te. Sei stato scelto proprio per questo, perché sei parte del popolo quanto lo sei di queste mura che ora ci circondano. Chi ti ha preceduto voleva che ci fosse un ritorno agli albori, una ventata di nuova freschezza. Ti ha scelto perché eri quello che conosceva meglio Richard e con lui condividevi molte visioni. Richard era lungimirante, visionario e un passo avanti rispetto a chiunque altro, persino gli Imperatori Arian e Reida. Tu non sarai da meno, fidati.»
Scossi il capo.
«Di lui ce n'è stato uno soltanto e mai più ci sarà. Non posso essere quello che...»
«Non esserne sicuro. La strada è ancora lunga e il mondo, Dario, molto vasto. Non puoi sapere chi incontrerai sulla tua via.»
La sua frase mi turbò in parte.
«Che vuol dire?»
«Capirai quando sarà il momento.»
Lo squadrai sospettoso. Era chiaro che mi nascondeva qualcosa a bella posta.
«Tornando a noi... è vero che poi rinunciasti per sempre all'amore per altre donne e ripiegasti su quello verso altri uomini?»
Forse feci quella domanda per punzecchiarlo e restituirgli il colpo, in un modo astruso.
«Sì, senza volerlo fu Ovidio a indovinare la mia sorte dopo quanto avvenne con Euridice.»
«Quindi è anche vero che ti attirasti addosso l'ira di certe cagnette*?» proseguii, sarcastico.
«Anche quello è vero. Che devo dirti? Nessuno resisteva al mio fascino e questo non andò giù a quelle donne. Mi assassinarono, come anche Ovidio racconta. Ciò che però nessuno sa è che nel momento in cui dovetti anche io scendere nell'Ade da morto, mi rifiutai di farlo.»
«Perché? Insomma... almeno avresti rivisto tua moglie.»
«Perché restavo pur sempre un uomo, figlio di una musa e di Apollo o meno. Come tutti gli uomini tremai davanti alla fine. Avrei dato ogni cosa pur di non morire. Penso che avessi paura di rivedere Euridice dopo aver rovinato tutto. La mia preghiera disperata non fu accolta da Persefone, Ade o chicchessia. Si trattava di una creatura che all'epoca era conosciuta col nome di Thanatos. Fu la Morte stessa a rispondere al mio richiamo. La ricordo come se fosse ieri: sembrava giovane, una ragazzina, ma quegli occhi... e quei capelli! Iridi nere come l'inchiostro, vuote. Capisci cosa intendo? Non c'era niente dentro di esse. Né vita, né luccichio, niente di niente. Era il nero oblio della fine. Era pallida come un cadavere e i suoi capelli nivei non aiutavano affatto. Portava una veste rossa, il che fece risultare tutto più inquietante che mai.»
Non rimasi stupito da quella descrizione.
Anche io l'avevo vista, tanto tempo addietro, qualche attimo prima di morire.
A differenza però di quel che aveva visto Orfeo, la Morte, Thanatos, o qualunque fosse in fin dei conti il suo vero nome, si era presentata vestita d'azzurro.
Nel delirio della febbre per un attimo l'avevo scambiata per la Vergine Maria in persona, finché non avevo messo a fuoco e incrociato quegli occhi grandi e scuri, e notato il suo aspetto generale.
La fanciulla mi aveva baciato e in quel momento tutto era cessato.
Poi mi ero risvegliato, e lo avevo fatto in un letto comodo e caldo, seppur estraneo. A vegliare al mio capezzale avevo scorto un uomo alto e biondo, lo stesso che poco prima della mia morte avevo visto entrare nella mia stanza. La persona che diceva di voler guarire il male che mi stava uccidendo e che invece, come mi sono reso conto solo tempo dopo, mi gettò fra le braccia della fine avvelenandomi.
Quell'uomo sarebbe poi passato alla storia come uno dei vampiri più bestiali e crudeli che avessero mai solcato la Terra: Arwin Reger.
Un'altra cosa in comune tra me e Richard?
Fummo trasformati dallo stesso vampiro. Presi uno con l'inganno, l'altro con la forza.
Richard inizialmente aveva tentato di far cambiare Arwin, solo per poi rischiare di esser lui trascinato da quel dannato essere in un girone infernale di sadismo e crudeltà dal quale Richard era uscito solo grazie alla propria forza di volontà e sì, anche al buon cuore che in fondo aveva posseduto sin dal principio.
Io, invece, mi ero subito discostato da Arwin, non volendo saperne di aver a che fare con il mostro che mi aveva negato per sempre la possibilità di vivere come un comune essere umano, di morire con dignità, anziché trascorrere una vita eterna e dannata.
Tante sono le cose che mai ho perdonato a Reger, e tanti i miei rimpianti per non aver fatto di più per salvare Richard dalla sua indole vendicativa.
Arwin, alla fine, si era ripreso quel che aveva donato a Richard, con tanto di interessi.
*Questa frase è un piccolo riferimento/omaggio a una canzone di Fabrizio De André, Bocca di Rosa.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro