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26. Abbandono

Levi's pov. Mattina del 2 febbraio
Il cellulare continuava a squillare incessantemente. Per la casa si propagava quel suono, ormai diventato incredibilmente fastidioso per il povero Pixis. Ma Levi appena vedeva chi lo chiamava, non rispondeva e lasciava il cellulare sul comodino o dovunque fosse a continuare, finché non smetteva e partiva la segreteria. Rispondeva solo se era per lavoro, perché sapeva che, quelle altre due persone che chiamavano sempre, volevano parlargli solo di una cosa.

-Levi!-

Il corvino non si sporse nemmeno dalla finestra della propria camera appena si sentì chiamare dal giardino e preferì restare lì vicino, seduto sulla poltrona.

-Levi lo so che sei in camera e che mi puoi sentire! Non ti fidi a lasciare la finestra della tua camera aperta se non ci sei.- Continuava ad urlare la ragazza sotto la finestra.

Levi invece non rispondeva ancora, aspettando solo che la sorella se ne andasse. Se le avesse risposto, non l'avrebbe più lasciato in pace.

-Che antipatico che sei!- Sbuffò irritata Isabel. -Volevo solo dirti che quegli idioti che avevi chiamato per far togliere le foto, ne avevano dimenticata una in un vicolo di Trost. Ci ho pensato io a toglierla!-

Dopo un lungo silenzio Levi pensava se ne fosse finalmente andata, ma la sentì ancora parlare.

-Per quanto ancora hai intenzione di fare così? Non puoi evitarci per sempre! Ci manchi fratellone...-

L'uomo si lasciò andare ad un lungo sospiro, alzandosi dalla poltrona. Non abbassò nemmeno il capo per guardare Isabel e chiuse la finestra. Andò verso il letto e si buttò sul materasso a peso morto, portandosi un braccio sul volto a coprirgli gli occhi mentre sentiva le ingiurie della rossa.
Un mese. Era passato quasi un mese.
Dopo il funerale, aveva dovuto scegliere cosa fare a quel bastardo col ciuffo rosso. Andare dalla polizia e denunciarlo, trascinando però dentro anche [T/n] e darle così un altro grattacapo. Oppure fare da solo e sistemare la faccenda a modo suo.

Così, dopo una lunga riflessione, optò per la seconda possibilità e risolse la questione andando a casa di Christopher, essendosi fatto dare il suo indirizzo da persone di fiducia.
Aveva poi abbandonato il suo appartamento lasciando il ragazzo agonizzante e dolorante sul pavimento, dopo averlo minacciato.
L'aveva preso per il colletto della maglietta, fulminandolo con lo sguardo.

-Se vuoi denunciarmi fallo, merdoso bastardo. Non me ne fotte nulla ed ho i miei modi per risolvere la questione in poco tempo senza andare nei casini. Ma se provi ad avvicinarti ancora a [T/n] e a farle qualcosa, o anche solo a cercarla e guardarla da lontano, non ci andrò più piano e ti ammazzerò direttamente. Hai afferrato il concetto, maledetto figlio di puttana?-

Il ragazzo non gli aveva più detto nulla, anche se prima aveva fatto il gradasso, non intimidito dalla statura del corvino.
Non gli era ancora arrivata nessuna denuncia o altro, tuttavia questo non lo faceva sentire meglio. Anche se in quel momento aveva tutto, si sentiva come se non avesse più nulla.
Si sentiva così frustrato, solo...

L'aveva ritrovata. Dopo tredici anni era riuscito a ritrovarla, ma poi l'aveva di nuovo persa. Tutto quello che gli era sempre mancato, in tutti quegli anni, era lei. Quel sentimento di solitudine e incompletezza che nutriva inconsapevolmente, era per la mancanza di quella ragazza. E avrebbe potuto trovarla molto tempo prima probabilmente, se solo non fosse mai avvenuto quell'incidente. Ma non si pentiva di quel che aveva fatto, perché l'aveva salvata. E questo bastava a renderlo felice.
Ma ora che si ricordava di lei, si sentiva ancora peggio. Perché gli vennero alla mente tutti quei bei ricordi vissuti all'orfanotrofio in sua compagnia, rimasti sopiti per troppo tempo in un angoli della sua mente.
La prima volta aveva perso la bambina a cui voleva bene.
Mentre adesso aveva perso la ragazza che amava e che forse, inconsapevolmente, amava anche da bambino.

-Tch.- Il corvino schioccò la lingua sul palato, sentendo un fastidioso bruciore agli occhi.

[T/n]'pov. Sera del 2 febbraio
La vita è una scatola di cioccolatini. Non sai mai quello che ti capita.

Esattamente. Non puoi sapere quel che succederà, quando succederà. Quando morirai. Quando e con chi avrai la tua prima volta. E quando la tua vita andrà a puttane, e tu ne sarai in parte la causa.

Non avrei mai pensato di dover rimanere chiusa in camera mia per non dover guardare in faccia mia madre e mio fratelll. Per non fargli vedere una delle loro più grandi disgrazie.

Non avrei mai pensato di non poter più uscire di casa per non sentire gli occhi degli altri addosso, ascoltare i sussurri della gente, vedere i loro sguardi schifati al mio passaggio.
Ma il luogo peggiore, dopo la mia casa, era la scuola. Lì era come se potessi sentire le voci una ad una, ben distinte. Gli sguardi erano più penetranti, le risate unite ai fischi e alle ingiurie erano diventate insopportabili. Vedere le decine di scritte sul mio armadietto e sul mio banco era ormai la norma, esattamente come trovare i bigliettini nel mio zaino e tra i quaderni, con insulti, proposte derisorie e numeri di telefono.
Tuttavia, per fortuna, capitava anche che qualcuno mi difendesse. La maggior parte delle volte era Eren a farlo, volendo proteggermi in tutti i modi possibili, scatenando anche risse e venendo una volta sospeso. Capitava però che fossero anche altri compagni e amici a difendermi, quelli dall'animo più buono, come Marco o Historia, quest'ultima accompagnata sempre dalla sua ragazza Ymir che, molto probabilmente per far bella figura sulla biondina, mi difendeva a sua volta.

Nonostante tutto questo, ho sempre cercato di ignorare tutto e tutti e andare avanti normalmente. Ma non potevo sopportare che lei mi ignorasse. Non potevo sopportare che lei mi odiasse. Dopo undici anni d'amicizia, era crollato tutto come un castello di carte.
Mikasa mi aveva promesso che mi sarebbe sempre stata vicina, che mi avrebbe sempre protetta e difesa, nel bene e nel male, nella ragione e nel torto. Come aveva potuto infrangere così facilmente una promessa che, per me, era così importante? Come poteva ignorarmi ed evitarmi come un brutto virus...

Avevo capito di esser arrivata al mio limite solo quando avevo tentato l'impensabile. Quella sera avevo fissato a lungo i sonniferi di mia madre, posti nell'armadietto del bagno sopra al lavandino. Dopo la morte di papà, la sua insonnia, già presente da anni, era aumentata e si era fatta prescrivere dal medico questi sonniferi abbastanza potenti. Me ne ero buttati un po' nel palmo della mano, molti più della dose consigliata. Avevo fissato quelle piccole pastiglie bianche per minuti interi, prima di avvicinare la mano alla bocca. Tremante, avevo socchiuso le labbra e chiuso gli occhi. Ma non ce la feci. Mi ero accasciata al pavimento, facendo così cadere tutte le pastiglie a terra. Non avrei mai pensato di poter arrivare così vicina ad un atto del genere, un giorno. Era chiaro che, continuando a vivere così, non sarebbe passato molto tempo prima che avessi di nuovo tentato di metter fine alla mia vita.

Così, decisi di andarmene. Ero diventata solo più un peso per mamma ed Armin. Mikasa mi disprezzava, come del resto quasi tutti. Non avevo più nulla su cui aggrapparmi, eccetto Eren, che però non sapevo per quanto altro tempo sarebbe rimasto al mio fianco, pronto a difendermi da tutto e tutti.

Tornai a casa da scuola, con lo zaino più leggero rispetto a questa mattina. Avevo lasciato i libri che non mi servivano nell'armadietto, tenendo solo quelli più importanti e che mi sarebbero serviti. Appena entrai in casa, lasciai lo zaino all'entrata e non mi tolsi nemmeno le scarpe per salire al piano di sopra. Me ne sarei andata via entro poco...
Entrai in camera mia e trascinai fuori da sotto il letto la valigia che avevo preparato la sera prima. La aprii e ci misi dentro le ultime cose. Aprii uno dei cassetti dell'armadio e tastai al fondo per assicurarmi di aver preso tutta la mia biancheria. Sentii qualcosa di solido e, stranita, lo tirai fuori. Era una piccola scatolina, con una rotella posteriore. La aprii e ne uscì una bellissima melodia non appena gli ingranaggi al suo interno iniziarono a girare. Sul lato interno del coperchio c'era un piccolo specchio, leggermente graffiato, mentre lo scomparto vuoto a lato degli ingranaggi era impolverato.
Ricordai improvvisamente gli anni in cui ascoltavo sempre quel carillon, all'orfanotrofio. Rimasi a fissarlo per qualche secondo, nel tentativo di ricordare chi me l'aveva dato. Ero tanto piccola...
Forse sono state le maestre...
Alzai lo sguardo e, nel leggere l'ora sull'orologio appeso alla parete, chiusi immediatamente il carillon e lo infilai nella valigia. Ascoltarne la melodia mi dava una sensazione di nostalgia, tranquillità, gioia ma al tempo stesso di tristezza e solitudine. E sentivo che il ricordo legato ad esso doveva essere importante per farmi provare quelle sensazioni tutte in una sola volta.

Tornai al piano di sotto e finii di preparare tutto il resto, aggiungendo allo zaino il mio pc e un paio di libri e manga. Quello che avrei lasciato a casa, me lo sarei ricomprato più avanti.
Presi le ultime cose dal bagno e afferrai dalla tasca un foglio piegato, scritto un paio di giorni prima. Lo aprii e rilessi un'ultima volta, per poi lasciarlo sul tavolo della cucina.

Mi dispiace. Per tutto quanto. Dopo quel che ho fatto, tenendovelo sempre nascosto, non mi aspetto il vostro perdono o comprensione. Sinceramente, non penso nemmeno che mi vorrete ancora affianco. Son sicura che ormai tutto quello che provate nei miei confronti siano solo disprezzo e vergogna.
E non volevo che tutto ciò accadesse. Non volevo farti piangere, mamma. Non volevo farti soffrire, Armin. Non volevo deluderti, Mikasa. Non volevo trascinarti in mezzo a tutto questo, Eren. Non volevo che morissi, papà, credendomi una figlia perfetta e di cui vantarti ed esser orgoglioso. Anche se volevo esserlo. Volevo che foste fieri di me, di quello che ero e di quello che sarei diventata, un giorno.
Tutto quello che ho sempre fatto, l'ho fatto pensando a voi e al vostro...al prima nostro... bene... Ma mi rendo conto che non ero nel giusto e che non ho fatto altro che rovinare tutto, concludendo alla fine nulla.
Vorrei poter tornare indietro e sistemare tutto. Lo so di esser stata un disastro come figlia, come sorella e come amica, una delusione enorme...
Mi dispiace di aver rovinato tutto quello che avevate... E avevamo... Costruito insieme in tutti questi anni.
Solamente... Mi dispiace.
Vi ho voluto, vi voglio e vi vorrò sempre bene.

[T/n]

Il foglio in un angolo si era bagnato, a causa di una lacrima che mi era sfuggita mentre scrivevo questa lettera.

Ritornai all'entrata e mi misi in spalla lo zaino e presi la mia borsa, con all'interno il beauty, le chiavi del palazzo e appartamento di Petra e dei soldi, afferrando poi anche la valigia. Guardai per un'ultima volta casa mia. I miei occhi si soffermarono sulle tante foto e, prima di pentirmi di quel che stavo facendo, mi rivolsi alla porta e la aprii, uscendo e la chiusi a chiave, per poi lasciare queste ultime nella cassetta della posta.
In giro, per fortuna, non c'era quasi nessuno. Siccome era il primo pomeriggio, la maggior parte era al lavoro, come mamma ed Armin, oppure erano a casa a riposare.

Arrivai alla fermata del bus e aspettai sovrappensiero, decidendomi poi a mandare un messaggio a Petra per avvertirla che, a momenti, sarei arrivata a casa sua.
Vidi l'autobus arrivare e, appena si fermò ed aprì le porte, salii trascinando a fatica la valigia. Pagai il biglietto con quei pochi spiccioli che risparmiavo ogni volta per il mangiare a scuola. Percepivo lo sguardo del conducente puntato su di me in maniera ossessiva, quasi per accertarsi che fossi io. Invece, un gruppetto di ragazzi al fondo del mezzo, mi indicarono con lo sguardo, sussurrando tra loro qualcosa e ghignando. Sapevo cosa si stavano dicendo, ma decisi di non rimuginarci su troppo e, per evitare gli sguardi di altre persone, tirai fuori il cellulare, fingendo di dover fare qualcosa.
Arrivata alla mia fermata, scesi e, prima che il mezzo ripartisse, sentii uno di quei ragazzi gridare fuori dal finestrino. -Stai andando a fare dei pompini nelle auto?-

Inizialmente, rispondevo a tono a tutti quelli che mi fischiavano e mi sfottevano alle spalle, avendo sempre avuto un carattere impulsivo. Tuttavia, più cresceva il disprezzo nella gente, più era difficile ribattere. Ora, mi limitavo al semplice silenzio, senza girarmi a guardare nessuno.

Arrivai finalmente davanti al portone del palazzo di Petra, che aprii con le chiavi che ancora avevo. Presi l'ascensore e, nell'attesa di arrivare al quarto piano, mi guardai allo specchio, in svariati punti macchiato e graffiato. Avevo delle profonde occhiaie, le labbra sgretolate a causa del vento, i capelli leggermente scompigliati e legati malamente in una coda da cavallo. Feci un lungo respiro profondo e, quando notai le porte alle mie spalle aprirsi, uscii velocemente, scendendo poi una rampa di scale. Arrivai davanti alla porta di Petra, ma non feci in tempo a bussare che vidi la porta aprirsi e Petra fissarmi a lungo, con le labbra schiuse in un espressione sopresa. Dopo poco, mi venne incontro e spalancò le braccia, stringendomi. Ricambiai e passati una decina di secondi, sentii la donna singhiozzare sulla mia spalla.

-Mi dispiace... Perdonami...- Disse con un fil di voce. -È tutta colpa mia. Non avrei mai dovuto appoggiarti in questa scelta... E poi alla discoteca... Scusami...!-

-No che non è colpa tua. Sono io che ti ho chiesto di aiutarmi. E quella notte... Non sarebbe cambiato nulla comunque... Non darti le colpe quando non ne hai, Petra.- La strinsi di più cercando di confortarla. Smise di piangere e mi aiutò con la valigia, che mise affiancò al letto.

-Tua madre e tuo fratello quando dovrebbero tornare a casa?- Chiese cambiando discorso, prendendo un fazzoletto per asciugarsi gli occhi.

-Mia madre lavora alla posta fino alle 17. Poi tornerà a casa per preparasi ad andare al ristorante fino a mezzanotte. Mentre mio fratello, non so se farà anche il turno di notte. Inoltre... Non so se dovrei ancora chiamarli 'mamma' e 'fratello'... Mia madre mi ha abbandonata... E non so se avevo anche un fratello o una sorella...- Aggiunsi sottovoce.

-I figli sono di chi li cresce, non di chi li mette al mondo, a parer mio. Quindi è giusto chiamarla ancora 'madre'.-

Non risposi, facendomi cullare da quel paio di minuti di assoluto silenzio.

-Hai lasciato un biglietto o qualcos'altro almeno?-

-Sì, una lettera.- Mi girai a guardarla. -Prima perché sembravi così sorpresa di vedermi? Ti avevo avvertita che sarei arrivata.-

-È che... Non ti vedo per niente bene... Ti vedo molto più magra rispetto a prima, oltretutto.-

-Capisco...- Abbassai lo sguardo per guardarmi gambe e braccia. -Ah, ti ho portato i soldi per il debito. Non sono tutti, ma in futuro riuscirò a restituirteli.- Cercai di rassicurare più me che lei.

-Non ti preoccupare, non serve.- Andò nel'angolo cucina, tornando da me con una tazza fumante in mano. -E poi, ne sei veramente sicura...?-

La ringraziai con un sorriso e presi la tazza di tè. -Non ho più niente da perdere qui, ormai... Non ho più nessuno su cui appoggiarmi o fare affidamento eccetto Eren, che però non so per quanto altro tempo mi resterà affianco.- Avvicinai la tazza alle mie labbra, soffiando sulla bevanda.

-E Levi?-

-Levi cosa?- Chiesi sarcastica. -È... Era un mio cliente. Proprio come Reiner, come Jean e gli altri. Un cliente a cui interessava il mio corpo, ma con cui ho instaurato un rapporto più stretto rispetto agli altri. Certo, lo avvertirò. Ma era solo un normale cliente, per il quale ho preso una cotta inaspettata e non ricambiata. Forse io gli faccio pena, però non così tanta da riuscire a cambiare qualcosa o da interessarsi alla mia situazione.- Conclusi e bevvi il tè nero, tenendo stretta la tazza per infondermi calore.

Sentimmo suonare al campanello tre volte e Petra andò ad aprire. -È Adrien.-

Appena aprì la porta, vidi il ragazzo dai capelli tinti di rosso sorridere all'amica, prima di accorgersi della mia presenza e salutarmi a disagio. Ricambiai tentando di mascherare l'imbarazzo da un leggero sorriso, mentre Petra chiuse la porta a chiave. -Io vado un attimo in bagno, torno subito.-

Appena la porta del bagno si chiuse, tra me e Adrien calò il silenzio per qualche secondo. Stavo per aprir bocca, ma lui mi precedette.

-Senti, per quanto riguarda quel che è successo quella notte alla discoteca, mi dispiace.- Si grattò la nuca nervoso. -Avevo bevuto un po' troppo!-

-Pure io, scusami anche tu.- Feci un mezzo sorriso, distogliendo poi gli occhi da lui.

-Se ti può tirar su, ci siamo solo... Toccati un po'. Me lo ricorderei se ci fossimo spinti più in là.-

-Wow, grazie di avermi detto in modo fine e gentile che tu mi hai infilato la mano nelle mutande ed io probabilmente ho fatto altrettanto coi tuoi boxer. Mi tira veramente su di morale, sai?- Risposi con sarcasmo.

Lui si mise a ridere, ancora in evidente imbarazzo, per poi avvicinarsi a me e mettersi al mio fianco sul letto, buttandocisi a peso morto con la schiena.

-Ringrazia che ero più sobrio di te, altrimenti sarebbe andata a finire diversamente. In fin dei conti, ero un gigolò*. Facevo quel che facevi tu, più o meno-

-Un gigolò?-

In quel momento, uscì Petra dal bagno. -Inizia a ripassarti l'inglese, [T/n]. L'aereo parte il 12 febbraio.-

*Spazio Me*
*I gigolò, per farla breve, sono molto simili alle escort. Accompagnatori maschili (ed anche ballerini) che offrono molti servizi alle donne, anche non sessuali.

Scrivendo i pensieri della Reader, mi è tornata alla mente (credo per ovvie ragioni) Tiziana Cantone. Non credo che ci sia bisogno che vi spieghi chi è. Anzi, ormai chi era. E niente, mi è salita per qualche secondo un po' di tristezza e preferisco non pensarci troppo.


*Levi la porta via*

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