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2. remember the rain

anno 854

Io e Reiner non ci fummo rivolti la parola per l'intero viaggio. Quando arrivammo alla base di passaggio, nascosta in un bosco non molto lontano dal boato, ci riunimmo per mangiare con quel poco che avevamo. Non mancarono i disguidi, per poco il comandante Magath e Jean non arrivarono alle mani, finché Hanji non calmò temporaneamente le acque.
Sentii costantemente gli occhi di Reiner puntati sulla mia figura e inconsciamente mi feci sempre più piccola, stringendomi nelle spalle e portandomi le ginocchia al petto. Mentre un'altra discussione prendeva inizio, per una manciata di secondi la mia mente si discostò dal presente e ripescai un ricordo sepolto dal tempo.

• • •

anno 849

La primavera fece il suo sereno ingresso e non appena il gelo invernale si quietò e i fiori sbocciarono sugli alberi e tra l'erba, tutti tirarono un sospiro di sollievo. La stagione preferita tra noi cadetti, dal momento che le vacanze primaverili erano alle porte, anche se non per tutti; chi aveva perso la propria casa cinque anni prima non fece ritorno e rimase alla base, in caserma, mentre gli altri furono felici di tornare per un paio di settimane a casa per passare il tempo limitato con la propria famiglia. Ed io rientravo in questa seconda categoria.

«Non vedo l'ora di dormire nel mio letto.» Jean si stiracchiò rilassato, con già il suo borsone in spalla.

«Salutami tua madre, Jean boy.» Gli feci un occhiolino denigratorio passandogli accanto e vidi i suoi occhi fulminarmi seduta stante.

«Cancellalo dalla tua memoria!»

Scoppiai a ridere e, in un misto di affetto e ironia sagace, salutai Jean con due pacche sulla spalla e anch'io con la mia borsa in spalla mi diressi verso l'uscita della caserma. Vidi però Reiner poco distante da me parlare con Bert e prima di andare mi feci coraggio e decisi di andarlo a salutare.

«Reiner.» Lo chiamai, attirando la sua attenzione.

Il biondo fece cenno all'amico di aspettarlo e venne verso di me a passo sicuro.

«Mi volevi?»

«Ti volevo salutare.» Sforzai un sorriso, guardandolo da cima a fondo. Non aveva la divisa da soldato, ma una semplice camicia bianca con pantaloni neri.

Maneggiai con la fibbia del borsone per distrarmi.

«Torni anche tu a casa?»

Annuii. «Mia madre mi sta aspettando. E ho come l'impressione che abbia notizie in serbo per me.»

Reiner fece un cenno col capo per farmi intendere che aveva capito e non disse altro. Fui io a porre fine a quell'imbarazzante silenzio, mordendomi con forza l'interno guancia prima di salutarlo.

«Allora ci vediamo tra due settimane. A meno che tu non voglia venirmi a trovare uno di questi giorni.»

Reiner, che prima si guardava intorno, dopo le mie parole focalizzò la sua attenzione su di me soltanto, agitandomi.

«Posso venire a trovarti a Sina dici?»

«Sì. Cioè, se vuoi. Non sei costretto.» Mi corressi subito, stringendo le mani attorno alla spallina del borsone.

Reiner si girò verso Bertholdt, poco distante da noi. Non sembrava aver sentito, eppure mi parve di vedere uno sguardo d'intesa tra i due, di cui non capii la natura.

Il biondo tornò da me. «Va bene. Dammi l'indirizzo.»

«Te lo scrivo da qualche parte. Aspetta entro un attimo e-» stavo per andare a prendere penna e calamaio, tuttavia Reiner mi bloccò.

«Lo memorizzo. Non preoccuparti.»

Poco convinta gli dissi comunque il mio indirizzo a voce, ripetendolo un paio di volte per accertarmi lo memorizzasse. In seguito ci dileguammo, salutandoci definitivamente, ed io con una carrozza partii verso i territori interni, a casa.

La gioia di mia madre nel vedermi in forma e in salute fu immensa, nonostante non passarono nemmeno tre ore dal mio arrivo che avemmo la nostra prima lite: mia madre infatti era sempre stata contraria che io entrassi nel Corpo di Ricerca, stessa opinione aveva mio zio, il marchese Balto Wald, il fratello di mio padre. Era un uomo molto basso, in carne, con la testa calva e due paia di baffi, che passava le sue giornate a giocare a scacchi e a rimpinzarsi di dolci. Lui e mia madre stavano facendo di tutto per convincermi a entrare nel Corpo di Gendarmeria finito l'addestramento, nonostante quasi certamente non sarei rientrata tra i primi dieci del corso. Ciononostante fui irremovibile nella mia scelta: sarei entrata nel Corpo di Ricerca, a costo di essere diseredata dalla mia famiglia.
Vidi mio zio due giorni dopo il mio arrivo, accompagnato in carrozza dal comandante Dot Pixis, suo amico di vecchia data.

«Così vuoi entrare nel Corpo di Ricerca, dico bene?» Mi domandò entrato in casa, mentre mia madre e mio zio conversavano nella stanza accanto.

«Sì signore.»

Pixis annuì comprensivo, tirando fuori una boccetta di alcol dal taschino interno della giacca.

«Mi piace la determinazione nei tuoi occhi. Il Corpo di Ricerca ha bisogno di cadetti come te, ora più che mai.»

Sorrisi, soddisfatta di aver fatto buona impressione sul comandante Pixis. Forse lui sarebbe riuscito a convincere mia madre e mio zio a lasciarmi libera di scegliere ciò che ritenevo meglio per me stessa.

Sei giorni dopo il mio arrivo, uscii sul balcone di casa e vidi il cielo rannuvolarsi, immaginando che presto avrebbe piovuto. Abbassai poi il capo per guardare la strada, quando vidi qualcuno che conoscevo bene avvicinarsi. Per quanto avessi provato a trattenermi, un largo sorriso sfuggì dalle mie labbra e mi fiondai dentro casa, scendendo le scale, e aprii la porta d'entrata. Precedetti Reiner, che aveva già sollevato la mano per bussare.

«Ciao.» Fece soltanto, con un sorriso. Indossava un semplice paio di pantaloni verde militare sorretti da una cintura e una camicia bianca. Al contrario suo, io avevo indosso un abito da casa alla moda.

«Ciao.» Stavo ancora riprendendo fiato, sia per la corsa sia per l'emozione di vederlo dopo quasi una settimana. Lo feci immediatamente accomodare in casa e dissi alla domestica di prepararci del tè.

«La tua casa è davvero enorme.» Reiner si guardò intorno, alzando la testa per ammirare anche l'alto soffitto.

«Sì... Immagino sia così.» Dissi leggermente imbarazzata, facendogli strada verso il secondo salotto. Era più piccolo del primo, ma sapevo che lì saremmo stati soli.

Lo feci accomodare sulla poltrona e una volta arrivata la domestica col tè, la ringraziai e lei ci lasciò, chiudendosi la porta alle spalle.

«Serviti pure.»

«Eh? Ah, sì.» Reiner si riprese, ancora con gli occhi che vagavano per la stanza.

Lo guardai prendere il tè e mettersi una zolletta di zucchero, tormentandomi le mani dal piccolo divano su cui ero seduta.

«Ti mette a disagio?»

«Cosa?»

«Questo. Il tè, la casa.» Mi guardai intorno, osservando l'arredamento elegante e costoso.

«No! Non mi mette a disagio.» Negò subito, impacciato. «Non sono abituato a questo stile di vita, tutto qui.»

«Capisco. Tu vieni da un villaggio a Sud del Wall Maria, esatto?» Presi la tazzina da tè, buttandoci due zollette di zucchero.

Quando alzai gli occhi su Reiner lo trovai pensieroso e stranamente taciturno.

«Sì... sì.» Annuì doppiamente.

Bevvi un sorso di tè, finché era ancora caldo, e invitai Reiner a fare lo stesso. Era ovvio che fosse a disagio, se non per l'ambiente per qualcosa che non riuscivo a capire.

Gli domandai come andasse in caserma, se Eren fosse migliorato con l'addestramento nella foresta, a colpire le sagome dei giganti, e se Annie e Bert stessero bene. Non passò molto prima che la conversazione si spostasse sulla mia vita e sulla mia famiglia. Di nuovo, Reiner mi fece domande riguardo il Re.

«Vive a palazzo reale non molto lontano da qui, vero?»

«Penso di sì.» Sospirai, vagamente annoiata.

«Pensi che lo incontrerai mai, nella tua posizione?»

«Ma perché ti interessa tanto del Re?!» Sbottai improvvisamente, arrabbiata.

Colsi Reiner di sorpresa a quanto pareva, poiché rimase a guardarmi con perplessità.

Sbuffai e mi poggiai sullo schienale del divano, incrociando le braccia al petto. Mi voltai dalla parte opposta per non doverlo guardare, giacché sapevo per certo che stavo arrossendo.

«Scusa. Non volevo annoiarti.» Non rispose alla mia domanda, innervosendomi maggiormente.

«Reiner io ti ho invitato... perché volevo passare del tempo con te. Perché invece parli di altre persone che non c'entrano nulla...» Abbassai la voce, sentendo le lacrime agli occhi. Non appena le ricacciai indietro tornai a guardarlo. Se ne stava in silenzio, con ancora la tazzina da tè in una mano; aveva poggiato il gomito sul bracciolo della poltrona e la mano sotto il mento a reggersi la testa. Non capivo a cosa stesse pensando, se avesse capito, o se proprio non gliene importasse nulla.

«Perché hai iniziato l'addestramento in ritardo?» Cambiai argomento, speranzosa che il disagio creato tra noi si dissipasse.

«Eh?» Si risvegliò da quelli che immaginai fossero i suoi pensieri.

«Si può diventare una recluta compiuti i dodici anni. Quasi tutti iniziano a quell'età, mentre tu hai iniziato con due anni di ritardo. Perché?» Rimuginai sul fatto che lui, proprio come Annie e Bertholdt, avevano già quattordici anni iniziato l'addestramento reclute. Questo li rendeva i più grandi del 104°.

«Per... una serie di eventi.» Si limitò a dire, taciturno.

Annuii leggermente, bevendo l'ultimo sorso di tè rimasto al fondo della tazzina.

«Ma anche tu hai iniziato dopo, non è vero? Hai iniziato a tredici anni.»

«Mia madre e mio zio non volevano che diventassi recluta. Dicevano che era inutile, dal momento che avrei potuto avere un posto nella Gendarmeria senza il minimo sforzo. Ma come ben sai io voglio entrare nel Corpo di Ricerca, quindi l'anno seguente sono comunque diventata una recluta. Andando contro il volere della mia famiglia.» Spiegai pacata, cercando di guardarlo dritto negli occhi e capire a cosa stesse pensando. Eppure, per quanto ci provassi, sembrava sempre impossibile.

Sentii la porta d'entrata aprirsi e quella che immaginai essere mia madre rientrare in casa.

«Cazzo.»

«Cosa?»

Ebbi la conferma che quella a rientrare fu mia madre, poiché sentii la sua voce squillante parlare con la governante delle spese che ebbe appena fatto.

«Andiamo.» Mi alzai, invitando il biondo a fare lo stesso.

«Perché? È successo qualcosa?»

«Non voglio che mia madre ti veda qui. È un po' protettiva, inizierebbe a fare domande... meglio che andiamo da un'altra parte.»

Prima che la governante potesse dire a mia madre di Reiner uscimmo entrambi dal salottino e attraversammo il corridoio silenziosamente, uscendo dalla porta del retro. Cacciai un sospiro di sollievo, tuttavia mi ricredetti l'istante dopo. Sentii una goccia d'acqua cadermi sulla punta del naso e in poco tempo le gocce si moltiplicarono.

«Vieni, andiamo sotto quella tettoia.» Mi indicò l'altro lato della strada, prima di afferrarmi la mano e correre sotto la pioggia. Successe tutto talmente velocemente che non ebbi nemmeno il tempo di agitarmi per la mia mano nella sua che già fummo arrivati e lui me la lasciò, con mia profonda delusione.

La pioggia aumentò e dovemmo rimanere fermi lì per una ventina di minuti, poggiati al muretto in mattoni.

«Non mi hai ancora parlato di tuo padre. Ora che ci penso non me ne hai mai parlato.»

Distolsi gli occhi dai suoi, indagatori, e li sollevai per guardare il cielo grigio.

«Perché è morto.»

Reiner non rispose ma vidi che si girò nella mia direzione. Ed io lo presi come un invito a proseguire.

«Era a Shiganshina per concludere un affare, credo comprare un terreno o qualcosa del genere, il giorno in cui sono cadute le mura. Non è riuscito a prendere un barcone in tempo.»

Continuai a guardare il cielo e la pioggia con indifferenza, ripercorrendo gli ultimi ricordi che avevo di mio padre. Non molti, dal momento che spesso non era a casa. Anzi, non ricordo nessuna conversazione che ebbi con lui, se non tanti "bentornato papà" e "buon viaggio papà".

«Non avevo un legame molto profondo con lui, anzi lo odiavo perché era sempre via per lavoro e mi ignorava. Però era pur sempre mio padre, e mia madre soffrì terribilmente quando venne a mancare. E fu il dolore di mia madre a farmi soffrire tanto.» Abbassai lo sguardo sulla strada, ricordando con rammarico le grida e le lacrime disperate di mia madre alla notizia.

«Ora capisci perché voglio entrare nel Corpo di Ricerca? Voglio vendicare il dolore provato da mia madre. Forse è un obiettivo troppo ambizioso, lo ammetto.» Mi lasciai andare ad una risata leggera, prima di tornare seria. «Ma almeno ci devo provare. Non credi-»

Mi girai e vidi Reiner che con occhi sbarrati fissava a terra. Sembrava profondamente scosso e sconvolto, tanto che non lo vidi nemmeno respirare.

«Reiner? Reiner!» Lo chiamai un paio di volte, terribilmente preoccupata. Gli afferrai una spalla e lo scossi, e lui si risvegliò da quello stato di trance. Era durato pochi secondi, ma per la paura che mi dette sembrarono minuti interi.

«Reiner stai bene?» Mi misi di fronte a lui, cercando di incrociare il suo sguardo.

Non appena lo guardai dritto negli occhi lui parve riprendersi del tutto e fu come se avesse ricomiciato a respirare. Immediatamente si scostò da me e prese a guardare un punto distante. Volli domandargli una seconda volta se stava bene, ma un suo sussurro mi fermò.

«Mi dispiace.»

«Cosa? Dici per mio padre...? Non preoccuparti, non è mica colpa tua.» Ridacchiai con amarezza, tornando subito seria. «Anzi. Non è colpa di nessuno.»

Sperai di averlo tranquillizzato, ma le mie parole sembrarono turbarlo maggiormente, tanto che mi tirò un'occhiata fugace, sofferente, e si allontanò.

«Reiner! Ma dove vai?!» Lo chiamai, cercando di fermarlo. Lo seguii persino sotto la pioggia e gli afferrai una manica della camicia, ma lui mi scansò senza troppa fatica e proseguì.

Rimasi a guardarlo allontanarsi sotto il rumore scrosciante della pioggia, chiedendomi cosa gli fosse preso, finché offesa non mi costrinsi a levarmelo dalla testa e corsi verso casa, zuppa d'acqua.

I giorni seguenti passarono lenti e noiosi, tra giornate di Sole intervallate da giornate di pioggia. Non facevo altro che pensare a Reiner, chiedendomi cosa gli fosse preso, se stesse meglio. Mi chiedevo persino se mi stesse pensando, ingenuamente.

Sospirai guardando la pioggia battere contro il vetro della mia finestra, poggiata con un gomito sul davanzale e un pugno affondato sulla mia guancia.
Sentii mia madre chiamarmi dal piano di sotto e svogliatamente mi alzai dalla mia posizione comoda sulla poltrona. Mi sistemai per scendere, trovando mia madre con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.

«Ti ho comprato un abito nuovo. Sbrigati a metterlo, la domestica poi ti aiuterà con i capelli.»

«Perché? Dove devo andare?»

«C'è un banchetto alla reggia di tuo zio, la carrozza arriverà alle diciannove. Hai due ore di tempo per essere pronta e in ordine per andare.»

Mi lasciò un bacio sulla testa e salì al piano di sopra, dove sentii la porta di camera sua chiudersi. Ad essere sincera non me la sentivo di uscire, con l'umore a pezzi che mi ritrovavo, tuttavia rifiutare non una richiesta, bensì un ordine di mia madre era fuori discussione. Mi trascinai verso il bagno e mi feci aiutare dalla domestica a prepararmi di tutto punto e per le diciannove spaccate io e mia madre salimmo in carrozza, dirette alla villa di mio zio.

Il banchetto era colmo di gente che non conoscevo, tra ricchi proprietari terrieri, mercanti e soldati della Gendarmeria centrale. Mi tornarono in mente tutte le domande che fino all'anno prima Reiner mi poneva, ma ancora offesa con lui per avermi lasciata sotto la pioggia senza nemmeno salutarmi decisi di non pensarci e non indagare, qualsiasi cosa lui volesse sapere.

«Nipotina mia! Sei un incanto con quest'abito! Tua madre ha sempre ottimo gusto.»

Sorrisi a mio zio, il quale mi fece fare una piroetta in quel mio vestito rosa antico.

«Ti vorrei presentare qualcuno, se mi permetti.»

Lo guardai confusa e interrogativa, quando si voltò per chiamare qualcuno alle sue spalle. Ci raggiunse un uomo che avrà avuto all'incirca tra i venticinque e i trent'anni, nelle migliori delle ipotesi. Dei peletti scuri gli punzecchiavano il mento e le guance, tanto che più volte si grattava infastidito. Non sembrava neppure troppo sveglio, a giudicare dagli occhi stanchi e annoiati.

«Dennis, ti voglio presentare mia nipote [T/n]. [T/n], lui è il capitano di uno degli squadroni del Corpo di Gendarmeria, Dennis Aiblinger.»

Troppo scombussolata per dire qualcosa mi lasciai stringere la mano, senza troppi complimenti da parte sua. Avrei giurato che fosse persino meno interessato di me a quell'incontro, se non fosse stato per i suoi occhi che vagavano sulla mia intera figura, soffermandosi sulla scollatura del vestito.

«Tra poco l'orchestra suonerà un walzer, perciò se ti va, Dennis, [T/n] sarà ben contenta di concederti il suo primo ballo.»

Spaventata guardai mio zio, che tuttavia non mi rivolse altro che un sorriso bonario prima di allontanarsi e lasciarmi sola con quel capitano della Gendarmeria.

«Felice di fare la sua conoscenza, signorina [T/n]. Spero che troveremo argomenti di cui conversare per l'intera serata.» Il capitano si rivolse a me, cordiale.

«Scusi ma devo assentarmi un momento.»

A passo svelto percorsi la sala ricevimenti e imboccai il corridoio, fermandomi raggiunto il retro. Aveva smesso di piovere e il cielo s'era schiarito nuovamente, osservando l'immenso giardino fiorito e il lago al chiaro di luna. Trovai una sorta di pace in quella solitudine, col rumore della fontana adornata con due putti non molto distante a spezzare quel silenzio.

«[T/n]? Che ci fai qua fuori?»

Venni raggiunta da mia madre, la quale mi guardava con velata apprensione materna.

«Perché lo zio mi ha presentato quel gendarme e gli ha detto di ballare con me?» Andai dritta al punto, immaginando già quale sarebbe stata la risposta di mia madre.

«È per questo che sei così in pena? Ma non devi preoccuparti, non è ancora il momento di farsi venire queste paranoie.»

«Ancora?»

Mia madre sospirò, invitandomi a camminare al suo fianco verso il labirinto di alte siepi, prendendomi il braccio e incatenandolo col suo.

«[T/n]. Sai che hai già quindici anni. Il prossimo anno saranno sedici e io e tuo zio pensiamo sia giunto il momento di pensare al futuro, non credi?»

«Futuro...?» Domandai con un fil di voce.

«Sì. Un futuro con accanto un uomo che ti ami, una casa tutta tua e, chi lo sa, anche dei bambini, no?»

Volevo fermarmi e scansare il braccio di mia madre, sconvolta e irata, tuttavia lo sgomento fu tale che rimasi immobilizzata.

«Non dico che tu debba fare il grande passo adesso, su due piedi. Sei ancora troppo giovane e poi ti devi ancora diplomare al corso cadetti. Ma trovo che iniziare a fare nuove conoscenze, all'interno della nobiltà e dei soldati della Gendarmeria, sia un buon punto di partenza per raggiungere in tutta calma questo traguardo. Lasciarti il tempo per adattarti a questa realtà, levarti dalla testa il Corpo di Ricerca e sciocchezze simili. Cosa ne dici?»

Io e mia madre ci fermammo raggiunta l'entrata del labirinto, lasciandomi il braccio.

«Ma io non voglio sposarmi.»

Mia madre mi sorrise con dolcezza. «È ovvio che ora tu la pensi così. Come ti ho detto sei ancora troppo giovane, ma ciò non significa che tu non debba nemmeno pensarci. Al contrario, sono convinta che questa sia l'età giusta per mettere apposto le idee e pensare seriamente al proprio futuro. È così che io ho conosciuto tuo padre.»

«Ma io non voglio nemmeno pensarci, al matrimonio. Né adesso né domani. E molto probabilmente nemmeno tra una settimana, un mese, un anno. Io ora voglio diplomarmi ed entrare nel Corpo di Ricerca mamma, te l'ho detto.»

Il mio obiettivo fu risultare sicura e convincente, ma il tremolio nella mia voce, l'incertezza e il balbettio non sortirono l'effetto desiderato. Mia madre infatti mi portò una mano al viso, comprensiva, accarezzandomi delicatamente la guancia.

«So che sei spaventata, lo capisco perfettamente. Ma come puoi preferire morire mangiata da un gigante, oh, che Dio non voglia... rispetto ad un futuro come moglie e madre? Non voglio perderti come ho perso tuo padre.»

«Non mi perderai. Non ho alcuna intenzione di morire là fuori.»

Mia madre a quel punto sospirò. «È inutile continuare a ribellarsi. Come fai a non capire che il tuo destino è qui?»

«Nessuno di noi avrà futuro, tantomeno un destino, se non ci saranno persone pronte a combattere contro quei mostri, come fai tu a non capirlo?» Alzai il tono di voce, finalmente ripresa dallo shock iniziale.

Mia madre tentò di persuadermi ancora, ma quel che feci fu correre all'interno del labirinto dove sapevo che mia madre non mi avrebbe mai seguita. E se l'avesse fatto, non mi sarei fatta trovare. Conoscevo bene tutti i vicoli di quel labirinto, ci avevo passato l'intera infanzia al loro interno.

Stetti al centro del labirinto a piangere per un'ora almeno, spaventata all'idea di dovermi sposare con quell'uomo o con qualunque altro che non fosse Reiner. Quelle due settimane in solitudine, lontana dal corpo cadetti e da Reiner, mi fecero accorgere di quanto la mia non fosse più un cotta; ma che quel sentimento fosse cresciuto a tal punto da non essere minimamente intimorita a definirlo persino "amore". Mi ero innamorata di Reiner a avrei dovuto dirglielo al più presto, prima che mia madre mi avesse rinchiusa in una sala ricevimenti a fare le moine a qualsiasi nobile o gendarme esistente.

«Reiner entrerà nella Gendarmeria, se non sbaglio.» Pensai a voce alta mentre mi alzavo dalla panchina in pietra, più speranzosa. Reiner non veniva certo da una famiglia altolocata, ma forse a mia madre e a mio zio sarebbe bastato un soldato della Gendarmeria semplice, senza lode e senza infamia.

Mi convinsi di ciò è mi decisi ad uscire dal labirinto, rientrando per il banchetto e le danze alle quali non potevo sottrarmi.

Passarono due settimane e giunse il momento di tornare alla base d'addestramento. Salutai mia madre, nascondendo l'astio nei suoi confronti dietro rassicurazioni ai suoi allarmismi. Salita in carrozza tirai un sospiro di sollievo che tuttavia non durò a lungo, al pensiero di dover rivedere Reiner. Dopo esserci separati a quel modo, la settimana precedente, non ebbi idea di come ci saremmo approcciati al mio ritorno.

Arrivata al campo scesi dalla carrozza e salutai il cocchiere, vedendo già in lontananza alcuni miei compagni, tra cui Eren, Connie, Armin e ovviamente Jean, il quale mi diede il suo personale bentornato.

«Anche la principessa con istinti suicidi è tornata allora.»

«Smettila di chiamarla così.» Eren prese prevedibilmente le mie difese, gesto che apprezzai molto. Essere in due contro uno era un vantaggio non da poco.

«Vaffanculo Jean.» Mi aggiunsi, rispondendo direttamente alla frecciatina con un'altra altrettanto pungente. «Hai mangiato troppe omelette da non poter pensare a insulti migliori?»

Connie scoppiò a ridere e Armin dovette soffocare un sorriso, tanto che Jean si adirò anche coi due. Presi dunque ad ignorarlo e portai le mie cose al dormitorio, salutando le altre ragazze.

«In queste due settimane in cui tu eri via Reiner è stato parecchio taciturno.» Mi disse Sasha, cercando di non farsi sentire dalle altre.

«D-davvero?»

«Secondo me gli sei mancata!» Continuò a darmi fiducia, con un sorriso raggiante.

Sentii un braccio posarsi sulla mia testa e capii subito di chi si trattava. La corvina lentigginosa mi guardava infatti dall'alto in basso, con sguardo di sfida.

«Forse è finalmente arrivato il grande momento, eh, cara [T/n]?»

Nel frattempo ci raggiunse anche Christa, unendosi alla nostra conversazione.

«Cosa intendi?» Pensai che Ymir si stesse riferendo al mio proposito di dichiararmi, ciononostante il suo ghigno perverso mi fece ricredere l'istante dopo.

«Parlo di altro, idiota.»

«Ymir non la insultare!» Christa sgridò l'amica, mentre io lentamente capii di cosa stesse parlando.

«Ma sei impazzita?!» Mi allontanai da Ymir, avvampando.

«Che c'è di strano? Non siete due bambini, se non ci pensate ora quando mai ci penserete?»

«Ymir ha ragione [T/n]. Se vuoi posso aiutarti a sgattaiolare al dormitorio maschile stanotte.» Sasha ghignò, dandomi qualche colpetto al braccio.

Accampai qualche scusa, troppo imbarazzata per entrare nel merito, quando Christa si intromise.

«Ma di che state parlando, si può sapere?»

Ci girammo a guardare la biondina, esterrefatte, e Ymir le avvolse un braccio sulle spalle e la prese amorevolmente in giro. E la conversazione fu chiusa.

Quella sera dopo aver cenato, quando tutti furono rientrati dalle vacanze e stavano andando a dormire per preparsi ad un nuovo giorno di addestramento, mi feci coraggio e chiamai Reiner, chiedendogli se potevamo parlare. Andammo in un angolo della caserma, dietro la mensa, dove nessuno ci avrebbe visto e dove l'istruttore non ci avrebbe trovato almeno per un po'.

«Prima di tutto... come stai?»

«Bene, tu invece?»

Proprio come mi ebbe detto Sasha, Reiner sembrava parecchio taciturno e turbato, ma non decisi di indagare oltre. Non volli rischiare di infastidirlo con le mie insistenze.

«Bene anche io, ora che sono tornata.»

Attesi che dicesse qualcosa ma, non rivolgendomi altro che silenzio, continuai.

«Sai Reiner... Mi sei mancato molto in queste due settimane...»

Attesi una seconda volta e, per la seconda volta, il biondo di fronte a me non disse nulla. La sua bocca era serrata e non mi guardava nemmeno, preferendo rivolgere il suo sguardo altrove in un punto indeterminato in lontananza.

L'angoscia che mi stava divorando viva non mi permise di continuare quel mio discorso e deviai su altro, impanicata.

«Queste due settimane sono state difficili con mia madre. Non ha fatto altro che dirmi di non entrare nel Corpo di Ricerca, che non è il mio destino e che il mio futuro è sposarmi e avere figli.»

«Sposarti?»

Finalmente ebbi una reazione da parte sua e mi guardò, sorpreso.

Annuii. «Mia madre e mio zio a quanto pare si sono già accordati per trovarmi un uomo altolocato il prima possibile, così da avere più probabilità che mi sposi entro i vent'anni immagino.» Mascherai la mia sofferenza dietro una risata di circostanza, non sapendo come avrebbe reagito Reiner.

In un primo istante parve rabbuiarsi, ma nell'attimo seguente tornò a guardare quel punto distante, ammutolito.

Parlando iniziai a tormentarmi le dita. «Quindi se non dovessero riuscire a farmi entrare nella Gendarmeria, faranno di tutto almeno per non permettermi di entrare nel Corpo di Ricerca e farmi sposare. E ho paura che ci riusciranno.»

Cercai lo sguardo di Reiner, ma lui si rifiutò di concedermelo. Agrottai le sopracciglia, serrando e mordendomi le labbra. Ricacciai le lacrime indietro per quanto mi fosse possibile e con voce tremante ripresi quel mio discorso astruso e apparentemente insensato.

«Stavo pensando che un giorno potrò sposarmi, se mai lo vorrò. Ma voglio che sia con qualcuno che amo davvero... Qualcuno che mi rispetti, che mi voglia bene, che mi renda davvero felice. Q-qualcuno come te magari... Capisci cosa intendo?»

Mi scrocchiai le dita per quanto le stavo tormentando e non ebbi la forza di alzare lo sguardo, con la paura di incontrare quello di Reiner. Sentivo che se avessi incontrato i suoi occhi il cuore mi sarebbe uscito dal petto.
Da quel che potei vedere, con gli occhi puntati a terra, Reiner si distanziò un poco da me e si appoggiò alla parete della mensa. Si portò poi le mani alle tasche dei pantaloni, incurvando le spalle e chinando il capo.

Mi convinsi che non avesse capito o, in caso contrario, non ricambiava i miei sentimenti. Era troppo silenzioso, troppo inquieto. E velocemente persi le speranze.

«Anche tu mi piaci [T/n].»

Come un fulmine a ciel sereno avvertii il mio cuore fare un balzo fin in gola, bloccandomi il respiro per dei lunghi istanti. Alzai gli occhi e li incrociai coi suoi, che mi guardavano con sentimenti che non riuscivo a decifrare. Sembrava in contrasto con sé stesso, come se stesse lottando contro i suoi stessi sentimenti. Per una manciata di secondi provai una gioia immensa, talmente grande da averne gli occhi pieni di lacrime, ma non trovando la stessa gioia nei suoi occhi mi angosciai.

«Davvero ti piaccio?»

«Sì.»

«Perché allora non sembra?»

Le mie parole lo incupirono maggiormente e si portò un mano alla testa, stringendosi i capelli.

«Tu mi piaci molto [T/n], dico sul serio. Però... la mia testa è un casino e non penso si sistemerà tanto presto.»

Aggrottai le sopracciglia, confusa. Non capii dove volesse arrivare.

«Non so come riuscirò ad uscirne, se ci riuscirò. Devo assolutamente mettere in ordine le idee prima che ne esca pazzo. Anzi forse ne sono già uscito pazzo. Ma devo comunque andare avanti e adempiere al mio destino. Non posso fare altrimenti.»

«Reiner ma che stai dicendo?»

Il biondo sbuffò, facendo cadere la mano a peso morto sul suo fianco. Appariva molto stanco.

«Non lo so.»

Restammo in silenzio entrambi, io senza la minima idea di che cosa stesse dicendo Reiner e di cosa volesse, lui con chissà quali pensieri per la testa.

«Domani ci aspetta una lunga giornata. Sarà meglio andare a dormire, prima che ci trovi l'istruttore.»

Non fiatai e lo guardai allontanarsi verso il suo dormitorio, senza la forza di fermarlo e chiedergli spiegazioni. Non capii nulla, se non che anche Reiner molto probabilmente non ci aveva capito niente. Gli piacevo, e...? Era cambiato qualcosa tra noi? O era rimasto tutto com'era prima?
Tornai al dormitorio e passai la notte a piangere in silenzio per non svegliare nessuno, troppi pensieri a occupare la mia testa e troppe emozioni a occupare il mio cuore.

Dopo quella conversazione, per qualche ragione che non capii, Reiner tornò ad essere il ragazzo gentile e sorridente che era sempre stato, persino con me, come se non fosse mai avvenuto niente. In dei brevi momenti sembrava sull'orlo di un pianto isterico, mentre in altri rideva e faceva battute con gli altri. Un giorno mi ignorava, e quello seguente mi stava vicino, mi aiutava e mi faceva gli occhi dolci. Non riuscivo a capirne il motivo, ma decisi di ignorarlo e continuare il mio percorso nel 104° corpo di addestramento reclute, fino al giorno del diploma. Se avessi voluto entrare nel Corpo di Ricerca avrei dovuto mettere i sentimenti personali da parte in ogni caso, giacché mi ero ripromessa di offrire la mia vita al servizio del genere umano.

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