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047 bel modo di ritrovarsi

capitolo quarantasette
( bel modo di ritrovarsi )





Ophelia non sapeva esattamente quanto tempo fosse passato da quando era stata caricata sul retro di quel pick-up e da quando quest'ultimo aveva iniziato ad avanzare verso una meta a lei sconosciuta. Probabilmente mezz'ora, o forse un'ora. Lei, dal canto suo, aveva tenuto sempre gli occhi incollati sulla strada e sull'ambiente circostante per due motivi ben precisi: memorizzare il tragitto, ed evitare di guardare, nella maniera più assoluta, l'uomo che si trovava al suo fianco.

Era massiccio, e ogni tipo di scontro con lui avrebbe portato senza dubbio alla sconfitta di lei. Come se non bastasse, la osservava come se fosse un nemico, qualcuno da eliminare, e sicuramente non si sarebbe fatto alcun problema a premere il grilletto.

Erano tutti armati, dal primo all'ultimo, fino ai denti, e indossavano dei giubbotti antiproiettile. Per un attimo venne sfiorata dal pensiero che facessero perfino parte dell'esercito, il che la convinse che forse avrebbe fatto bene ad ascoltare il consiglio di Portis.

Inizialmente, tutto ciò che vedeva attorno a sé erano solo tante strade e tanti alberi, almeno fin quando non intravide, in lontananza, un'enorme abitazione farsi sempre più vicina, e imboccarono la strada proprio per raggiungerla. Ai margini c'era una schiera di palme che conduceva fino al cancello della struttura, che, a sua volta, era recintata da alte e massicce mura. Dovettero perfino superare il controllo di tre uomini armati — uno aveva anche un cane al guinzaglio — che, dopo una veloce occhiata, alzarono la sbarra di legno e permisero al pick-up di avanzare.

Percorsero una lunga strada ben curata, con immense distese di prato dal colore verde brillante, e ai lati c'erano addirittura delle torri di controllo. In cima ad esse, i cecchini armati controllavano il perimetro. Ad aiutarli, in basso, c'erano i cani e altri uomini in sella ai loro quod.

Ophelia deglutì spaventata. Erano tutti armati, dal primo all'ultimo, e quel posto, così enorme e tanto controllato, non faceva che incuterle timore mentre si chiedeva cosa c'entrasse lei con tutto quello.

Quando il pick-up venne parcheggiato, la ragazza venne afferrata bruscamente da uno di quegli uomini, e fu fatta portare davanti alla porta d'ingresso di quella fortezza, anch'essa controllata a dovere.

«La prigioniera è entrata in casa. Riattivare le misure di controllo» sentì dire tramite un walkie-talkie.

Prigioniera. Quella parola fu in grado di incuterle timore e di farla rabbrividire. Non riusciva a capire. Era stata presa in ostaggio? Cosa volevano da lei?

Quasi le veniva da ridere istericamente: dalla libertà su Poguelandia, si era ritrovata ad essere una prigioniera nel giro di poche ore. Sembrava tutto così assurdo.

A destarla dai suoi pensieri fu la porta che venne aperta, rivelando una donna con indosso la divisa da domestica. Le lanciò un breve sguardo che fu in grado di farla rabbrividire. Quasi sembrava l'avesse guardata come se fosse un cane a tre teste.

Si mise di lato, permettendole di entrare in quell'enorme casa il cui colore maggiormente presente era il marrone del legno, di cui erano fatti la maggior parte dei mobili. Sembrava un enorme museo. C'erano grandi librerie strapiene di libri di ogni tipo; c'erano quadri e manoscritti appesi al muro, accompagnati da numerose teche con all'interno oggetti che senza dubbio erano di valore. C'era addirittura l'elmo di un soldato.

Se non fosse stata la sua prigione, l'avrebbe trovata elegante e accogliente, ma in quelle circostanze riusciva solamente a pensare di voler essere dovunque tranne lì.

«Portala di sopra. Stanza Orinoco» disse con autorità la donna, gettandola nelle braccia dell'ennesimo uomo armato, che si trovava in fondo a una rampa di scale.

Quest'ultimo non perse tempo a stringerle il braccio e a strattonarla. «Da questa parte — la spinse verso le scale — Sali, avanti».

Salirono al piano superiore, lì dove c'erano numerose porte. La ragazza non ebbe il tempo di guardarsi attorno che fu spinta all'interno di una stanza.

Prima che l'uomo potesse chiudere la porta, si girò e lo guardò. «Può almeno dirmi perché sono qui? Per chi lavori?» ringhiò con rabbia, ma anche con un pizzico di disperazione.

«La cena è alle otto. Datti una ripulita» si limitò a rispondere prima di chiuderle la porta in faccia.

«Vaffanculo!» disse a denti stretti, ritrovandosi a battere la mano chiusa in un pugno contro la porta.

Sentì i passi dell'uomo farsi sempre più lontani, e lei si girò, sospirando esausta e lasciandosi andare contro la porta alle sue spalle. Si passò con disperazione le mani tra i capelli rossi, riaprendo gli occhi chiusi poco prima e guardandosi attorno.

Era un'ampia stanza dalle pareti verde petrolio. Al centro c'era un letto matrimoniale a baldacchino con delle coperte di un colore bianco candido. Sulla sinistra, vi era la porta che conduceva al bagno.

Ispezionò ogni angolo della stanza, ma sembrava essere una camera come tutte le altre, così non le restò che avvicinarsi alla finestra, dalla quale entravano dei flebili raggi di sole. Sporgendosi, riuscì ad intravedere il porticato, sorvegliato dai medesimi uomini che aveva visto poco prima.

Mille domande continuavano a vagare nella sua testa. Si chiedeva chi fossero, cosa volessero, per chi lavorassero, e se davvero Ward c'entrasse con tutto quello. Cosa sarebbe successo lì? L'avrebbero uccisa? L'avrebbero minacciata?

Per quanto facesse paura, sapeva che l'unico modo per avere la risposta a tutte quelle domande fosse assecondarli, fare il loro gioco, incontrare chiunque volesse parlarle e capirne di più.

Si voltò, e i suoi occhi caddero immediatamente sul grande armadio di legno lasciato aperto, al cui interno c'erano quattro identici abiti, e solo avvicinandosi si rese conto del fatto che fossero di diversa taglia.

Titubante, afferrò il bigliettino incastrato in una delle grucce, leggendolo subito dopo:

"Scegli la tua taglia"

Indossare abiti da sera non rientrava nella sua lista dei desideri, soprattutto in quella situazione, ma non poteva fare altro che pensare alle parole di Jimmy. Se li avesse assecondati e non avesse creato problemi, allora non le avrebbero fatto del male, e lei doveva seguire quel consiglio.

Afferrò di fretta il vestito, dirigendosi poi all'interno del bagno. I suoi occhi quasi si illuminarono alla vista della vasca. Non ricordava neanche quando fosse l'ultima volta che il suo corpo era stato a contatto con dell'acqua che non fosse salata. Non ci pensò troppo, e mossa dal desiderio di far distendere, per quanto possibile, i suoi nervi, riempì la vasca con dell'acqua tiepida, immergendosi all'interno subito dopo.

Rilasciò un sospiro di sollievo nel momento in cui venne a contatto con l'acqua e si ritrovò a chiudere gli occhi, facendo dei sospiri profondi nel tentativo di calmarsi. Quantomeno, nonostante fosse una prigioniera, le avevano dato un'enorme stanza con tanto di bagno. Il che, in realtà, era molto inquietante. Sembrava quasi che fossero "gli ultimi bei momenti prima della morte".

Scacciando dalla mente quei pensieri, uscì dalla vasca e avvolse il suo corpo all'interno dell'accappatoio lì presente. Uscì nuovamente dalla stanza e andò a curiosare all'interno dei cassetti, riuscendo a trovare degli slip neri. Onestamente, le faceva ribrezzo il solo pensiero di dover indossare un intimo trovato in un cassetto a caso, ma, in quelle circostanze, aveva altro a cui pensare e di cui preoccuparsi.

Lo infilò velocemente, tornando poi in bagno. Con il braccio, tolse il leggero vapore allo specchio, trovando finalmente il coraggio di guardarsi. A dirla tutta, si aspettava di assumere un'espressione disgustata, ed era certa che non si sarebbe piaciuta, ma stranamente non fu così.

Aveva perso qualche chilo, forse tre o quattro, ma ciò era servito a rendere più evidenti le curve del suo seno e del suo sedere. Le clavicole erano esposte, e la sua pelle, solitamente pallida, era parecchio abbronzata. L'abbronzatura era stata anche in grado di rendere evidenti le sue lentiggini, quelle che aveva sempre odiato ma che aveva imparato ad apprezzare grazie ai suoi amici, che dicevano di adorare quei piccoli puntini sparsi sulle sue guance e sul suo naso.

Sospirò angosciata al loro pensiero, chiedendosi cosa stessero facendo e se si fossero già mossi per aiutarla. Era certa che fosse così, ma sperava che non si mettessero nei guai, che non rischiassero la vita per salvare lei. Non l'avrebbe mai sopportato.

Si sfiorò con delicatezza il taglietto alla guancia sinistra, e poi, come ultima cosa, guardò i suoi occhi azzurri. Avevano sempre detto, a partire da suo padre, che quegli occhi esprimessero tanta allegria e solarità. Col tempo, dopo aver affrontato tutte quelle vicende, si erano spenti gradualmente, in particolare quando Sarah e John B erano stati dati per morti. Erano ritornati ad accendersi quando si erano rincontrati, ma ora stavano tornando a riperdere quella luce. Erano stanchi, desiderosi solamente di tornare a casa, e lei iniziava ad avere davvero paura di non farcela.

Ciononostante, era ben consapevole del fatto che non si potesse arrendere, e non lo avrebbe fatto, nonostante la sua evidente stanchezza. Doveva rimboccarsi le maniche ancora una volta, scoprire cosa volessero quegli uomini, e cercare, in qualche assurdo modo, di andare via.

Poteva solo sperare di non morire.

Asciugò i suoi capelli con l'asciugacapelli presente nel bagno, e, subito dopo, si affrettò ad indossare il vestito. Onestamente, non aveva idea di che ore fossero, ma di certo era trascorso un bel po' di tempo da quando aveva messo piede in quella fortezza — o meglio, era stata costretta a mettere piede.

Si guardò allo specchio, assumendo un'espressione disgustata, e non per il suo aspetto o per il vestito, ma perché non riuscivo a sopportare l'idea di doversi vestire in maniera così carina in quelle circostanze. Ancora di più odiava il fatto che quell'abito le piacesse. Le spalline erano sottili e lo scollo a V metteva in evidenza il suo seno più evidente da quando aveva perso peso; era stretto in vita, anche se poi si allargava dolcemente lungo le gambe, e la particolarità era senza dubbio uno spacco laterale non troppo profondo, ma che comunque lasciava intravedere la sua pelle morbida e abbronzata.

Non era male, questo era certo, ma ad inquietarla ancora di più era il fatto che fosse di un celeste pastello, nonché il colore che, decisamente, le stava meglio di tutti, anche perché richiamava l'azzurro dei suoi occhi. Coincidenza o meno, bastò quello a farla spaventare.

Una volta essersi preparata ed essersi sistemata, non le rimaneva che aspettare, e si andò ad accomodare sul letto al baldacchino. Successivamente, si distese e iniziò ad osservare il soffitto, giocherellando, con fare nervoso e agitato, con le sue stesse dita.

Nel frattempo, continuò a porsi delle domande, chiedendosi in particolare chi diavolo l'avesse rapita. Era una ragazza del tutto normale, fatta eccezione per il fatto che avesse trovato l'oro della Royal Marchant e anche la Croce, quindi, probabilmente, era per quello. Il che le faceva pensare, appunto, che dietro tutto quello ci fosse Ward... o addirittura Rafe.

Era oramai ben chiaro che non si facessero problemi a rapire le persone, ma c'era qualcosa di strano. Era come se le mancasse un tassello importante di tutta quella storia, e per quanto la situazione la spaventasse, voleva capire, voleva andare a fondo di tutto quello. Era impensabile, per lei, che la rapissero senza darle spiegazioni in merito, quindi doveva semplicemente aspettare...

E aspettò per quelle che le sembrarono delle ore, sentendo il nervosismo crescere sempre di più in lei. Poi, d'un tratto, qualcuno bussò violentemente contro la porta, facendola alzare di scatto dal letto.

Ad entrare, subito dopo, fu la stessa donna che l'aveva "accolta" qualche ora prima. «Lui è pronto» la informò.

Ophelia avrebbe voluto farle domande in merito, chiederle chi fosse questo Lui che possedeva tutto quello e che l'aveva rapita, ma decise di mordersi la lingua e di annuire, seguendola al di fuori di quella stanza.

Raggiunsero il piano inferiore, scendendo quelle scale con una lentezza tale da far innervosire ancora di più Ophelia. Poi, finalmente, venne portata a destinazione, e la donna andò via.

La ragazza si guardò attorno, rendendosi conto del fatto che fosse stata portata nella sala da pranzo. Tutto intorno a lei era silenzioso mentre osservava quell'enorme stanza con molta cautela, poggiando gli occhi sui vari quadri, sull'enorme tavola rettangolare posta al centro, e poi ecco che i suoi occhi si poggiarono sulla finestra, lì dove qualcuno era girato di spalle, intento osservare al di fuori di essa.

Quando lo vide, sentì quasi il respiro mancarle, pur non comprendendone il motivo. Era un ragazzo, forse più grande di lei di qualche anno. Aveva i capelli corti, rasati. Era molto alto, con le spalle larghe che erano coperte da un'elegante giacca grigia. Era composto, quasi regale.

Ophelia deglutì rumorosamente, chiedendosi se fosse stato lui ad averla fatta rapire.

Poi sospirò e si fece coraggio. «Mi scusi?» lo richiamò con titubanza.

Si ritrovò ad assumere un'espressione stranita quando vide le spalle del ragazzo irrigidirsi a causa della sua voce, quasi come se non se l'aspettasse, e bastò quello per farle chiedere se fosse lui il rapitore o se fosse, invece, un altro prigioniero come lei.

Improvvisamente, si voltò.

Quando i loro occhi si scontrarono, ad Ophelia quasi cadde la mascella, non riuscendo a decifrare le sensazioni che si ritrovava a provare in quel momento. Era quasi come se tutto, in un solo attimo, si fosse fermato, e dovette sbattere le palpebre più volte per assicurarsi della veridicità della situazione. I brividi iniziarono ad insinuarsi nella sua pelle, e il cuore prese a battere come un'orchestra di tamburi. Le pareti sembravano stringersi, l'aria farsi densa e pesante, quasi irrespirabile.

Continuò a guardarlo, rendendosi conto di quanto fosse diverso dall'ultima volta che lo aveva visto. Gli sembrava essere maturato, quasi come se si fosse preso delle responsabilità e fosse cresciuto, non solo a livello fisico. Gli occhi le sembravano più tranquilli, ma questo non significava che fossero diversi. Quel blu rappresentava sempre un mare in tempesta, ma, quella volta, se qualcuno si fosse trovato lì dentro, sarebbe stato in grado di scorgere la riva, e sarebbero state proprio quelle onde a spingerlo lì, a portarlo in salvo.

Era come l'inizio di un cambiamento.

«Rafe?» il suo nome le uscì come un sussurro strozzato, e stava sul serio iniziando a perdere la capacità di parlare e di formulare un solo pensiero che avesse un minimo di senso compiuto.

Così bello e affascinante nella sua sobria compostezza. Sembrava un diavolo disceso dal paradiso, il più bello e spietato che lei avesse mai visto.

Anche lui sembrò prendersi del tempo per guardarla e per scrutarla con attenzione. Dapprima confuso, poi parve quasi incantarsi mentre la osservava, e Ophelia si chiese cosa stesse pensando, quali fossero le sue considerazioni su di lei.

Poi, in un attimo, la ragazza tornò con i piedi per terra e si rese effettivamente conto della situazione. Assunse un'espressione infastidita e gli puntò all'indice contro, guardandolo con rabbia.

«Cosa credi di fare, eh? Ti stai vendicando? O forse è un vizio quello di rapire le persone?» sputò acidamente, ripercorrendo con la mente, in maniera veloce, tutto ciò che lui aveva fatto prima di salire su quella nave e anche nel momento in cui si erano trovati sopra. Era stato spietato.

Il ragazzo scosse la testa nel tentativo di riprendersi dei suoi pensieri, e ricambiò lo sguardo irritato. «Ma che— Tu, piuttosto, vuoi ficcare il naso nei miei affari? È questo che vuoi? Che stai facendo?» le andò contro, guardandola con gli occhi fuori dalle orbite.

«I tuoi affari? Ma di che stai parlando?» gli chiese, confusa e infastidita.

Rafe fece un profondo sospiro, quello che era solito fare nel tentativo di calmarsi. «Cosa ci fai qui, Ophelia?» era una domanda, certo, ma fatta con il tono di voce di chi pretendeva una risposta.

La ragazza ignorò i brividi che le invasero il corpo nel momento esatto in cui il suo nome uscì dalle labbra di Rafe, e si concentrò su di lui. «Non lo so. Dimmelo—»

Prima che potesse terminare la frase, una risata la fece fermare, seguita da una voce. «Sapete, mi chiedevo se quest'incontro avrebbe provocato scintille».

I due ragazzi si voltarono di scatto verso il salotto collegato alla sala da pranzo, nel quale si trovava a un uomo che, successivamente, si voltò verso di loro. Aveva la carnagione scura, e non era molto alto, ma sicuramente massiccio; aveva una barba nera che gli contornava il volto serio e per nulla amichevole, ma era anche piuttosto elegante e ben vestito. Ophelia lo avrebbe certamente scambiato per un serio e ricco uomo d'affari, ma se li aveva rapiti, allora forse non era così per bene.

Il primo a muoversi fu Rafe, che allungò la gamba destra e fece un passo in avanti, quasi davanti ad Ophelia. Lo fece d'istinto, senza pensarci troppo.

«Chi è lei?» gli chiese serio, per nulla intimorito.

«Io? — si indicò — Mi chiamo Carlos Singh. È un piacere conoscerla, signor Cameron» i suoi occhi, poi, si spostarono su Ophelia. «E signorina Martin, le domando scusa per i modi bruschi con cui è stata portata qui. Ma prego, venite. Sedetevi. Venite avanti, io non mordo» lì invitò ad accomodarsi in salotto, ma nessuno dei due sembrò volersi muovere.

I due ragazzi si scambiarono una lunga occhiata, ed era evidente che entrambi non nutrissero fiducia nei confronti di quell'uomo. Condivisero un'occhiata complice, forse chiedendosi cosa fare, ma, alla fine, la prima a muoversi fu Ophelia, che si accomodò su una poltrona dalla pelle bianca.

«Modi bruschi? — intervenne improvvisamente Rafe, irritatoEd io invece?» chiese, avvicinandosi.

Ophelia lo fulminò con lo sguardo. «Se non hai rischiato di morire schiantandoti in mare con un aereo, e non sei stato caricato su un pick-up contro la tua volontà, allora taci» gli disse brusca, facendogli assumere un cipiglio.

Carlos Singh, invece, parve divertito da quella risposta. «La signorina ha ragione... E sì, signor Cameron, lei è stato ingannato, ma il fine giustifica i mezzi, mi dispiace» scrollò le spalle «Si sieda. Abbiamo molto di cui parlare» lo invitò nuovamente, e Rafe, sebbene fosse visibilmente contrariato, si accomodò sul divano al fianco di Ophelia.

Quest'ultima aveva la mascella serrata e le mani che le formicolavano dalla rabbia. «Bene. Mi auguro che lei abbia una spiegazione sul perché siamo qui» guardò l'uomo, infastidita.

Lui ignorò suo il tono di voce e annuì. «Signorina Martin, signor Cameron, noi condividiamo alcuni interessi, o meglio, obiettivi» parlava in maniera seria, eppure sembrava incredibilmente calmo, o forse stava semplicemente fingendo. Ophelia non seppe dirlo con sicurezza.

«Non siamo qui per la Croce?» chiese Rafe, nervoso.

«Esatto! — ghignò Carlos — Collateralmente si tratta della Croce, ma soprattutto di qualcosa di molto, molto, più importante. In termini di grandezza... la realizzazione di un'enorme ricerca» sospirò con fare sognante, guardando attentamente un quadro.

La rossa spostò la sua attenzione su di esso, osservandolo e prestando particolare attenzione all'uomo voltato di spalle, in ginocchio, che, circondato dalle piante, guardava delle piramidi dei Maya.

«È un appassionato di storia o cosa?» parlò la ragazza, aggrottando le sopracciglia.

L'uomo alzò l'angolo destro della bocca. «Proprio così, signorina Martin. So che anche suo padre insegna storia, no?» e qualcosa le diceva che le avesse posto quella domanda proprio per provocarla.

Ophelia serrò la mascella, mettendo su un falso sorriso e annuendo. Uno sconosciuto che sapeva dettagli della sua vita non era per nulla qualcosa che la rendeva tranquilla.

Poi riprese a parlare. «Sapete, la storia narra che 450 anni fa, un soldato spagnolo uscì dal bacino dell'Orinoco, in Venezuela, con alcune perle d'oro. E quando domandarono al soldato "Da dove provengono le perle?", lui rispose che le aveva ricevute da una pacifica tribù indigena che viveva in una città tutta d'oro: El Dorado».

La rossa si irrigidì, e Rafe al suo fianco parve notarlo, motivo per il quale la guardò confuso. Lei, però, non ricambiò il suo sguardo e si limitò a pensare al libro trovato nell'aeroplano di Jimmy Portis: La perdita di El Dorado.

Un tempo avrebbe riso se qualcuno le avesse raccontato una storia del genere, parlando di una città tutta d'oro, ma dopo aver trovato l'oro della Royal Merchant e la Croce di Denmark Tanny, non poteva mettere in dubbio la veridicità di tutto quello. La domanda però le sorgeva spontanea: cosa diavolo c'entravano lei e Rafe con El Dorado?

«E per i successivi 450 anni, tutti cercarono quell'oro. Ci provarono tutti: conquistadores, cavalieri, capitani di vascelli, tribù, intere nazioni. Combatterono gli uni contro gli altri per raggiungere la fine dell'arcobaleno. Migliaia di anime perirono a causa della Febbre d'Oro — iniziò a giocherellare con un pugnale recuperato dalla superficie di un mobiletto nero — E ora tocca a me, sapete? Tocca a me completare la missione. Portare a termine una ricerca che va avanti da quasi cinquecento anni, e che forse è la più grande ricerca nella storia dell'emisfero occidentale. E voi due... voi due avrete un ruolo in tutto questo» terminò, mettendo su un sorriso sghembo.

Ophelia aggrottò le sopracciglia a quelle parole. Lei e Rafe avrebbero avuto un ruolo in tutto quello? Voleva forse a assoldarli per cercare la città tutta d'oro? Loro due insieme? Al massimo, Rafe avrebbe aspettato che qualcun altro la trovasse al posto suo, e poi avrebbe rubato tutto com'era solito fare.

La ragazza lanciò una breve e veloce occhiata a Rafe che, al suo fianco, faceva dei sospiri profondi nel tentativo di calmarsi. Sembrava essere davvero vicino all'alzarsi in piedi e prenderlo a pugni, e quella volta lei lo avrebbe aiutato.

«Che mi dice, signorina Martin? Le interessa la storia?» si avvicinò alla ragazza, sedendosi al suo fianco.

«Solo quella di mio padre. Questa la trovo piuttosto sciocca» rispose, secca.

«Non ho ascoltato una sola parola di quello che ha detto. Vuole continuare a fare il filosofo?» prese parola anche un annoiato Rafe, schietto come al solito.

«Voi siete persone molto dirette, vero?» Carlos Singh li guardò con sfida. «Mi sembra di capire che abbiate altro in comune oltre la Croce» infierì.

A quelle parole, i due ragazzi si scambiarono uno sguardo che non passò inosservato all'uomo, che iniziò a ridacchiare, privo di divertimento.

Ophelia ruotò gli occhi al cielo. «Ascolti, esattamente cosa vuole da me?» andò dritta al punto.

«Ho motivo di credere che lei e i suoi amici siate in possesso di qualcosa che può aiutarmi a ottenere ciò che voglio» le rispose.

«E cioè?» indagò, confusa.

«Un antico manoscritto. Un diario, in realtà» la osservò con attenzione, e successivamente anche Rafe la guardò.

La ragazza rimase impassibile a quelle parole, non vacillando. Se avesse mutato anche una singola cosa della sua espressione, sarebbero stati guai. Si mantenne seria, composta, e resse il suo sguardo, pur consapevole del fatto che stesse parlando del diario di Denmark Tanny, che era di Pope, e neanche sotto tortura gli avrebbe rivelato la posizione del diario o della copia che avevano fatto.

«Io non so di cosa stia parlando» intervenne Rafe, scuotendo la testa.

Ophelia concordò. «Sono stranamente d'accordo con lui. Non ho idea di cosa sia questo... diario» mise su una convincente espressione perplessa.

Ma l'uomo non sembrava credere ad una sola parola. Piuttosto, era come se conoscessi ogni cosa. Non stava facendo delle semplici supposizioni, lui sapeva che loro avessero il diario.

«E allora come avete scoperto che la Croce si trovava sulla Royal Merchant?» chiese, ghignando in modo inquietante.

«Uhm... ragionamento. Se l'oro era sulla Royal Merchant, allora forse anche la Croce era lì — mise su un sorriso nervoso. Poi sospirò — Davvero... io vorrei aiutarla, ma non so di cosa stia parlando».

«Speravo proprio che non lo dicesse. Perché, sfortunatamente, io non le credo» parve iniziare ad irritarsi. «Lei e il suo amico non l'avreste mai avuta senza il diario» aggiunse.

Ophelia guardò Rafe. «Amico? — scosse la testa — No, guardi, non siamo affatto amici» disse, e il ragazzo ruotò gli occhi al cielo.

Improvvisamente, Rafe si mise in piedi. «Senta, questo è ridicolo, ok? Me ne vado. Io non so nulla di quel diario, quindi—» si fermò nel momento in cui, camminando in direzione della sala da pranzo,  si ritrovò davanti uno degli uomini di Carlos. Il ragazzo fu costretto a fermarsi.

«Le sembro uno sciocco, signor Cameron?» chiese l'uomo, fingendosi offeso. «Le sembro forse uno sciocco?» ripeté, scandendo bene le parole.

Rafe fece un sospiro profondo e inchiodò gli occhi a quelli di Ophelia. La ragazza quasi si meravigliò davanti al suo strano controllo. Il vecchio Rafe avrebbe iniziato a sbraitare, ma questo Rafe stava cercando di non scoppiare nonostante l'evidente rabbia. Stava ragionando, stava usando il cervello e capendo che se avesse fatto qualcosa di stupido e avventato come al solito, sarebbero stati guai.

Gli fece cenno di tornare a sedersi, e dopo un altro sospiro, il ragazzo si arrese e tornò al suo fianco.

Carlos lo guardò. «Lei ha la Croce — poi spostò gli occhi su Ophelia — So che per certo che la ragazza e i suoi amici l'hanno trovata. Perciò uno di voi ha quel diario» aggiunse sicuro, e Rafe poggiò lo sguardo sulla rossa. «E se davvero non sa niente, le suggerisco di convincere la sua amica a parlare. Una volta che avrò quel diario, sarete liberi di andare» concluse, accennando un falso sorriso.

Ophelia sospirò, stringendo la mano in un pugno e ignorando lo sguardo di Rafe che le bruciava addosso. Lui aveva capito che, in realtà, lei sapesse di quel diario, ed era certa che avrebbe fatto di tutto per farla parlare.

Improvvisamente, Singh li portò nuovamente nella stanza in cui prima si trovava Ophelia.

Poi li guardò. «Godetevi il panorama durante la permanenza» indicò le finestre. «Devo avvisarvi, però, che la mia pazienza non è certo infinita. Avete un giorno di tempo. Andate alla finestra e ne avrete la dimostrazione — diede due pacche sulla spalla a Rafe, guardandolo — A lei lo spettacolo piacerà» e poi abbandonò la camera, lasciandoli soli.

Ophelia sentì l'aria mancarle a quelle parole. Non sembrava affatto un tipo con cui scherzare, e ancora di più sembrava uno che manteneva le promesse. Se non gli avessero dato qualcosa entro un giorno, probabilmente sarebbero morti, ma, allo stesso tempo, lei non avrebbe mai tradito i suoi amici. Non avrebbe mai tradito Pope.

Nel momento in cui scattò la sicura, Rafe si precipitò alla porta, iniziando a battere dei pugni contro di essa.

«Ehi, ehi! Non ha altro da dire?» continuò ad urlare, invano «Ehi!»

La ragazza ruotò gli occhi al cielo. «Non so se l'hai notato, ma è stata chiusa a chiave, e di certo non l'apriranno perché sei tu a chiederlo» disse indispettita, avvicinandosi alla finestra.

A quelle parole, Rafe smise di urlare e, dopo pochi istanti, se lo ritrovò alle spalle. Avvertì il suo petto premere contro la sua schiena, e il respiro sfiorarle il collo. Rabbrividì a causa di quella vicinanza che le era mancata forse fin troppo, ma decise di ignorare la sensazione e di concentrarsi su ciò che stava accadendo fuori da quella abitazione.

Improvvisamente, vide Jimmy Portis che veniva strattonato dagli uomini di Singh, e quasi le mancò il respiro. Avevano preso anche lui.

«Chi è quel tipo?» sentì chiedere da Rafe. Il respiro che sfiorava la sua pelle lasciata nuda dal vestito.

«Si chiama Jimmy Portis — mormorò — È colpa sua se sono qui... ma alla fine ha cercato di aiutarmi» disse in un sussurro, col cuore in gola.

Poco dopo, apparve anche Carlos Singh, che si voltò giusto per lanciare un'occhiata veloce ai ragazzi. Tirò fuori una pistola e andò verso il punto in cui era stato portato Jimmy.

Poi si sentì solo uno sparo.

Ophelia sussultò, sobbalzando all'indietro e trovando il corpo rigido di Rafe, anch'egli parecchio sconvolto e con gli occhi spalancati.

La rossa, senza rendersene conto, si voltò e affondò il volto nel petto del ragazzo, continuando a sentire il rimbombo di quello sparo. Era morta un'altra persona.

Sentì Rafe respirare in maniera irregolare, piuttosto nervoso. Lentamente, le afferrò con cautela le braccia, allontanandola di poco per poterla guardare negli occhi.

«Lia, ascoltami...» iniziò, osservandola con attenzione. «Questo diario— Ehi, niente cazzate, ok? Non raccontarmi cazzate, ok? Ce l'hai tu?» le chiese, probabilmente anche lui consapevole che quell'uomo non scherzasse affatto.

Lei deglutì rumorosamente, sentendosi vacillare sotto quello sguardo e a causa di quella vicinanza. Lo guardò per un tempo indefinito, chiedendosi quanto saggio fosse mentire in quelle circostanze.

«No».

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