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Capitolo 2 |Sedia elettrica|

                                                                 

Mi svegliai con un mal di testa insopportabile, tutta intorpidita a causa della posizione che avevo assunto mentre dormivo, considerato lo spazio ridotto all'interno dell'albero.

Uscita da quella specie di grotta in miniatura, mi stiracchiai per bene e mi persi ad osservare i particolari della foresta.

Le gocce di rugiada delicatamente posate sull'erba risplendevano al sole come gemme e il profumo della terra bagnata mi inebriò le narici.

Guardai in alto e vidi la luce del sole tra i rami alti degli alberi.
Il sole sulla pelle era una sensazione splendida, mi sentii viva e per un momento riuscii ad essere spensierata, così mi lasciai andare.
Inizia saltare sull'erba dalla felicità, ballando allegramente e scorrazzando qua e là come una bambina.

Mi sentii come se stessi volando, finalmente libera e non più rinchiusa in una stanza asettica e priva di vita.
Mi resi conto di aver preso davvero il volo quando mi ritrovai stesa sul terreno con la faccia nel fango.

<Maledizione> mi lamentai a gran voce, mentre cercai in qualche modo di togliere quella poltiglia fastidiosa dal mio viso.

Nel frattempo pensai tra me e me "beh dai, sono scappata da una società di russi bastardi che mi trattavano al pari di un topo da laboratorio, peggio di così non potrebbe andare".

Rivalutai per bene le mie parole solo dopo, e decisi che era meglio zittire la mia coscienza e non richiamare a me la malasorte.
Trovai una piccola sorgente d'acqua e mi sciacquai il volto sporco di fango.

Per qualche secondo rimasi lì ferma, ad osservare il mio viso riflesso nell'acqua.
Dovevo rimettere insieme le idee, fare il punto della situazione.

Ero appena scappata, non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi, sapevo che ero in Russia, ma data la vastità del territorio non era un'informazione particolarmente risolutiva.

Per di più le probabilità che quei farabutti mi stessero ancora cercando erano più che alte.
D'altronde un mutaforma non si vede tutti i giorni, prova a dargli torto...

Sono stata rinchiusa in quell'inferno per quasi tre mesi, o forse di più, ho perso anche la cognizione del tempo.
Ricordo i muri bianchi della mia stanza, priva di finestre come tutto l'edificio.

Non ricordavo neanche come fosse la luce del sole fino ad oggi.
<Comportati bene e uscirai molto presto da qui, Soleil> diceva il dottor Julian.

Mi ripeteva questa frase sin dal primo giorno che mi portarono lì, che fosse una bugia era abbastanza scontato.
< Devi resistere ancora una settimana> diceva, ma le settimane diventarono mesi, mesi di esperimenti, iniezioni e tortura.

La mia prima iniezione fu tragica.
Non so cosa mi iniettarono, dicevano che non c'era bisogno che io sapessi, feci resistenza e dovettero legarmi alla sedia.

Il liquido, contenuto in una siringa più grande del normale, venne iniettato nel mio braccio.
Quando l'ago (tre volte più spesso di uno comune) trafisse la mia carne, cacciai un urlo di dolore fortissimo, guadagnandomi uno schiaffo in pieno volto.

<Le brave ragazze non urlano, suvvia> diceva la dottoressa Polina, con quel tono arrogante e derisorio.
Quando uscii dal laboratorio, non mi reggevo in piedi.

La testa iniziò girare e le immagini divennero offuscate e distorte.
Alexei, un loro impiegato, dovette portarmi in braccio fino alla mia stanza.
Era l'unica persona che non mi trattava come una pezza da piedi o come un fenomeno da baraccone pronto a trasformarsi in una foca per battere le pinne.

Non era particolarmente loquace, e ancora non avevo ben chiaro il suo ruolo all'interno della struttura.
Mi accompagnava da ogni parte, quando avevo bisogno di qualcosa dovevo chiamare lui, era una specie di guardia del corpo.

Molto spesso svolgeva commissioni per il Dottor Julian, non so di che tipo e forse neanche volevo saperlo.
Mi portava da mangiare e ogni tanto mi dava di nascosto qualche caramella alla frutta.

Provai più volte a chiedergli informazioni o se mai mi avrebbero lasciata libera.
Tentai anche di chiedergli un aiuto per scappare da lì.

Non mi rispose mai, neanche con un semplice "no,non posso", semplicemente si limitava a guardarmi e a rivolgermi un lieve sorriso, quasi come se provasse pena per me.

Aveva l'aspetto tipico di un ragazzo di origine russa, occhi talmente chiari da sembrare trasparenti e capelli del colore del grano, alto e smilzo.

Quella sera mi portò in stanza e mi adagiò delicatamente sul letto, dopo neanche due minuti era già fuori e come sempre chiuse la porta a chiave.

La notte stessa mi salì la febbre a 41°, ero sudata da capo a piedi e mi dimenavo come una pazza dal dolore.
Sentivo le ossa spezzarsi una ad una, letteralmente, ma era un dolore diverso rispetto a quando mutavo.

Ogni ora entravano due infermiere per controllare la situazione, sotto l'ordine della dottoressa Polina, e mi somministravano strani medicinali, che anziché alleviare la sofferenza, provocavano l'effetto contrario.

Svenni dal dolore e mi risvegliai dopo tre giorni.
Da lì in poi iniziò una serie di esperimenti e iniezioni una dopo l'altra.

Ogni volta che provavo a ribellarmi, la dottoressa Polina mi sottoponeva a diverse torture, o come sosteneva lei ,avevo semplicemente bisogno di qualche "stimolo" per migliorare la mia condotta.

Se il dottor Julian era un emerito stronzo, lei era la reincarnazione del diavolo sceso in terra.
Si divertiva spesso con me, la sedia elettrica era un "mezzo di correzione" perfetto secondo la sua testa malata.

Mi legavano come una bestia, le cinghie sui polsi e sulle caviglie erano così strette che mani e piedi diventavano violacee.

Mi girava attorno come un avvoltoio, avvolta dal suo camice bianco troppo largo.
Era ossuta, con gli zigomi sporgenti e con una coda così tirata che se si fosse sciolta penso che le sarebbe caduta la faccia.

Ricordo perfettamente il rumore dei suoi tacchi sul pavimento, come camminava avanti indietro davanti a me mentre era intenta a spiegarmi perché io meritassi quella punizione.

<Ti sei comportata male, piccola Soleil> diceva lei, con quella voce rauca e sgradevole, rimproverandomi come si farebbe con una bambina di cinque anni, colta in flagrante a rubare caramelle da una bancarella di dolci.

Non rispondevo mai alle sue provocazioni, sapevo quanto le desse fastidio, l'indifferenza e il mio silenzio la facevano imbestialire.
<Sai perché sei su quella sedia, vero?> chiedeva lei ingenuamente, come se castigarmi  fosse davvero la cosa più giusta.

Ma da parte mia non ricevette alcuna risposta.
<Se non parli peggiori solo la situazione> disse tranquillamente, sedendosi di fronte a me, accavallando le gambe snelle avvolte dal pantalone del tailleur blu scuro, e assumendo una posizione composta.

Silenzio.

La dottoressa iniziò a respirare più profondamente, segno che si stava alterando, e devo ammettere che questa cosa mi suscitava parecchio piacere, un po' meno quando iniziò a mandare scariche elettriche.

Dannazione se faceva male.

Strinsi forte i denti e cercai di trattenere le urla per non darle la soddisfazione di vedermi sofferente, ma nonostante gli sforzi, una lacrima scese lenta sulla mia guancia.

Si alzò, e cominciò nuovamente a girarmi intorno, proprio come un predatore.
<Oggi mi sento particolarmente magnanima, magari se chiedessi scusa potrei lasciarti andare, *cyka> disse con tono provocatorio poggiando una delle sue mani ossute sulla mia spalla.

La squadrai da capo a piedi, avrei voluto tanto tirarle due ceffoni per toglierle quel sorrisetto fastidioso dal viso.
<Fottiti> ringhiai a denti stretti e a voce bassa, con un tono carico di astio, guardandola dritta negli occhi.

In quel momento potevo sembrare davvero una pazza squilibrata, ma poco mi interessava.
Vidi i suoi occhi ,piccoli e grigi, iniettarsi di sangue, strinse la mia spalla così forte che cacciai un piccolo urlo.

Ispirò più forte, si allontanò e rimase per un po' ad osservarmi, con sguardo colmo di risentimento.
<E va bene, stronzetta> sussurrò.
Fece uno dei suoi soliti sorrisi minacciosi e aumentò la potenza della carica elettrica.
Dopo questo, buio totale.

*cyka:puttana

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