Gɪᴏʀɴᴏ ₈
Mi sento stanca, le palpebre si fanno pesanti, mi implorano di lasciare che si abbassino, infine.
Delicate veneziane socchiuse su un Mondo infranto, seguono un ritmo singolare - eppure anche così normale - mentre i loro tesori ambrati vagano, stranieri erranti screziati di nocciola, sulle distese pianeggianti e sulle foreste innevate che mi scorrono dinanzi.
Osservo tutto, ogni dettaglio può fare la differenza fra perfezione o esclusione, tra accettazione o ambigua rassegnazione.
Ogni granello di polvere nell'aria percorre un moto non casuale, non virtuale, non coerente ma così vivo!
I raggi del Sole rosso al tramonto trafiggono lo spazio con frecce impavide di fiamma, e proprio allora li noti danzare imperterriti e irriverenti, quei granuli sottili che non puoi rinchiudere in soffitta.
Cosa mi succede? Sto forse delirando in questa afosa, calda, noiosa notte di inizio Estate? Ho sonno e penso alla polvere. Ora no, alla sabbia, piuttosto.
Quella finissima e bianca che vive intrappolata nelle clessidre e misura il Tempo scivolando lungo linee sinuose. Dunque è il Tempo, il vero prigioniero?
Lo gustiamo. Lo gestiamo. Lo ignoriamo. Lo manipoliamo. Lo contiamo. Lo vediamo. Lo sentiamo. Lo tocchiamo.
Lo maneggiamo spesso senza la dovuta cura, per poi accorgerci che sì, è tardi e non ne esisterà più altro per assecondare i nostri vezzi.
Ah, adesso siamo noi gli ostaggi, allora.
La clessidra contiene il Tempo che ci tiene in pugno e noi dall'interno comunque riteniamo d'esser padroni.
Polvere, sabbia, vetro, lancette in eterno movimento verso un sonno senza fine.
Mi rabbocco il bicchiere con il poco vino rimasto e reclino il capo, la mano regge pigra la coppa, la fa ciondolare in tondo mescendo il figlio della vite.
E penso.
"Perché ora? Perché qui? Perché proprio io, qualunque cosa io sia?"
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