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19 - occhi innocenti

Hikari e Tatsuko camminavano uno accanto all'altro per i corridoi del manicomio, varcando una porta che mai nessuno vorrebbe vedere come confine: "casi irrisolvibili e potenzialmente pericolosi".
Il respiro della corvina si faceva pesante e il battito cardiaco era aumentato. Erano anni che non vedeva sua madre da quando aveva ucciso degli infermieri, da allora quella donna era rimasta chiusa in una stanza senza che nessuno riuscisse a guarirla dalla pazzia che aveva preso il controllo della sua testa. Finalmente l'infermiera che li stava accompagnando si fermò davanti a una porta bianca con una targhetta con su scritto "Yamaguchi Kohaku", il nome della madre di Hikari.
«una volta dentro questa stanza una vetrata vi separerà da lei. È un vetro infrangibile e antiproiettile e lei ha una camicia di forza ma con questa paziente non possiamo assicurarvi nulla, siete a conoscenza dei rischi?» disse l'infermiera con tono preoccupato ma fermo e autoritario. Per essere la caporeparto di quella parte di ospedale doveva essere un osso duro da spezzare e soprattutto con un grande coraggio e una forza sia fisica che mentale notevole.
«sí, abbiamo letto i fogli che ci avete dato da firmare» affermò con sicurezza il padre di Hikari, la quale era sempre più agitata.
«molto bene. Volete essere accompagnati da un infermiere o entrate da soli?»
«entreremo da soli» si permise di dire la corvina intromettendosi nonostante la voce tremante e lo sguardo basso. La donna con il camice bianco annuì e se ne andò via, sparendo tra i corridoi dell'ospedale psichiatrico. I due rimasti si guardarono negli occhi e poi Tatsuko aprì la porta, ed entrambi entrarono nella buia stanza, nella quale era accesa solo una lampada delle quattro presenti. Dall'altra parte della vetrata, con le caviglie ammanettate al muro e una camicia di forza bianca un po' ingrigita c'era una donna con dei lunghissimi capelli neri sbiaditi in alcune ciocche e chiusi in due codini laterali che lasciavano liberi solo la frangia, di lunghezza per nulla uniforme e tutta arruffata. Lei aveva lo sguardo basso e gli occhi chiusi, ma i suoi lineamenti delicati si vedevano comunque. La sua pelle era sporca e lei sudata e trasandata ma sul suo viso un sorriso inquietante era nato appena suo marito e sua figlia entrarono nella stanza. Hikari rimase bloccata appena vide la donna che doveva essere sua madre. Nelle foto era una bellissima donna, con un viso calmo e paziente, un sorriso caldo e accogliente, tanta voglia di vivere, solare, coinvolgente... E lì era così devastata, sembrava una città prima splendida e piena di vita distrutta da un disastroso terremoto. Così inquietante e spaventosa, soprattutto dopo aver iniziato a sentire la melodia stonata e inquietante che stava facendo Kohaku dondolandosi leggermente e destra e a sinistra seguendo il dolce ritmo. Hikari riconobbe immediatamente quella melodia, era la ninna nanna che quella donna le cantava quando lei era una bambina. In quel momento i ricordi la trangugiarono, anni di ricordi la divorarono in un sol colpo e lei si ritrovò a ricordare notte per notte la sensazione di ritrovarsi tra le braccia di sua madre, la sicurezza e la dolcezza dei suoi tocchi, la sensazione di benessere nel letto caldo, con le carezze delle sue delicate mani e la sua dolce e armoniosa melodia cantata con la sua candida voce. Tutto il contrario di quel momento.
«m-mamma...» disse bisbigliando la ragazza accarezzando il vetro con la mano con gli occhi lucidi mentre Tatsuko mise una mano sulla spalla di sua figlia. Per un attimo l'uomo ricordò quando, dopo il ricovero di sua moglie, dovette trovare le più assurde scuse da dare a sua figlia per non farla soffrire e per farle avere una bella idea di sua madre. Ma lui non ricordò solo quello, ricordò anche tutti i meravigliosi momenti vissuti con la donna che amava ancora alla follia, ma che non poteva avere al suo fianco. Sembrava ieri che lui l'aveva conosciuta, sulla spiaggia, quando volevano entrambi prendere la stessa fetta di ananas dal piatto del bar della spiaggia. E da lì la sua vita migliorò radicalmente, almeno finché lei non impazzì e iniziò ad avere istinti suicidi.
Ad un certo punto la donna alzò il viso verso la sua famiglia allargando il suo sorriso già abbastanza inquietante e fermando la melodia che aveva cantato come sottofondo dei ricordi dei due davanti a lei.
Kohaku ridacchiò aprendo gli occhi e sporgendosi in avanti anche se le catene che attaccavano la camicia di forza al muro glielo impedivano e rivelando una lunga cicatrice sulla sua guancia destra.
La donna spalancò gli occhi e le sue pupille si restrinsero.
«hey... Avete voglia di abbracciare la mamma?» disse lei per poi mettersi a ridere smodatamente e tornando seria improvvisamente.
«a-avete paura?» chiese mettendosi a piangere disperata. Appena smise si mise a urlare a squarciagola sbattendo la testa sul muro.
«VOI AVETE PAURA VOI AVETE PAURA VOI AVETE PAURA!» e improvvisamente si mise a ridere smodatamente di nuovo per poi fermarsi ancora all'improvviso e tornando seria ma con il suo sorriso a 32 denti dipinto sul volto. Hikari e Tatsuko guardarono istintivamente la cartella clinica di Kohaku sul tavolino davanti a loro. Bipolarismo grave patologico con aggiunta di perdita di umanità e senso del dolore. Ecco cosa la affliggeva. Quella donna avrebbe potuto ucciderli come se nulla fosse, e dopo aver pianto disperata mettersi a ridere. E quella era la moglie di Tatsuko. La madre di Hikari. Non aveva cura. Sarebbe morta così, senza che potesse tornare a condurre una vita normale, e gli altri ne sarebbero stati felici, un problema in meno, no? A Hikari questa cosa non andava giù. Lacrime e lacrime ormai solcavano le guance della ragazza che guardava sua madre impazzire senza poter fare nulla per farla stare meglio, con una nostalgia assurda che le stritolava il cuore. Lei voleva ancora sua madre, quella madre dolce e amorevole che adorava tanto e che riusciva sempre ad aiutarla, quella madre che non poteva dimenticare e che non voleva perdere. Ma che aveva già perso. E che non sarebbe mai più tornata.
«allora... Non la volete abbracciare... la mamma?»

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