XVIII - 𝔒𝔯𝔯𝔬𝔯𝔢 𝔢 𝔰𝔞𝔫𝔤𝔲𝔢 𝔞𝔩𝔩𝔞 𝔤𝔦𝔬𝔰𝔱𝔯𝔞 𝔡𝔦 ℭ𝔬𝔯𝔢𝔥𝔬𝔯𝔰𝔱
Le tenebre erano calate sulla città di Corehorst da ormai qualche giro di clessidra e, insieme a esse, la quiete. Il porto, di giorno gremito e caotico, si era ridotto a una sinistra sinfonia di scricchiolii e versi indistinti, accompagnata dal malinconico sciabordio delle onde. Una fitta nebbia si sollevava dalle torbide acque del mare, avvolgendo le costruzioni cittadine in uno spettrale abbraccio, mentre delle esili fiamme, custodite all'interno di lampioncini in ferro battuto, danzavano nel vuoto come fuochi fatui.
Fra le trame di tal denso velo, tre figure si muovevano agili, guidate da un fioco bagliore che, con distinta tenacia, si faceva largo nell'oscurità. Cassandra apriva la fila, accompagnata da una lanterna che si librava libera a mezz'aria, alle sue spalle una silenziosa Emilia e infine, a chiudere il gruppo, vi era Lodovico, che si guardava intorno con fare circospetto. Muoversi col favore delle tenebre doveva inquietarlo non poco.
Procedevano lungo un solitario quanto viscido pontile, i prolungati scricchiolii del legno che riecheggiavano sotto ogni passo e le acque del freddo mare a bagnar loro gli stivali. Non avevano la benché minima idea di quanto mancasse alla meta, la cognizione dello spazio era del tutto smarrita. Almeno così era stato fino al momento in cui notarono una sorta di guglia di pietra stagliarsi oltre la foschia salmastra, flebilmente rischiarata da un rossastro bagliore.
«Orbene, direi che siam quasi giunti a destinazione.»
Arroccato precariamente in cima a uno sperone roccioso non troppo lontano dal porto di Corehorst, il Ritrovo dei Corvi offriva a stanchi marinai e a curiosi viandanti un temporaneo rifugio dalla perenne foschia di Corehorst e dei piatti prelibati per solleticare i loro palati. Lo scuro e ombroso edificio era punteggiato dal caldo chiarore delle lanterne, che proiettavano lunghe ombre sui ponti di legno circostanti. Queste parevano attirare ignari visitatori come il soave canto di una sirena, invitandoli, di fatto, a metter piede nelle sale racchiuse tra le scure pareti di pietra. Un tetto di legno a spiovente, dall'esagerata inclinazione, sporgeva oltre la facciata a coprire per intero uno stretto e malconcio balcone, mentre un comignolo di pietra nera si faceva largo fra le irregolari tegole, consumate e rovinate dall'inesorabile trascorrer del tempo.
«Codesto luogo fa gelar il sangue nelle vene» commentò con un filo di voce Lodovico, dopo averlo squadrato da cima a fondo. Temeva di poter risvegliare un qualche spirito del mare se avesse parlato più forte. «Pare più un ospitale per poveri mentecatti che una vera taverna.»
«La paura si annida nel cuore di colui che si lascia suggestionare dalla mera apparenza.»
«Oh dèi, Emilia! Parla come mangi, di grazia» la rimproverò con tono acido Cassandra, mentre procedeva vero il marcio portone del Ritrovo dei Corvi. Umido e viscido, come ogni superficie di legno di quella maledetta città, era stato incastrato nella roccia, poco sotto lo sperone ove si stagliava la taverna. «Saran rimasti quattro gatti a capirti».
«Il tuo metter bocca su tutto altro non fa che provocar l'altrui tedio.»
Lodovico desiderava mordersi la lingua, pentito di aver espresso quel suo pensiero. Ogni volta che quelle due aprivano bocca, finivano in qualche modo col discutere. Erano proprio due serpi.
Con lo schiocco delle dita, Cassandra interruppe l'incantesimo che animava la lanterna volante, poi l'abbandonò su un gancio nero incastrato alla parete. L'avrebbe recuperata una volta uscita di lì. Facendo più fatica di quel che voleva lasciar trasparire, la strega tirò verso di sé la pesante porta, movimento che venne accompagnato da un lungo cigolio, poi invitò Emilia e il mutaforma a entrare. Di fronte a loro si apriva un'angusta scalinata a chiocciola, scavata nella roccia e rischiarata da piccole torce. I gradini erano stretti e scivolosi, la parete irregolare e priva di un qualsivoglia appoggio; nonostante ciò, raggiunsero senza patemi la sala comune del Ritrovo dei Corvi. Sguardi arcigni si posarono rapidi su di loro mentre un molesto brusio si levò compatto dalla semioscurità di quel luogo, come se i muri di pietra ne fossero parte integrante. Senza prestarci attenzione, i tre avventori andarono a sedersi intorno a un massiccio tavolo di larice e rimasero in silenzio fino a quando una corpulenta donna non posò sul loro tavolo alcuni piatti in terracotta e un pentolone con dello stufato. Emanava un profumo delizioso al quale pareva difficile resistere. Emilia fu la prima a riempire il piatto e i suoi occhi, ben presto, divennero nostalgici.
«Debbo dire, lo scultore doveva ammirarti in particolar modo» la canzonò di punto in bianco Cassandra, dopo aver addentato e masticato un tozzo di pane. «Ha prestato maggior attenzione nello scolpire le tue magne poppe che i lineamenti del tuo affabile muso da cagna.»
«Qual peccato» sollevò le spalle, Emilia. «Il corpo della qui presente è magnifico in ogni suo tratto. Valorizzarne una sola parte, per giunta quella più propensa a risvegliar animaleschi istinti, è alquanto ingiurioso.»
«Curioso; non la pensi allo stesso modo quando le devi usare per i tuoi scopi.»
Lodovico tossì, attirando su di sé gli sguardi delle due streghe. Questo si scusò subito, poi tornò a consumare in silenzio il suo pasto.
Attirata dai brusii che non accennavano a placarsi, Emilia si guardò intorno. Pareva un luogo piuttosto tranquillo, ancor di più se paragonato al Bocca di lupo. I pochi frequentatori, per lo più uomini di mare, parlottavano tra loro con fare sommesso, l'argomento cardine, con ogni probabilità, la loro presenza in quel luogo. L'attenzione della strega tornò al suo tavolo nel momento in cui Lodovico, con fare quasi innocente, aveva chiesto il motivo per il quale gli uomini nella sala comune non schiodavano gli occhi da loro.
«Togli gli ormeggi alla tua testolina, Lodovico. Un uomo in una taverna, allietato dalla compagnia di due avvenenti fanciulle, che per giunta parlano di seni, e un bordello a pochi passi: cosa potrebbe navigare in quelle loro becere scatole pelose?»
Lodovico inclinò la testa di lato, nel tentativo di comprendere quelle parole. Non riusciva a collegare i concetti con la stessa semplicità della volgare strega e, soprattutto, non aveva la minima idea di cosa potesse essere un bordello.
«Uomini; senza una spiegazione precisa si perdon facile nel Mar dei Citrulli» sospirò la strega, alzando gli occhi verso le spesse travi che sorreggevano il tetto. «Credono siam delle prostitute, idiota. D'altronde, è risaputo che queste frequentino simili luoghi per adescare i propri clienti.»
«Qual infide canaglie!» sbatté, prima ancora di accorgersene, il pugno sul tavolo Lodovico, il tono di voce abbastanza alto da esser udito da tutti i presenti. Occhi languidi tornarono a nascondersi sotto ai tricorni, nell'oscurità ove la luce delle lanterne non arrivava, ovunque non potessero incrociare quelli del cavaliere. Il parlottio, tuttavia, non cessò, anche se era probabile che avessero cambiato oramai argomento.
Emilia teneva gli occhi bassi sulla prelibata pietanza mentre un sorriso amaro si era fatto largo tra le sue labbra. Esalò un lungo e malinconico sospiro, preludio di quanto stava per dire.
«Lo stufato non è come quello d'un tempo.»
Lodovico placò il suo sdegno nei confronti degli inverecondi marinai e si rivolse alla compagna, che aveva dirottato altrove il discorso.
«A me è parso assai delizioso.»
Anche Cassandra, che si era appena riempita la bocca di carne, lo confermò con un cenno assertivo del capo e mugugni oscuri. Emilia posò allora lo sguardo su Lodovico, che fissava di sbieco la strega seduta al suo fianco per i modi poco muliebri, poi su Cassandra, vecchia quanto preziosa compagna di viaggio, prima che decidesse di stabilirsi a Ratilia. Se ci fosse stato anche Rudeus, coi suoi musi lunghi e i silenzi che mal sopportava, forse avrebbe potuto dire di essere... felice, in qualche modo.
Non è importante quel che fai, ma con chi lo fai. Sono i compagni a rendere speciale ogni momento, ogni sapore o sensazione. Non è così, Vellian?
«Forse avete ragione.»
⋆。°✩*️✮⋆。°✩
La città di Corehorst era in fermento. Quel dì avrebbero preso il via i tornei cavallereschi organizzati da Vyncis Dussac e il duca di Brynmor, uno dei ducati autonomi che appoggiava e finanziava la guerra contro la famiglia dei Northcote, Azer Cortes. Per loro quei tornei non erano solo una un'occasione per celebrare l'importante vittoria di Zenica, i cui rappresentanti non potevano esser lì per l'apertura, ma fornivano ai nobili anche una possibilità per mostrare agli ospiti la loro ricchezza e potere.
Musicisti suonavano brani vivaci ai margini delle strade, sollazzando l'orecchio dei tanti passanti o di chi si fermava ad ascoltare l'intera prestazione. Stendardi colorati sventolavano fieri al vento, mentre cavalli e cavalieri, seguiti dalle loro lance, sfilavano per la città. Piazze e quartieri, per l'occasione, erano state trasformate in un brioso mercato, ove mercanti locali e stranieri allestivano le proprie bancarelle, vendendo ogni sorta di merce: dai gioielli alle raffinate armature, senza dimenticar pellami e ceramiche. Nel mentre, venditori ambulanti offrivano ai viandanti prelibatezze adatte a tutti i tipi di palato, come soffici pasticci di carne e dolcetti tipici.
E gli spettacoli non parevano esser finiti lì. Alcuni animatori vagavano tra i giardini e le piccole piazze, nel tentativo di affascinare il pubblico con incredibili esibizioni, mentre abili giocolieri davano prova della loro destrezza lanciando in aria coltelli o torce fiammeggianti.
Mentre in città gioia e diletto dilagavano come la peste necrotica, al limitare del Bosco delle Driadi prendeva luogo la giostra all'incontro, che avrebbe visto confrontarsi Maximus, denominato "Spaccarocce" per aver fracassato la testa di molti cavalieri durante una delle sue ultime battaglie, e un ignoto cavaliere presentatosi col nome di Lodovico. Questo pareva non appartenere ad alcuna nobile casata, portando il conte Dussac a pensare che fosse una specie di mercenario in cerca di un pezzo di terra per abbandonare quella misera condizione.
Non potevano essere più vicini di così alla realtà dei fatti.
Benché fosse insolito permettere a un ramingo, o mercenario che fosse, di partecipare a una giostra all'incontro, quasi nessuno si oppose. Una decisione figlia del fatto che proprio siffatto uomo, al Bagordo del primo meriggio, all'interno della lizza allestita al margine della città, aveva massacrato da solo un'intera squadra di fanti. Se fosse stato capace di intrattenere gli spettatori e il duca Cortes alla stessa maniera, l'evento ne avrebbe solo potuto che giovare.
Dopo la lettura dei vari titoli nobiliari e dei successi riportati sul campo di battaglia, letti ad alta voce dal giudice di gara, il cavaliere dalla bianca sopravveste e la plumbea cotta di maglia si recò verso la tribuna e si inchinò di fronte ai due Signori.
Lodovico! Lodovico! Lodovico!
La sera antecedente, Emilia gli aveva spiegato cosa fosse una giostra all'incontro con le varie regole. Egli e Maximus si sarebbero dovuti affrontare con un unico obiettivo: quello di disarcionare l'altro con un colpo di lancia e con solo una bassa barriera di legno a separarli. Lo scontro sarebbe andato avanti fino a quando uno dei due contendenti non ne fosse uscito vittorioso o finché non avessero esaurito la scorta di lance a loro disposizione. Gli spiegò, infine, che giostre e tornei erano prove di abilità, coraggio e onore, tutti valori nei quali Lodovico, a suo tempo, credeva con salda fermezza.
Maximus! Maximus! Maximus!
La strega sedeva tra gli altri spettatori come una normale cortigiana, il bianco mantello di Lodovico posato sulle spalle, a voler indicare di essere la signora alla quale il cavaliere aveva giurato fedeltà. Per nulla al mondo si sarebbe persa l'incontro che l'avrebbe trasformata in duchessa, un titolo che aveva scoperto piacerle assai.
Duchessa Emilia Redwood delle terre di Zenica.
Suonava dannatamente bene nella sua testa. Seduta accanto a lei, con l'aria seccata di chi era stato obbligato a venire, vi era Cassandra. In un susseguirsi quasi infinito di lamentele e sospiri, ella seguiva il mutaforma mentre si avvicinava al suo cavallo, sostenuto a gran voce dal pubblico in visibilio.
Lodovico! Lodovico! Lodovico!
Kingsley dal bianco calzino, quello era il destriero che le due streghe erano riuscite a sottrarre, con l'inganno, a un giovane cavaliere. Il meraviglioso esemplare era stato appena accompagnato in campo dallo scudiero, un fanciullo troppo giovane per poter desiderare di giocare a fare la guerra. Vestito da una sgargiante gualdrappa, sulla quale era stata ricamata una luna rossa insieme ad altre complicate allegorie, l'altero sauro avrebbe accompagnato Lodovico verso il suo imminente successo.
Il cavaliere carezzò più volte il lungo muso del possente equino, al quale era stato donato una bianca lista; a tal gesto seguì un fiero nitrito. Anche lui pareva esser pronto a dare il meglio di sé. Si allontanò poi da Kingsley, lasciando al fanciullo tutto il tempo necessario per mettergli la spessa testiera, poi poggiò il piede sulla prima staffa e si tirò su fino a trovarsi seduto sulla sella, il cui arcione era stato ampliato per proteggere il basso addome e le cosce.
«Scriviamo la storia, cavallo?» gli domandò Lodovico, come se il destinatario di tali parole potesse comprenderle. Gli diede un paio di pacche sul robusto collo, poi tornò ad assumere una corretta postura. Per tutta risposta, il destriero nitrì ancora, scrollando la testa.
Maximus! Maximus! Maximus!
Lo scudiero si avvicinò al cavaliere con fare impacciato, gli porse la lancia cortese, la cui superficie era decorata coi colori della bandiera di Zenica, e l'agganciò tramite un anello alla resta. Questo girò poi intorno al destriero, tenendosi alla dovuta distanza, e porse lo scudo a Lodovico che, tuttavia, rifiutò di indossare. Non ne avrebbe avuto il bisogno. La tensione era palpabile mentre i due cavalieri prendevano posizione alle estremità opposte del campo.
I contendenti si studiarono da lontano per qualche momento, i destrieri che fremevano e nitrivano sotto il peso dei loro corpi. Con una decisa pressione sui fianchi e scaricando poi il peso sulle reni, Lodovico diede l'ordine di partenza al fiero equino, il suo passo che presto divenne galoppo; Maximus fece altrettanto, inserendosi nella corsia che gli permetteva di tenere la barriera alla sua destra. Gli sfidanti si facevano sempre più vicini, l'impatto oramai inevitabile.
La lancia si frantumò contro il petto di Maximus in una pioggia di schegge, tuttavia il grosso cavaliere riuscì, in qualche maniera, a tenersi alle redini. Il duca di Brynmor applaudì a tale prodezza, seguito da un pubblico sempre più inebriato dal violento scontro. I tornei cavallereschi, le giostre, il bagordo e la sfilza di altri eventi offrivano a tutti la possibilità di intrattenersi e svagarsi, cittadini e contadini compresi che, raramente, avevano accesso a spettacoli così grandiosi. Si trattava di una ghiotta occasione per spezzare la monotonia delle loro esistenze.
Arrivato al margine del lungo campo, lo Spaccarocce portò la mano libera all'altezza del petto, nel punto esatto in cui si era spezzata la lancia del suo avversario: il bestione doveva aver accusato il colpo. Lodovico lo osservava con sguardo attento, mentre il suo scudiero allacciava alla resta l'anello della seconda lancia. I due si studiarono ancora, poi Maximus decise di rompere gli indugi, partendo alla carica. Barriera sempre alla loro destra, lance via via più vicine, l'impatto con l'armatura oramai prossimo. Questa volta il mercenario mise a segno un colpo ancor più violento, riuscendo a disarcionare Maximus e facendolo crollare a terra come un sacco di patate. Un tumulto di fischi e applausi si sollevò dalla tribuna, placato solo da calmi gesti del conte Dussac.
Lodovico! Lodovico! Lodovico!
«Qual motivo di vanto, il mio prode cavaliere!» applaudì Emilia, sicura del fatto che gli occhi del duca Cortes fossero puntati su di lei. In mezzo a volghi villici, una simil fanciulla, elegante e raffinata, difficilmente poteva passare inosservata.
Cassandra le diede una gomitata sulle costole, poi la invitò a non cantar vittoria troppo presto. L'incontro non era ancora finito e le poteva riservare ancora delle spiacevoli sorprese.
Maximus si alzò di terra con occhi iniettati di sangue. Non poteva perdere l'incontro con quel cavaliere privo di titoli, ne sarebbe andato del suo onore. Fece cenno al suo scudiero di portargli la mazza chiodata poi gliela strappò di mano con rabbia animalesca.
«Scendi da quel cavallo e affrontami faccia a faccia, se le tue scarselle scrotali son grandi quanto vuoi dimostrare!»
Con eleganza degna di un nobile d'alto rango, Lodovico scese da cavallo. Sguainò a sua volta la spada e la fece roteare un paio di volte, senza mai perdere il contatto visivo col suo avversario. Era certo delle sue capacità, ma non così arrogante da sottovalutare qualcuno.
«Ti spacco il cranio, canaglia.»
«Dimostramelo» lo incalzò Lodovico, allargando le braccia. «Fammi vedere se sei abile con la mazza tanto quanto lo sei con la lingua.»
«Insolente» grugnì il bestione. «Te la farò ingoiare, la lingua.»
Il bestione coprì in un nonnulla la distanza che lo separava da Lodovico poi fece cadere su di lui la pesante mazza ferrata. Se questo non si fosse spostato per tempo, un tal colpo gli avrebbe spappolato il cranio. Sfruttando l'enorme voragine lasciata aperta nella sua guardia, Lodovico gli assestò un calcio nel fianco, che fece ruzzolare a terra l'avversario. Mentre lo osservava rialzarsi, il cavaliere riccioluto comprese una cosa: Maximus avrebbe combattuto per ucciderlo.
«Un tale idiota non ha possibilità alcuna contro Lodovico» commentò Cassandra con un ritrovato entusiasmo, il cui sguardo era posato sulla figura del cavaliere di Beronia. «Non mentivi nel raccontarmi che il mutaforma è in grado di emulare alla perfezione il soggetto in cui si trasforma.»
«La qui presente non mente mai» le ricordò Emilia, agitando l'indice della mano quasi a volerla rimproverare. «Omette, se vogliam esser del tutto sinceri. Tuttavia, non dire non è mentire.»
Cassandra roteò gli occhi. Ignorando le ultime parole della compagna, inutili come quasi tutte quelle che uscivano dalla sua bocca, la strega riprese il discorso sul mutaforma. «E tu, da savia fanciulla quale sei, scorrazzi come una vacca in compagnia di una simile creatura. Il tuo cervello deve aver chiuso i battenti, non vi è altra spiegazione.»
«Rilassati, mia ubbiosa compagna. Ho fede nella mia Mymic.»
«Allora possiam dormire sonni sereni» la irrise Cassandra, che poi si fece seria. «Se avrò il solo sentore che quest'essere possa rivelarsi un pericolo per le nostre esistenze, non esiterò un singolo istante nel farla a pezzi.»
La loro conversazione venne spezzata da un violento clangore. La mazza del nerboruto e la spada del cavaliere mutaforma si erano prima incontrate e poi distanziate a causa del potente urto. Dopodiché, i due contendenti erano tornati a osservarsi; a studiarsi sotto gli occhi delle due streghe. E del pubblico intero, che li incitava senza remore. Lodovico fece roteare la spada col polso, poi attaccò Maximus ai fianchi e alle gambe; tutti colpi che vennero parati con la mazza chiodata o del tutto evitati.
«Attendo con trepidazione che tu mi apra il cranio, bestione.»
«Chiudi quella latrina che hai al posto della bocca».
Dettò ciò, Maximus si fiondò all'attacco del cavaliere, senza riuscire, tuttavia, a mettere a segno un colpo degno di nota. Lo scontro si protrasse a lungo, accompagnato dal sostegno della tribuna, e terminò nel momento in cui il nerboruto cadde a terra esausto. A differenza del cavaliere dalla bianca sopravveste, il bestione era stato colpito ben due volte dalla lancia cortese e il dolore che cominciava a impossessarsi delle sue carni gli impediva di continuare ad andare avanti. Doveva accettare la sconfitta.
Lodovico si voltò verso la folla e chinò la testa per raccogliere gli applausi; tornò subito dopo a dar loro le spalle. I suoi occhi erano tutti per lo Spaccarocce. Questo ansimava come una bestia in fin di vita che aspettava soltanto di essere trafitta per far tacere il suo dolore, lo sguardo carico d'odio e frustrazione. Vide il cavaliere avvicinarsi a lui con passo cadenzato, mentre il filo della lama pareva bramare l'altrui anime.
«Come tanti altri, sei solo un ammasso di chiacchiere e fumo negli occhi.»
Il cavaliere sferrò un calcio contro il volto di Maximus, costringendolo a terra. Prima che questo potesse trovare la forza di rialzarsi, altri colpi gli percossero le viscere, assestati con smodata violenza all'altezza del costato. Certo del fatto che lo Spaccarocce fosse oramai incapace di reagire in alcun modo, Lodovico posò il piatto della lama sul dorso della mano debole e la rivolse al guerriero sconfitto, la sua punta che sfiorava il collo taurino. La folla era ammutolita, forse inorridita all'idea di quel che stava per accadere.
Le grida di una donna, tuttavia, smorzarono di colpo la tensione appena venutasi a creare, dirigendo l'attenzione degli spettatori lontano dallo scontro. Questi cercavano di capire da quale direzione potessero essere provenuti quei lamenti straziati, i loro occhi spaventati e smarriti.
Cassandra estrasse le sue due pistole, attirando su di sé gli sguardi di alcuni presenti o, almeno, di coloro che le erano seduti accanto. Confusione e apprensione segnavano i loro volti poi nuove grida, questa volta di un uomo, li fecero balzare sulle panche di legno. Ben presto quegli occhi carichi d'inquietudine si separarono dalla figura della strega pistolera, tornando a immergersi fra le tele del dubbio e della paura. In molti, oramai, si erano alzati e avevano cominciato ad abbandonare gli spalti, nonostante il conte Dussac stesse cercando di rassicurare la platea con parole alle quali non credeva nemmeno lui.
Goliardia di savi giovini, sosteneva lui, incapace, tuttavia, di celare quel pizzico di apprensione che si poteva leggere nei suoi occhi, che si poteva vedere dai lievi tremori delle mani. Si guardava intorno nervoso, anche lui desideroso di capire da dove provenissero tali grida e le motivazioni che vi si celavano dietro.
Lo sferragliare delle armature, il clangore di armi che si incrociavano tra loro e ulteriori urla di terrore diedero ai presenti la conferma che, quanto stava accadendo in città, tra le sue affollate vie, non era un qualche scherzo goliardico di festosi giovani, come l'aveva definito il conte. Si trattava di qualcosa di serio, come un inaspettato attacco da parte dei Northcote, in quanto il regno di Lestevia sosteneva sia a livello economico che militare la repubblica di Zenica e Corehorst era uno dei principale porti dal quale salpavano le navi cariche di soldati e di risorse d'ogni utilità.
«Le percepisci?»
Emilia replicò con un cenno assertivo del capo. Socchiuse poi gli occhi, isolandosi dal trambusto che la circondava, e ampliò la percezione magica. Nella sua testa apparvero come fiammelle cerulee simili a fuochi fatui e riusciva a vederle muoversi tra la fitta boscaglia che abbracciava la città da ponente, e non solo. Corehorst ne era infestata.
«Bestie alchemiche; o costrutti, se la dea della fortuna ci ha voltato la spalle.»
«Diamine, Emilia.»
Mentre il panico dilagava, le guardie cercavano di portare al sicuro il conte Dussac e il suo alleato di Brynmar, il duca Cortes. Questo lanciò un ultima occhiata alla fanciulla dal bianco mantello, rimasta piuttosto tranquilla, prima di esser allontanato del tutto dal campo dove si era svolta la giostra.
Eccole.
Quelli che, a un primo sguardo, potevano sembrare soltanto degli spaventapasseri ripieni di fieno invasero il campo. La loro esile figura scintillava di energia verde malvagia; le loro mani, invece, erano composte da lunghi e affilati falcetti di ferro nero, un materiale molto apprezzato dagli alchimisti. Del sangue fresco macchiavi i loro vestimenti, sacchi di stoffa cuciti alla bell'e meglio, e gocciava dagli artigli ricurvi, segno che avessero fatto razzie di carne umana fino a quel momento.
Emilia si alzò dalla panca, lasciando che il bianco mantello le scivolasse dalle spalle, e materializzò il suo bastone di quercia. Nuovi rametti erano cresciuti alle sue estremità, ad indicare l'arrivo della primavera, ma non ci fece caso. I suoi occhi cristallini erano fissi su uno dei tanti costrutti alchemici che avevano invaso la città, aberrazioni nate per mietere quante più vite umane possibili.
I miei ossequi, mietitori.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro