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I: Joséphine

Lunedì 4 Settembre 1984

Joséphine era arrivata a Londra con un indirizzo scritto su un post-it colorato di verde, scheletri nell'armadio e tanti sogni nel cassetto del suo comodino.

Londra ad un primo impatto le era sembrava così strana, influenzata forse dalla descrizione data da George Orwell in 1984, anche perché l'anno era quello giusto. La Londra dell'autore novecentesco era una città grigia, schematica, iper organizzata, vuota di sentimenti e di idee, priva di qualsiasi forma di arte e popolata da un'umanità ormai ridotta a poco più di un obbediente e depresso automa. Aveva appena messo piede fuori dall'aeroporto di Heathrow, e già si era sentita catapultata dentro il libro, la grande metropoli che era diametralmente diversa dalla sua piccola Nantes, un grande insieme di macchine e di persone che si spostavano come se fossero automi, imperturbabili e chiusi in una piccola bolla.

Dov'era l'arte a cui anelava? E, cosa più importante, dove avrebbe potuto trovare un posto in cui sentirsi al sicuro, in cui sentirsi a casa?

Guardò il post-it verde pastello che teneva in mano come se vi si potesse aggrappare. Un po' stropicciato, mezzo distrutto, piegato in un angolo. Ma ancora intatto. Lo strinse nel pugno, guardandosi attorno. Forse, doveva solo mettersi a cercare.

«Bow Street» borbottò tra sé, mentre scandagliava con un dito una cartina che si era portata da casa, aperta sulle proprie gambe. «Perché dev'essere così difficile?».

Londra era divisa in una serie di borghi. Questi sono suddivisioni amministrative con ognuno il proprio sindaco e il proprio consiglio, essenziali per il buon funzionamento di tutta la metropoli. Tutti i trentuno borghi sono posizionati a raggiera, dal centro di Londra, chiamato Borgo uno o "città di Londra", fino ai quartieri più esterni.

Il posto che cercava Joséphine non sarebbe stato molto difficile da trovare, alla fine sapeva che era da qualche parte in centro, ma dopo aver preso la navetta che dall'aeroporto portava i passeggeri fino a Londra, si era persa tra le mille vie ad ammirare gli edifici di epoca vittoriana, e aveva dovuto fermarsi per chiedere aiuto ad una vecchia mappa che il padre le aveva regalato con l'augurio che potesse sempre ritrovare la via di casa. Suo padre era sempre stato disgustosamente filosofico.

«Potrei aiutarti io, dolcezza».

Joséphine alzò la testa di scatto, così velocemente da provare un dolore acuto alla base del collo. Strinse gli occhi, più per il dolore che per inquadrare lo sconosciuto che le aveva appena rivolto parola.

Era alto, forse superava il metro e ottanta, e faceva ombra sulla panchina dove si era seduta per consultare la cartina. Aveva una faccia larga, quasi da pitbull, con guance cadenti butterate da acne e un principio di dermatite. Indossava un cappellino da baseball con la visiera rivolta verso la sua sinistra, il che fece dubitare Joséphine della sua intelligenza. Non che fosse molto sicura che ne avesse alcuna. Portava una giacca di pelle alla Fonzie mezza slacciata, che però gli andava leggermente stretta e lo faceva apparire terribilmente come una salsiccia strizzata dentro del budello.

«Come, scusa?» chiese Joséphine aggrottando le sopracciglia, perché nonostante fosse brava in inglese non era abituata all'accento stretto dei madrelingua. E allo slang della metà degli anni 80 che i ragazzi di Londra sembravano adorare.

«Ah, una straniera», il ragazzo si morse un labbro già abbastanza distrutto di suo, «sarà molto più semplice così. Posso. Aiutarti. Io». Scandì le parole con dei grandi e inutili movimenti di bocca, che non fecero altro che mettere in evidenza una serie di denti marci.

«Sono straniera, non ritardata, babouin». Joséphine ebbe l'accortezza di migrare al francese per insultarlo, confidando sul fatto che il ragazzo non conoscesse la sua lingua madre. Prevedibilmente, il ragazzo la guardò con le sopracciglia aggrottate, perso nei presunti vacui meandri del suo cervello.

«Che cosa...»

«Eccoti, petite! Ma è possibile che ti perda sempre?»

"Un altro, non è possibile" borbottò Joséphine, alzando gli occhi al cielo. Era a Londra da meno di un'ora e aveva già attirato l'attenzione di due ragazzi. Non pensava che il suo soggiorno in quella città così grande sarebbe stato tanto complicato. E questo aveva pure la faccia tosta di fare lo spiritoso con il francese. Cosa che, con il suo strascicante accento americano non poteva proprio permettersi. E poi di cosa stava blaterando? Lei non si era assolutamente persa da nessuno, men che meno da un ragazzo. In più, era certa di non averlo mai visto prima d'ora.

Volse il viso verso il nuovo arrivato. Era più basso dello scimmione, ma molto più longilineo. Teneva le mani in tasca, e sembrava estremamente a suo agio sia in quel posto che nel proprio corpo. Estremamente rilassato. Self-confident, avrebbero detto gli inglesi. A lei dava solo l'impressione di una tigre mezza addormentata che, finito il pasto, si riposa sotto il sole.

«Francesi», alzò gli occhi e sbuffò, tentando di spostare una ciocca di capelli biondi che gli cadeva su un occhio terribilmente chiaro, «solo perché ci hanno battuto al campionato di quest'anno pensano di essere i padroni d'Europa». Guardò il primo ragazzo come se cercasse supporto da lui. Quello alzò un sopracciglio incuriosito, ma annuì soddisfatto. Era allucinante quanto il calcio facesse presa sui maschi.

«Vi conoscete?»

«No!» rispose Joséphine, prima che il biondo le potesse mettere una mano sulla bocca per zittirla e avvolgerla con un braccio. La mora colse un odore particolare, di gesso e di legno, che la riportò per un attimo alla palestra dove, a casa sua, era solita allenarsi.

«La mia cuginetta non fa che scherzare, vero, Ursula?». Calcò molto sul nome finto, anche vagamente imbarazzante, cercando lo sguardo di Joséphine col suo. Aveva degli occhi azzurri ipnotizzanti, profondi ed intensi, semichiusi in due fessure. La stava guardando con il sorriso strafottente di chi voleva sfidarla a stare al gioco. Avrebbe avuto abbastanza coraggio da mentire così spudoratamente come stava facendo lui?

«Sì, Lucifer» rispose Joséphine, calcando a sua volta sul nome che si era appena inventata ed era un ovvio tentativo di prenderlo per i fornelli. Aveva sempre adorato le sfide. «Credo che la zia ci stia aspettando». Gli battè leggermente sul petto, fingendo una confidenza che in realtà non aveva. Ma tanto bastò per convincere lo scimmione che erano imparentati.

«Ursula e Lucifer? Certo che i vostri genitori si sono proprio divertiti»

«Una scommessa persa e vengo dannato per l'eternità» si lamentò Lucifer, alzando teatralmente le braccia. «Che ci vuoi fare, è questo il destino del figlio degli Inferi». Rinforzò la presa su Joséphine e la condusse verso il passaggio pedonale, lontano dal ragazzo che, perplesso, li guardava dal fondo della via. Nonostante il fisico asciutto, il biondo aveva una presa ferrea, come se fosse ben allenato.

Camminarono per qualche minuto in silenzio, e Joséphine ne approfittò per lanciare qualche sguardo al suo salvatore, stando attenta a non farsi beccare. Aveva i capelli biondi sparati verso l'alto, quel pettinato - spettinato che andava tanto di moda in quegli anni. Uno stile bello ma disordinato di chi faceva finta di non essersi sistemato dopo essersi alzato dal letto. In realtà, Joséphine era convinta che la posizione di ogni ciocca fosse studiata ad arte con una gran dose di NaturalGel a lunga tenuta. Era magro anche sul viso, gli zigomi sporgenti, le guance scavate. Non sembrava malato, solo un po' deperito, come se stesse seguendo una qualche dieta integrativa ma allo stesso tempo debilitante.

«Vuoi dirmi chi sei ora o dobbiamo ancora fare finta di conoscerci?- sbottò Joséphine dopo essersi accorta di non sapere dove erano diretti. Quel ragazzo aveva una forza attrattiva micidiale, tanto che era riuscita a condurla dove voleva senza che lei opponesse la benché minima resistenza.

Scorse un lampo bianco quando il ragazzo le sorrise. Un sorriso sornione, rilassato, solo con un angolo della bocca. Il sorriso di chi aveva tante cose da dire ma si stava trattenendo dal farlo. Il sorriso di una tigre.

«Mi chiamo Chase, e ti ho appena salvato la vita».

Joséphine era convinta che, oltre a salvarle la vita, Chase sarebbe stato benissimo in grado di rovinargliela.

«Allora, dove sei diretta?».

Joséphine si sistemò a tracolla il borsone che si era trascinata in giro esattamente per quattrocentottant'otto chilometri, per poi tirare fuori i capelli incastrati nella bretella dello stesso. Una smorfia le passò sul viso, quando pochi capelli incastrati nella fibbia della borsa iniziarono a tirarle dolorosamente la pelle. Dopo qualche secondo, una cascata di boccoli neri le si appoggiò sulla spalla, leggera come l'aria. Chase fu sommerso da un gran profumo di fragole, o forse erano ciliegie, che per un momento gli fece perdere il senso dell'equilibrio.

«Bow Street, la Royal Ballet School. Per caso sai come arrivarci?». Joséphine vide Chase bloccarsi di colpo, lo sguardo perso nel vuoto. Se il suo cranio fosse stato trasparente, si sarebbero sicuramente visti i neuroni scintillare nel tentativo di fare una serie di connessioni. O più che altro una scimmietta che sbatteva due piatti producendo un suolo altresì fastidioso.

«Dimmi un po', ragazzina, non sarai mica una ballerina?». La ragazza, che aveva già sentito troppo spesso affermazioni indecorose sullo sport che praticava, non aveva intenzione di rilasciare ulteriori informazioni personali ad un ragazzo di cui sapeva a malapena il nome. Sempre che Chase fosse il suo vero nome.

«Anche se fosse non dovrebbe interessarti. Allora, sai come arrivarci o no?»

«Sei stata brava, ballerina» si complimentò Chase, un sorriso ironico sul viso, «hai sbagliato solo di cinque o sei isolati».

La Royal Ballet School assomigliava ad una villa neoclassica più che ad una scuola di ballo, con una grande doppia scalinata esterna che portava ad un portico sorretto da colonne ioniche. Dietro di essa si scorgevano alcuni edifici di fattezze più moderne. Dei grandi scatoloni verniciati di bianco che riflettevano la luce del sole e facevano a pugni con la bellezza ed eleganza dell'edificio principale e del parco che li circondava. Joséphine si arrestò qualche metro prima della scalinata, ammirando quella che da lì in poi sarebbe stata la sua casa. Nantes non le mancava più, anzi, era sicura di aver fatto la scelta migliore ad accettare l'invito offertogli. Londra era esattamente della misura adeguata a farla sentire un'estranea e una persona famosa allo stesso tempo.

Intorno alla villa e nel piccolo parco che la circondava, si vedevano un grande numero di ragazzi e ragazze, tutti intenti a prendere una boccata d'aria e bearsi degli ultimi raggi di sole dell'estate. Di lì a qualche giorno sarebbe arrivato l'autunno, e con sé avrebbe portato il freddo, la pioggia e la nebbia di Londra. Qualcuno la guardò, ma lei non se ne curò. Anzi, li lasciò fare. Era un buon inizio. Il suo obiettivo era quello di finire sulla bocca di tutti entro la fine della settimana. Tanto valeva iniziare da subito. Si girò verso Chase, che l'aveva seguita fino a quel punto senza riuscire a toglierle gli occhi di dosso.

«Be', ora puoi andare» dichiarò Joséphine scrutandolo da capo a piedi. «Il tuo compito è concluso».

«Fidati, tesoro, mi piacerebbe molto. Purtroppo...»

«Signor Elliott!».

Una voce femminile arrivò dalla cima delle scale. Una donna che era più vicina ai quaranta che ai trenta, ricoperta da un castigato abito scuro, li raggiunse poco dopo. I tacchetti, forse neanche cinque centimetri, erano assurdamente rumorosi sui gradini. I capelli scuri erano tirati all'insù, racchiusi in uno chignon così stretto che sembrava tirare indietro anche la pelle del viso.

"Forse è un nuovo metodo antirughe" considerò Joséphine tra sé e sé. Doveva essere una ballerina. Aveva un portamento elegante, severo, austero. Anche antipatico. "Doveva essere stata una ballerina" rettificò Joséphine nella sua mente. Perché lo sapeva bene che quel lavoro non durava tanto, e la signora che aveva davanti aveva superato ormai da un pezzo la sua data di scadenza.

«Salve, signorina Stannard» la salutò Chase, portandosi una mano sulla testa e mimando il gesto di togliersi il cappello.

«Ha saltato di nuovo l'allenamento del mattino. Se ne combina ancora una delle sue, mi troverò costretta a prendere seri provvedimenti». Joséphine lo guardò stupida. Quindi lui frequentava la Royal Ballet? Capiva solo ora la pacatezza e serenità con cui l'aveva accompagnata dentro, come se conoscesse bene il posto.

«Tanto me la dà sempre vinta» sussurrò Chase in modo che solo Joséphine potesse sentire. Quella non poté resistere nel fare un sorriso divertito. La signorina Stannard li guardò un attimo indignata per la sfrontatezza con cui quel ragazzo osava sussurrare qualcosa all'orecchio della sua amica in sua presenza, quando si rese conto di non riconoscere chi quella "amica" fosse. Joséphine, che invece aveva capito bene che la "signorina Stannard" era un qualche supervisore o, se fortuna voleva, un'insegnante, si era fatta ancora più alta del solito e aveva dipinta in volto l'espressione d'angelo con cui aveva spesso ingannato genitori, parenti, insegnanti, coetanei e sconosciuti.

«Tu devi essere la ragazza nuova» asserì la signorina Stannard. «Joséphine...», scandagliò la cartelletta che teneva in mano, cercando di carpirne il cognome.

«Solo Joséphine andrà più che bene» affermò la diretta interessata, tirando fuori dalla borsa una serie di fascicoli perfettamente ordinati. «Ho qua i documenti per l'ammissione. Quando è la mia prima lezione?».

Dopo una breve tappa in segreteria, un locale sorprendentemente buio e piccolo, rispetto alle dimensioni dell'intero edificio, la signorina Stannard accompagnò la nuova studentessa in un breve tour della scuola, scacciando ripetute volte Chase che, come il prezzemolo, sembrava spuntare dietro ogni angolo con la scusa di dover andare nella stessa direzione.

Il fascino di Joséphine iniziava a far effetto, bastava contare quante teste riusciva a far girare al suo passaggio. Non solo i maschi erano affascinati dalle sue forme minute e capelli fluenti, ma anche le ragazze la seguivano con lo sguardo invidioso e giudicante di chi voleva essere come lei o la voleva fuori dai piedi al più presto. Joséphine sorrise, cercando di imprimersi nella mente ogni muro, porta, crepa, ragnatela e mattonella della scuola. Reclamando tutto come suo con quei suoi occhi selvaggi. Ora che era arrivata, non se ne sarebbe mai più andata.

Nemmeno Ann Stannard era riuscita a resisterle, e dopo poco più di cinque minuti aveva deciso che quella sarebbe stata la ballerina che avrebbe portato la Royal Ballet in giro per il mondo. In alto tra le classifiche delle scuole di ballo più famose del mondo. E insieme a lei, la sua insegnante predestinata avrebbe viaggiato sulle ali del successo. Sì, loro due insieme avrebbero fatto delle gran belle cose.

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