I: Antheia
Lunedì 4 Settembre 2004
Proprio ad angolo tra Herbal Hill e Clerkenwell Road si poteva trovare un edificio a quattro piani, dal colore del quarzo sporco dallo smog, sorretto da due colonne doriche in procinto di cadere. Il portone era di un caldo legno di noce, rovinato dallo scotch con cui erano attaccate locandine e indicazioni di orari. Sulla maniglia di ottone annerita dall'uso si potevano notare alcuni segni di impronte digitali che sarebbero tornati utili in caso di indagini da parte di Scottland Yard. Il tappetino d'ingresso era stato schiacciato più volte di quanto avesse potuto tenere il conto, e ormai giaceva abbandonato sull'ultimo gradino di una breve scalinata d'ingresso bianca di marmo e grigia di polvere. Uno dei gatti randagi di Farrington aveva preso l'abitudine di farsi le unghie su di esso, prima di acciambellarsi al sole impedendo il passaggio a qualsiasi persona avesse avuto intenzione di utilizzare la porta per entrare o uscire. L'unica possibilità sarebbe stato scavalcarlo, cercando di evitare gli artigli appuntiti.
Ma quell'edificio non era semplicemente uno dei tanti presenti a Londra. Quell'edificio era la casa di Antheia, o almeno, era quello che ci si era avvicinato di più. Eppure, non sembrava nemmeno particolarmente bello. Era pieno di spifferi, freddo, asettico, formale. Non era un posto in cui rilassarsi, in cui sentirsi al sicuro. Ma era il posto in cui Antheia aveva deciso di fermarsi, perché avrebbe potuto fare ciò che sapeva fare meglio.
E al pensiero che se fosse nata solo qualche anno prima, non sarebbe riuscita ad entrare nella Central School of Ballet, le venivano i brividi. In qualche modo, ad Ann Stannard e Christopher Gable, i fondatori, Antheia doveva praticamente la vita.
La signorina Stannard era a tutti gli effetti la preside della scuola. Fredda, asettica e formale come ciò che aveva fondato. Indossava sempre dei vestiti lunghi con un bustino molto stretto che racchiudeva una vita sottile, e i capelli argentei chiusi in uno chignon sul capo. Gli occhiali neri decorati da due brillanti sulle estremità, l'unico ornamento che si permetteva, coprivano gelidi occhi azzurri.
Christopher, alle ragazze aveva sempre permesso di chiamarlo per nome nonostante la disapprovazione della signorina Stannard, era un distinto signore che si occupava della contabilità, e le andava a trovare solamente una volta alla settimana. Ma quando lo faceva aveva sempre l'accortezza di portare ad Antheia un pezzo di cioccolata fondente, la sua preferita e l'unica che avrebbe potuto mangiare. Era sempre stato attento a lei. Addirittura, la trovava quasi divertente.
La Central School of Ballet era una delle scuole di danza classica più recenti della città, ma anche quella che con più tenacia aspirava a diventare la migliore. Fino a quel momento, nessun ballerino uscito dalla scuola era riuscito ad arrivare sul palco del West End, davanti alla Regina Elisabetta II. Ma questo perché Antheia la stava ancora frequentando.
Il West End. Il sogno di ogni ballerino. Il palco adatto a chi, almeno una volta nella vita, vuole sentirsi un re o una regina. L'emblema del teatro inglese, la madre di tutti i teatri di Londra, il simbolo della Gran Bretagna intera. Antheia ci era stata una volta sola, a vedere lo Schiaccianoci insieme a sua madre, a cinque anni appena, ma si sarebbe sempre portata il ricordo nel cuore. Anche perché fu di per sé un fatto molto singolare. Sua madre odiava la danza, lo aveva sempre dichiarato a gran voce. Ma fu lì, su in alto, nei posti più brutti di tutto il teatro, che Antheia si era innamorata della danza classica.
«Antheia» la chiamò la madre, appoggiandole una mano su una spalla particolarmente ossuta. Era una mano dalle unghie spezzate, consunte. Mangiate fino alla carne. Sull'anulare destro era rimasto il segno di una vecchia abbronzatura. Una linea leggermente più pallida su una pelle già di per sé diafana. Coperta fino a poco tempo prima da un anello che in quel momento era appeso ad una catenella sul collo della bambina, perché era troppo grande per le sue dita anche se paffute.
Antheia si girò velocemente verso di lei, gli occhi che brillavano, nelle pupille ancora i passi di danza che Viviana Durante, prima ballerina italiana, stava effettuando sul palco. Così vicina a lei, eppure così tremendamente lontana. La musica di Čajkovskij le rombava ancora nelle orecchie.
Sua madre aveva lunghi capelli neri tenuti sempre raccolti in una treccia che le si appoggiava su una spalla. Gli occhi truccati di nero, in forte contrasto con l'azzurro delle iridi screziato di oro. Era molto giovane, lo era sempre stata.
Una lacrima lasciò un solco nero sulla guancia. La bambina la guardò confusa. Perché piangeva? Come poteva essere triste quando lei era così contenta? Odiava così tanto la danza, da non sopportarne nemmeno la vista?
«Io devo andare in bagno. Ma torno subito Petite, te lo prometto». Aveva sempre avuto un lieve accento francese, che in qualche modo aveva trasmesso anche a sua figlia. La piccola annuì, e tornò a guardare il corpo di ballo della Royal Ballet fare quello che sapevano fare meglio.
Antheia appoggiò la mano destra a palmo aperto su una locandina attaccata al muro con una dose abbondante di scotch, di fianco ad un letto mezzo disfatto. Rappresentava una splendida Viviana Durante in arabesque, vestita con del tulle svolazzante e con ai piedi delle eleganti scarpette con la punta, decorate da centinaia di brillanti. Il titolo citava: -Viviana Durante in "Lo Schiaccianoci", il ritorno della magia-, ed era datato 1991. In un angolo, in alto a sinistra, si allungava l'autografo della ballerina in una elegante linea piena di svolazzi di un blu brillante.
Col dito tracciò la sua silhouette, per poi passare al palcoscenico che si scorgeva in lontananza. La mano volava sul disegno al ritmo di una musica silenziosa. Poi si fermò, di colpo. Le unghie mangiate fino alla carne artigliarono il foglio. Spezzate, poco curate, senza un filo di smalto. Un anello a forma di serpente, posto sull'anulare destro, era l'unico decoro che si era mai permessa. Al posto degli occhi scintillavano due piccoli rubini. All'interno, invisibile se non si sapeva dove guardare, erano incise le iniziali J.G.
Sul dorso della mano si dilungavano una serie di segni tracciati con un inchiostro blu splendente. Più che altro promemoria, o parole che le stavano particolarmente a cuore. Uno in particolare sarebbe stato importante quel giorno.
Lunedì 4/9/2004 - Anticipazione lezione di danza. 8:30.
«Oh, merda!» esclamò Antheia saltando fuori dalle coperte. La signorina Stannard doveva parlare alle ballerine di qualcosa di importante, ecco perché aveva chiesto loro di anticipare la lezione di danza. Ed ecco perché Antheia se lo era scritto sulla mano. Per non dimenticarselo. Ottimo lavoro.
Si infilò velocemente un paio di leggins e una maglietta larga, prese da terra un paio di scarpette con la punta consumata e si guardò allo specchio una volta sola prima di uscire dalla stanza sbattendosi la porta alle spalle.
Se gliene fosse importato qualcosa, si sarebbe fermata un attimo dopo che lo specchio le ebbe rimandato l'immagine di un paio di sopracciglia disastrose, o delle labbra scarnificate. O dei ciuffi che erano usciti da una lunga treccia portata di lato. Ma non le importava. Non le sarebbe importato neanche se avesse avuto un brufolo enorme sulla punta del naso.
Però fuori dalla porta si girò un attimo e tornò indietro, ripercorrendo la stanza da una parte all'altra solo con un paio di passi. Una stanza che assomigliava quasi ad una cella, tanto era piccola. Soffocante, ma in qualche modo anche confortante.
Si avvicinò al letto disfatto, si guardò intorno per qualche secondo. C'era qualcosa. Qualcosa che proprio non andava. Qualcosa che le urtava il sistema nervoso. E non era il disordine che regnava sovrano. I calzini appallottolati in un angolo della stanza, gli scaldamuscoli appesi alla maniglia della finestra, la montagna di vestiti sulla sedia. No. Quello era normale.
Si abbassò verso il comodino, gli occhi stanchi che non riuscivano ancora a mettere bene a fuoco gli oggetti posizionati con maniacale cura.
«Perfetto» borbottò, spingendo "1984" di George Orwell un po' più sul comodino, in modo che fosse allineato con il bordo. «Adesso so che la giornata farà schifo». Le giornate facevano sempre schifo, quando si accorgeva che gli oggetti non erano allineati.
A cinque anni i bambini avrebbero dovuto essere felici. Sereni. Senza pensieri.
A cinque anni Antheia non era una bambina serena. Forse serena non lo era mai stata. Anzi, al contrario, era decisamente paranoica, tratto che aveva senza ombra di dubbio ereditato dalla madre. Ma quel giorno, inspiegabilmente, era felice. Sua madre l'avrebbe portata per la prima volta a teatro, a vedere lo Schiaccianoci. Era un'occasione più unica che rara, lo sapeva bene. Sia per i soldi che in casa mancavano sempre, sia per la repulsione che la madre aveva verso la danza. Era un peccato, perché Antheia aveva sempre immaginato sua madre come la più splendida delle ballerine, col fisico asciutto e longilineo che si ritrovava.
«Attenta, Petite» la riprese la madre durante la colazione, spostandole il bicchiere col latte in modo che fosse perfettamente allineato con la tovaglietta bianca sottostante. «La giornata potrebbe andare a finire male, se non ci ricordiamo di mettere le cose allineate». Pronunciò la frase canticchiando, quasi come se fosse uno stupido ritornello che aveva sempre in mente.
Qualche ora dopo, Antheia era seduta composta sull'orlo della poltrona assegnatale per lo spettacolo, per riuscire a vedere il palco il meglio possibile. La madre l'aveva appena lasciata per andare in bagno, e già lei sentiva la sua mancanza. Girò il viso verso il posto riservato alla madre, in attesa del suo ritorno. Poi guardò in basso, e senza neanche pensarci sistemò l'opuscolo dello spettacolo che pendeva leggermente oltre l'orlo. La giornata poteva andare a finire male, se le cose non erano allineate.
Corse giù per tre piani di scale, saltando sull'ultimo corrimano tarlato per scivolarci sopra. Era l'unico che non cedeva sotto il suo peso. Volò attraverso il salone d'ingresso, i piedi che battevano leggeri e silenziosi sul freddo pavimento di piastrelle bianche e nere. Sorpassò la reception a gran velocità. Era un grande bancone di mogano dall'aria molto antica, sopra il quale svettava il più moderno dei computer. Evelyn, la receptionist nonché unica dipendente della scuola, teneva una lima in una mano e si sistemava con fare minuzioso le unghie dell'altra. Il collo piegato a novanta gradi impediva ad una cornetta appoggiata sulla spalla di cadere. Indossava un adorabile maglioncino rosa con disegnati dei gatti che facevano la lotta. Era sempre stata una ragazza strana.
«No, signora, mi dispiace. Ormai siamo al completo...»
Agitò la mano che teneva la lima quando Antheia passò. Gesto che sembrava più una minaccia che un saluto. Antheia comunque era troppo presa dalla fretta per rispondere, e la sorpassò facendo finta di non averla vista.
L'aula di danza dove faceva allenamento il gruppo di cui Antheia faceva parte era ovviamente la più lontana di tutte. Entrò di corsa, con il fiatone e i capelli sudati. Si guardò intorno brevemente, poi fece un sospiro di sollievo. La stanza era più lunga che larga, con una specchiera che correva su tutto il lato lungo e dava l'impressione che il locale fosse grande e luminoso. Due file di sbarre erano posizionate in fondo all'aula, ma grazie a delle piccole ruote potevano essere spostate dove servivano di più. Gli unici altri arredi erano alcune panche di legno vicino alla porta d'ingresso, e una radio collegata a delle casse.
«Non è ancora arrivata, vero?» chiese lasciandosi cadere su una panca. Le altre ragazze, ce ne erano venti in tutto, la guardarono con tanto d'occhi.
La CSB ospitava cento studenti, tra ballerini e ballerine, che arrivavano da tutto il mondo. In ogni pubblicità e volantino veniva propinata la storia che in quella scuola "tutti erano uguali a tutti" e che i gruppi venivano divisi semplicemente per questione di spazi, non a seconda di livelli e abilità. Cazzate. Anche alla Central School of Ballet c'erano i più bravi e i meno bravi, e la signorina Stannard stava ben attenta a tenere i due gruppi separati. Solo le stelle avrebbero avuto l'opportunità di brillare, e tutti volevano entrare nel gruppo dell'Etoile. Antheia, in qualche modo, era riuscita a finirci dentro.
«E' interessante come riesci ad arrivare in ritardo anche se non devi neanche uscire per strada» considerò Jennifer, squadrandola da capo a piedi, per poi fare un sorrisetto divertito. Antheia si guardò i piedi, per poi muovere con imbarazzo le dita con le unghie tagliate un po' male. Quella mattina si era dimenticata di mettere le scarpe. Le altre ragazze si misero a ridere dietro la mano, commentando fra di loro. Che branco di oche.
«Oh, vaffanculo» la apostrofò a mo' di saluto, per poi infilarsi le punte e legare i lacci stretti intorno alle caviglie sottili.
«Signorina Godart!».
Antheia si girò verso la porta d'ingresso, alzando gli occhi al cielo in un'espressione di evidente seccatura. Forse era riuscita ad arrivare in tempo, ma non avrebbe scampato una strigliata per il suo stile di parlato forbito.
«Buongiorno signorina Stannard» mormorò insieme alle altre.
«Siamo in una scuola di danza, non in pescheria. Le consiglierei di utilizzare un linguaggio adeguato al luogo in cui si trova, o dovrò chiederle di allontanarsi dall'aula»
«Tanto ogni volta gliela dà vinta» borbottò Jennifer ad una sua amica dai capelli rossi e una marea di lentiggini sul viso. Quella riprese a ridacchiare.
Antheia, che aveva tanti difetti ma non era ancora diventata sorda, tirò una bottiglietta d'acqua vuota contro Jennifer, mancandola abbondantemente.
«Signorina Stannard!» si lamentò Jennifer con un'insopportabile vocetta un'ottava più alta del normale.
«Signorina Godart!» esclamò l'insegnante, avvicinandosi con passi che ticchettavano sul parquet. «Se osa comportarsi un'altra volta in un modo tanto...»
«Tanto ogni volta me la dà vinta» la interruppe Antheia, finendo con calma di allacciarsi le scarpe per poi andare a sistemarsi in fila con le altre. Jennifer, in piedi di fianco a lei perchè praticamente si eguagliavano in altezza, le fece una smorfia e alzò la testa in segno di superiorità. Il body nero stirato alla perfezione fasciava un fisico minuto. I capelli scuri erano tirati all'indietro da una serie di forcine decorate da brillantini. All'apparenza, era il ritratto della ballerina perfetta. Della ragazza perfetta.
L'insegnante preferì non buttare altro carbone sulle scintille che stavano scoppiando, e si limitò a passeggiare davanti alla fila delle sue ragazze. Le stelle di quella scuola. Le ballerine migliori. Chi più disciplinata...
Si fermò davanti ad Antheia.
...e chi meno.
Capelli mossi, sempre spettinati. Occhi splendenti, muscoli tesi, pronti a scattare. L'unica preoccupazione quella di ballare. Carattere insolente, parlantina pronta e lingua da vipera. Oh, sì. Ne aveva conosciuta un'altra della stessa stoffa.
Antheia guardava la sua tutrice con occhi di fuoco. Come osava parlarle in quel modo. Con lei, con sua figlia. Per lo meno solo a livello legale. L'avrebbe sentita. Oh se l'avrebbe sentita una volta che fossero state da sole. Non sarebbe di certo finita lì.
«Giovedì scorso ho ricevuto una telefonata che mi ha piacevolmente sorpreso» incominciò, riprendendo a passeggiare davanti alle ragazze. Loro la seguivano con lo sguardo attento, le orecchie drizzate.
«Difficile credere che tu possa essere sorpresa da qualcosa» borbottò Antheia tra le labbra. Se la signorina Stannard la sentì decise di ignorarla.
«Il preside del Royal Ballet sembra essersi addolcito abbastanza da darci la possibilità di gareggiare per la prima al West End dell'anno prossimo». Le ragazze si sciolsero in gridolini.
La prima al West End. Il primo spettacolo dell'anno. Ci sarebbe stata la possibilità, per la prima volta da quando Antheia aveva memoria, che qualcun altro oltre ai ballerini del Royal Ballet potesse esibirsi davanti alla famiglia reale. Si sfregò un dito sulle labbra, per poi strapparsi una pellicina fastidiosa. Ballare al West End...
«Quindi...» continuò la signorina Stannard, fermandosi davanti a Jennifer e soppesandola con lo sguardo. In ordine, dolce, educata, pacata. Lo chignon stretto sulla nuca, i vestiti sempre adatti. Una ballerina a tutti gli effetti. «Devo comporre un corpo di ballo tra tutti i miei studenti. E, cosa più importante, mi serve una prima ballerina che sappia ballare lo Schiaccianoci davanti alla Regina. Perchè non ho intenzione di rinunciare a questa opportunità».
L'allenamento incominciò nel perfetto silenzio. Tutte, nessuna esclusa, si stavano concentrando al massimo per fare del loro meglio. La signorina Stannard si era data due mesi di tempo per mettere insieme il corpo di ballo, anche se la scelta era pressoché scontata. Le mancava solo un ruolo da definire.
Antheia si stiracchiò la schiena alzando le braccia e piegandosi all'indietro, si sentirono ad una ad una le vertebre scrocchiare, e si preparò per il riscaldamento alla sbarra. Prima posizione, seconda, terza, quinta...mani stese, dita...no, le dita non vanno. Se le scrocchiò una ad una. Molto meglio.
«Antheia, le braccia. Te lo ripeto ogni volta» la riprese l'insegnante, mentre passava tra le ragazze e correggeva qualche anca e qualche schiena piegata nella posizione sbagliata. Antheia alzò gli occhi al cielo, correggendo la posizione.
Erano passati solo cinque minuti dall'inizio della lezione.
«Antheia, tira quelle punte».
Dieci minuti dopo. Antheia prese un respiro profondo. Il cuore stava iniziando a battere troppo forte.
«Antheia, petto in fuori, pancia in dentro».
Mezz'ora dopo. Antheia aveva iniziato a tremare.
«Antheia...». Un'ora dopo. Ad Antheia girava la testa. Aveva le vertigini anche da terra.
«Ci sto provando!» esplose la ragazza, cinque secondi dopo l'ultimo suggerimento. I muscoli erano contratti come se stesse avendo dei crampi, un dolore lancinante le squarciava il petto. Antheia era un bagno di sudore. «Ci sto provando, ma lei non mi dà neanche una possibilità!». La guardò negli occhi. «Non mi stai neanche dando una possibilità».
La signorina Stannard la guardava con occhi spalancati, non essendosi resa conto di aver portato una delle sue ballerine migliori al limite. La guardò, ma non era Antheia che vedeva.
«Ci sto provando!» esclamò una ballerina dopo l'ennesimo suggerimento datole dall'insegnante, «signorina Stannard ci sto provando, lo giuro!».
Aveva solo sedici anni, ed era una delle più giovani al Royal Ballet ad avere un livello avanzato. Tutte le insegnanti erano dure con lei, perché, nonostante la sua bravura, riusciva a stento a stare dietro a tutte le sue compagne, nettamente più anziane ed esperte di lei. Per questo, lei e la signorina Stannard si attardavano sempre un po' dopo la fine della lezione, per rivedere i passi e correggere qualcosa. Ann era sicura che molto presto sarebbe stata promossa a prima ballerina. Alla fine, a quella ragazza non si riusciva proprio a dire di no.
Era così carina, poi sarebbe diventata molto bella, e così determinata. Tutti sapevano bene che lei era nata per ballare. Ann non aveva mai conosciuto nessuno talmente appassionato e portato per la danza quanto lei.
La signorina Stannard si avvicinò alla sua ballerina, che era scompostamente seduta a terra nel pieno di una crisi di panico. Proprio quei passi non le venivano, non c'era nulla da fare.
«Lo so che ci stai provando» la assicurò, sedendosi vicino a lei, mai nessuna insegnante si era abbassata al livello di un'alunna, e circondandola con le braccia. «E so che ce la farai. Per questo ti sto mettendo così tanto sotto pressione, perché so quanto sei brava».
Quel giorno era partito male, il libro di Orwell non era allineato al comodino. E Antheia aveva dimenticato di prendere le sue medicine.
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