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PROLOGO

Tredici anni prima

L'inferno è vuoto
e tutti i diavoli sono qui.
William Shakespeare●


C’era una volta, un giovane ragazzo che amava la sua vita. Amava i suoi hobby, come il pugilato e il nuoto, e le vacanze spensierate insieme ai suoi amici inseparabili.

Si trovava nell’atrio della villa di famiglia, a Long Island. Seduto davanti al pianoforte a coda che sua madre tanto adorava, suonava il preludio di Bach, nell’attesa della partenza della famiglia per l’Italia. Sua madre era assai felice, veniva proprio da quel Paese e tornare lì era sempre un grande emozione.

I suoi genitori erano fermi sulle scale a osservarlo in silenzio. Amavano guardarlo suonare, il modo in cui chiudeva gli occhi mentre lasciava volare le dita sui tasti era in grado di rapire Melissa;  l’espressione rilassata che aveva, con un mezzo sorriso appena accennato, ricordava a Robert sé stesso, quando aveva la stessa età del figlio.

In realtà, al giovane non piaceva poi così tanto.  La sua mente era più indirizzata verso la matematica, aveva un fiuto innato per numeri e calcoli. Aveva imparato per fare contenta sua madre, e negli anni la musica era diventata una forma di conversazione intima con lei, che gli aveva dato la vita.

Quella sera del primo aprile duemiladieci, per il giovane ragazzo l’emozione era raddoppiata: aveva appena preso la patente e ricevuto dai suoi genitori un’auto che faceva invidia a qualsiasi giovane donna o uomo della sua età e, per giunta, stava anche ricevendo un viaggio. Che cosa poteva volere di più?

Brad, l’autista, era apparso sulla soglia del salone con la schiena rigida e l’espressione seria, nella solita posa da soldato sull’attenti. I capelli castani tirati indietro rendevano il viso ancora più squadrato.

Si schiarì la voce, interrompendo il flusso delle note prodotte dal ragazzo. «I bagagli sono stati caricati, signori. Siamo pronti per la partenza».

Lui sorrise, mostrando i denti bianchissimi, e si volse verso i genitori. Nei suoi occhi nocciola c’era una tacita domanda che non sfuggì a nessuno dei presenti.

«No, Nathan, tu oggi non guidi. Avrai tempo per farlo. Ora dobbiamo andare, siamo in ritardo», gli rispose la madre, che aveva prontamente compreso lo sguardo dell’amato figlio.

«E dai mamma. Oggi è il mio compleanno, sono stato bravo, no? Papà?»

Era una persona assai furba, sapeva di non avere nessuna possibilità con lei, ma col padre non aveva mai perso una battaglia.

Quello gli rivolse uno sguardo indecifrabile prima di voltarsi verso la moglie, che a labbra strette scosse la testa, ferma sulla decisione, le dita laccate di rosso accarezzavano il filo di perle che le ricadeva sulle clavicole.

«Signori, scusate se mi permetto, ma è notte fonda e sta per iniziare una tempesta. Sarebbe meglio evitare», disse Brad.

Il ragazzo fece un gesto di stizza  e tornò alla carica: «Dai papà, sono stato bravo».

«Va bene, Nathan, se proprio ci tieni», rispose suo padre, restituendogli il sorriso.

“Ah, non c’è volta che gli dica di no”, Brad aggrottò le sopracciglia scure, i suoi occhi neri corsero al viso accigliato di Melissa. Scosse appena il capo, in un movimento che solo lei colse.

«Non dirai sul serio, Robert!»

«Ma sì, amore, oggi è tornato a casa senza un graffio. Cosa potrà mai succedere da qui all’aeroporto?
Lasciamo che si diverta, dopotutto è il suo compleanno».

«Oh, Robert! Sei impossibile», rispose Melissa, guardando suo figlio in un rimprovero silenzioso. «Guai a te se arriviamo in ritardo, Nathan».

Il giovane sorrise vittorioso, prima di prendere dalle mani dell’autista le chiavi dell’auto e avviarsi nel cortile in cui era parcheggiata la Maserati.

I suo genitori lo seguirono e la famiglia Bailey si lasciò alle spalle la loro casa.

Nonostante la pioggia leggera che tamburellava il parabrezza, Nathan guidava con molta determinazione nel traffico di Manhattan, ancora intenso nonostante l’ora tarda. D’altronde, quella era la città che non dorme mai.

«Stai andando molto bene, Nate», si complimentò Robert, ricevendo dalla moglie un silenzioso sorriso che sapeva di orgoglio. 

I suoi genitori iniziarono a parlare sottovoce, sui sedili posteriori, Nathan accese la radio per lasciare loro la privacy e imboccò l’autostrada. Nell’attraversare i quartieri di New York in direzione del J.F.K., la pioggia aumentò e il traffico diminuì, senza impensierirlo. Con la strada libera, poteva spingere un po’ di più sull’acceleratore.

Il giovane sfilò accanto a una delle poche auto ancora presenti. La pioggia si abbatteva in forti rovesci sul parabrezza e i tergicristalli viaggiavano al massimo della loro velocità. Ai suoi genitori la cosa pareva non interessare. Avevano continuato a sbaciucchiarsi per tutto il tragitto, e Nathan sembravano due piccioncini di mezz’età.

Piccole luci arancioni lampeggiarono nel buio, i fanali illuminarono i segnali dei lavori in corso che indicavano un restringimento di corsia.

“Che strano, lavorano sotto questa pioggia?” pensò Nathan, sterzando e rientrando a destra.

Bassi jersey colorati delimitavano la zona del cantiere vuoto, niente furgoncini illuminati a segnalare la presenza di qualche operaio in strada.

L’unica cosa che indicava che non era del tutto solo sull’interstatale erano i fari distanti riflessi nel suo specchietto retrovisore.

Nathan percorse un paio di miglia, con la pioggia che cadeva incessante. All’improvviso, un paio di abbaglianti lo accecarono. Strizzò gli occhi e coprì il fascio di luce con la mano.

“Ma cosa cazzo…?”

Un’auto procedeva contromano sulla sua corsia. Fece per sterzare, ma un’altra macchina lo affiancò sulla destra, altri abbaglianti si accesero alle sue spalle.

Robert si aggrappò al sedile di Nathan. «Nath, cosa sta—?»

Un forte colpo al paraurti fece sobbalzare avanti la Maserati, l’auto che aveva accanto lo spintonò con violenza. Il giovane cercò di mantenere il controllo del volante, ma la Maserati scodava, incontrollabile. Perse aderenza e il battito cardiaco di Nathan schizzò alle stelle.

La macchina che lo aveva abbagliato si schiantò contro il cofano, il mondo si ribaltò e la sensazione del vuoto gli strizzò lo stomaco, le grida dei suoi genitori gli riempirono le orecchie.

Nello specchietto retrovisore, Nathan vide le perle di sua madre alzarsi e abbassarsi sul suo grazioso collo, i suoi capelli neri svolazzarono nell’aria.

“Sto per morire…”

Nathan strizzò gli occhi, strangolato dalla cintura di sicurezza sbatté la testa, il dolore lo accecò con un lampo di luce bianca. Ricadde sul sedile, qualcosa gli schiacciò il torace, impedendogli di respirare mentre l’auto continuava a roteare.

Il sangue gli rimbombava nelle orecchie, respirare gli era ormai impossibile. Provava così tanto dolore che, nonostante volesse urlare a squarciagola, non riusciva a farlo.
I suoi polmoni non ricevevano aria, schiacciati tra il sedile e l’airbag.

Nathan sentiva le tenebre avvolgerlo e trascinarlo nei loro meandri, non percepiva più alcun tipo di luce, nonostante i lampeggianti arancioni del cantiere continuassero ad accendersi e spegnersi indisturbati.

Una voce cupa e macabra strisciò nella sua testa: “È stata tutta colpa tua”.

Poi, il sedicenne cedette all’oblio.
E tutto ebbe inizio.

Spazio Autrice●

♧●♧●♧
Spero che il Prologo scaturisca in voi tanto interesse.
Baci, baci
Kappa_07

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