CAPITOLO 16
~ANNA~
"Siamo tutti impostori in questo mondo"
La settimana passata in compagnia dei miei genitori e della mia migliore amica è volata. Mi sono riposata, ma soprattutto divertita. Ho mangiato e ho riso senza pensare a niente e a nessuno, o quasi.
Ahimè, non pensare al mio capo stronzo è stata più dura del previsto. Ogni volta che chiudevo gli occhi, ricordavo il bacio rubato che mi ha dato e che mi ha lasciato un segno indelebile nel cuore.
La sua personalità mi confonde in maniera devastante.
Mia mamma, come sempre, mi ha riempita di consigli e mio padre, con la sua calma interiore, ha reso le giornate più belle, anche se insisteva fin troppo per farmi lasciare il lavoro.
I giorni erano quasi sempre soleggiati, perciò siamo usciti in barca a prendere un po’ di sole nonostante l’aria fredda. Mi sono sentita come se tutto mi fosse scivolato addosso: lo stress accumulato sul lavoro era sparito, il bisogno di studiare a più non posso anche.
Le vacanze, però, sono durate troppo poco.
Oltre la collina, il mare sembra il cielo in terra, una superficie piatta e azzurra. Il giardino di mia madre è un tripudio di fiori: le primule adornano il cancello e i perenni dai colori che virano dal bianco candido al viola scuro sono disseminati per il portico, in un paesaggio fiabesco.
Gli iris viola adornano il giardino e spargono il loro profumo nell’ambiente.
La voce squillante di Carmen, che cerca di convincere mia madre a cambiare look, risuona nella veranda mentre le due apparecchiano la tavola.
Mio padre, seduto di fianco a me sulla solita sedia di legno, corruga la fronte mentre legge sul cellulare. A giudicare dalla suoneria, che sembra un uccellino impazzito, è una lunga serie di messaggi.
Sospira rumorosamente, con gli occhi incollati allo schermo; un ciuffo brizzolato gli ondeggia sulla fronte, sospinto dalla brezza serale. Stringe la mascella un paio di volte di troppo, torna imperturbabile e infila il telefono nei jeans scuri.
Un moto di terrore mi attanaglia. Era sempre così, allora, quando spariva per giorni senza dirci nulla. Mia madre lo aspettava sveglia, leggendo, o usciva in giardino per annaffiare le sue adorate piante. Aveva sempre detto che andava a pescare, ma tornava sempre a mani vuote. In compenso, però, ci portava dei regali per scusarsi della sua mancanza.
Deglutisco, ripensando a quando mi diceva di prendermi cura della mamma per il tempo che lui sarebbe stato in mare. Mi sorrideva e lo facevo anch’io, ma ogni volta che gli chiedevo come andasse la pesca, lui declinava la risposta.
Ho provato a chiedergli di restare, ma non l’ha mai fatto. Diceva che lo faceva per farci vivere meglio, ma io vivevo peggio. Ogni volta, vedevo lo sguardo triste di mia madre e il terrore mi stringeva le viscere, proprio come adesso.
Mi ritorna in mente il patto che avevamo fatto quando ero piccola. Inginocchiato davanti a me, mentre mi posizionava lo zaino azzurro sulle spalle, mi diceva sempre: «Ricordati, orsacchiotto: semmai qualche sconosciuto ti si avvicina e ti chiede di chi sei figlia, tu cosa devi rispondere?»
«Io sono la figlia di mia mamma, Beatrice Fantini. Non ho un papà. Il mio vero papà è fuggito molto tempo prima che io venissi al mondo».
«Esatto, piccola», mi diceva, prima di stringermi in un abbraccio gigantesco e sparire per settimane.
Non è mai venuto nessuno a farmi una domanda simile. Nel corso degli anni, gli ho chiesto molte volte il perché di quella promessa, ma lui rispondeva sempre che era solo un gioco per vedere quanto sarei stata brava a mantenere i segreti.
Il dubbio che avesse veramente avuto una ragione è sempre rimasto lì, e ogni volta che ho risollevato l’argomento, lui ripeteva: «Il passato è passato. Non bisogna mai e poi mai ricordare quello che è stato. Bisogna vivere sempre nel presente e guardare al futuro».
Questo pensiero angosciante mi taglia il respiro a metà. La sua espressione guardinga mi strugge. Lui si guarda intorno, legge e rilegge il messaggio e strabuzza gli occhi.
Mi alzo con uno scatto e gli vado incontro. La sua figura slanciata sembra in procinto di scoppiare. Si tortura le mani, le labbra e i capelli brizzolati leggermente più lunghi di quelli che porta di solito.
«Papà, tutto bene?»
Il suo sguardo mi trafigge il cuore e tutte le mie paure prendono forma. I suoi occhi scuri sono rabbiosi e l’angoscia non mi lascia respirare. Lui fa sparire il cellulare nella tasca dei pantaloni e si avvicina con sguardo severo e perso. Sembra non guardare affatto me.
«Sì, piccola mia. Va tutto bene», dice a voce bassa, accarezzandomi la guancia. «Devo solo fare una cosa».
«Che cosa, papà?» aggrotto la fronte e stringo le mani a pugno in un gesto nervoso. “Non sono più una bambina. Lo so che c’è qualcosa di più grande sotto.”
Mio padre si guarda di nuovo attorno, come se avesse visto qualcuno, o come se sapesse che sta per arrivare qualcuno, e torna a guardarmi.
«Devo aiutare un amico a scaricare un carico di pesce».
“Ma che cazzo!” Assottiglio lo sguardo, in collera per la sua bugia. Questa situazione mi sta scatenando dei ricordi veramente amari. Deglutisco, riservandogli un cipiglio. “Bugiardo”.
Quando ero una bambina, io e mia madre abbiamo pregato disperatamente, per giorni e notti intere, che lui smettesse di andare a pesca. Un bel dì, il nostro desiderio diventò reale. Circa tredici anni fa, tornò a casa alle due di notte, dopo essere sparito per una settimana senza nessuna telefonata o uno straccio di lettera.
Ci sorrise, anche se era un sorriso di circostanza. Dai suoi occhi scuri traspariva molta preoccupazione. Disse a mia madre che era tutto finito, che non avrebbe mai più dovuto andarsene. Che ci sarebbe stato sempre.
Ricordo che mi mise a letto con un sorriso strano: gli angoli della bocca erano all’insù, ma i suoi occhi sembravano tanto tristi. Erano rossi, come se avesse pianto, e avevano una luce spenta. Ma ero troppo stanca per chiedergli che cosa avesse. Aveva bisbigliato qualcosa a mia madre, prima che io mi addormentassi.
All’improvviso mi ero svegliata. C’erano stati dei tuoni, quella notte, uno più forte mi aveva fatto aprire gli occhi. Ero uscita dalla mia stanza per rifugiarmi nel letto di mamma e papà, ma una volta in corridoio, mi ero fermata perché mio papà era sveglio. Stava parlando al telefono e lo avevo sentito dire: «È tutto finito! Ce l’hai fatta. Ora lasciami in pace».
Avevo aggrottato la fronte, un po’ perché non capivo con chi stesse parlando, un po’ perché non lo avevo mai visto arrabbiato con nessuno.
Si era voltato verso di me, e quando mi aveva visto, mi aveva sorriso di nuovo e chiesto perché fossi sveglia. Dopo avergli raccontato del tuono, mi aveva preso in braccio per portarmi nel letto dove con mamma, mi ero addormentata in mezzo a loro.
«Come vuoi, papà. Continua pure con le tue bugie», me ne vado in casa, verso le voci gioiose di Carmen e Mamma, che si divertono ignare della mia discussione con mio padre.
Mi sento soffocare, come se qualcuno mi stesse schiacciando il ginocchio alla gola. Odio questa sensazione. Odio quando lui prova a dirmi delle bugie. Odio me stessa per non essere riuscita a scoprire di più.
Entrando, sbatto il mignolo del piede nell’angolo della porta e un dolore bruciante mi risale lungo la gamba.
Impreco, saltellando sull’altro, e mugugno un insulto che farebbe arrossire anche la più pura delle persone, mentre stringo forte le dita.
Mia madre mi viene incontro dispiaciuta. «Oh, amore ti sei fatta male?»
Ha i capelli rossi raccolti sulla nuca, fermati da un fermaglio decorato con piccoli fiorellini. Diversi boccoli le incorniciano il volto sottile, facendo risaltare i suoi occhi verdi sottolineati dall’eyeliner nero che le danno uno sguardo felino.
Sembra un’asiatica punk. Mi esamina preoccupata, e scoppio a ridere. “Che cavolo ha combinato Carmen?”
Lei ci raggiunge con le braccia incrociate al petto e le labbra strette in una smorfia di stizza. «Mi dici che problemi hai?»
«Nulla. Perché?» rispondo cercando di calmarmi.
«Perché tu non imprechi e ridi allo stesso tempo. Che hai?» La bionda assottiglia gli occhi.
Deglutisco, la risata si spegne: «Mi sono fatta male, okay? E poi mamma è così bella che il suo look mi ha fatta ridere». Le dico stringendo il mignolo del piede, ancora dolorante.
Carmen tace con gli occhi fissi su di me. Mia madre invece alza un sopracciglio, le mani ai fianchi. «Quindi ti faccio ridere?» chiede con le labbra arricciate.
“Ecco, ho fatto un casino”.
«Ma no, mamma. Sei bellissima». Le dico sincera. «Non mi permetterei mai di ridere di te».
«Sarà meglio, mia cara». Mi rimprovera col dito puntato contro di me.
Dopo aver chiesto scusa in dieci lingue diverse a mia madre, che se l’è presa a morte per la mia battuta, mangiamo in terrazza col profumo dei fiori che avvolgono la casa come una bolla.
Le verdure cotte al vapore mi sembrano più buone del solito e il salmone affumicato mi fa venire l’acquolina in bocca. Mio padre mi sorride tra un boccone e l’altro, ma non riesco a essere calma. Le sue bugie mi scavano una voragine nel petto e il bisogno di sapere che cosa nasconde mi fa formicolare le mani.
Resto calma, non sono più la bambina rinchiusa in camera sua a leggere e dipingere finché non si addormentava con i pennarelli in mano. Ora se ho delle domande gliele posso fare. O posso investigare per conto mio, anche se non voglio rovistare nelle cose di papà. Da che ho memoria, il suo studio è sempre stato off-limits. Anche mamma ci entra molto raramente per non discutere con lui.
Dopo cena, papà se ne va, salutandoci con un sorriso simile a quello di tanti anni fa, e ho paura di chiedergli quando tornerà. Non voglio vivere nel terrore di averlo salutato con un semplice “ciao” prima di partire per Bologna.
«Comportati bene e non prendere in giro tua madre». Mi dice con un sorriso di sfida rivolto a mia madre.
Alzo gli occhi al cielo. «Papà!»
Lui mette le mani avanti. «Stavo scherzando. Scusa moglie» si rivolge a mamma che lo guarda con un cipiglio cupo in volto, anche se non è realmente arrabbiata con lui.
«Bravo, papà. Ora dovrò fare qualcosa di esemplare per avere il suo perdono. Di nuovo!» lo rimprovero, stringendo le mani al petto. Lui ride, dà un bacio a mia madre e saluta me e Carmen.
«Ci vediamo domattina, orsacchiotto». Dice, tornando serio.
«Promesso?» gli chiedo con un filo di voce; l’aria fresca mi provoca una leggera pelle d’oca, mi stringo in spalle.
«Promesso». risponde serio, prima di andare.
L’ansia che lui non torni domani o tra una settimana mi attanaglia le viscere e mi scava il petto. Lo osservo allontanarsi con le spalle dritte e l’andamento sicuro, eppure i suoi occhi sembravano tristi, non c’era quella solita luce giocosa che risalta il suo carattere.
No, mio padre era totalmente un’altra persona quando andava a pescare.
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