Proof in the pudding
This is Major Tom to Ground Control.
I'm stepping through the door,
And I'm floating in a most peculiar way,
And the stars look very different today.
For here am I sitting in a tin can,
Far above the world.
Planet Earth is blue,
And there's nothing I can do.
(David Bowie)
12 settembre 2017 a.t.b.
Area 11
Lloyd sentiva i propri tacchi battere sul marciapiede nel silenzio della sera. Fuori dal suo laboratorio, nella colonia di Tokyo, non c'erano luci bianche. Appoggiò una mano sull'incavo del gomito e con l'altra si portò alle labbra la sigaretta. Delle due donne che gli stavano passando a fianco, parlottando con voce dimessa curve nei loro scialli, una diresse lo sguardo verso di lui, per poi subito abbassarlo quando notò d'essere stata ricambiata. La gonna nera che portava, lunga fino alle caviglie, frusciò. Lei abbassò ulteriormente il capo, come se anche quel suono fosse motivo di vergogna.
Dev'essere per il cappotto, considerò Lloyd, osservando le loro schiene che si allontanavano. Sì, ho un bel cappotto, per questo si comporta così. Non ce n'era bisogno.
Dal piccolo centro commerciale che aveva davanti uscì un ragazzo britanno, anche lui con un bel cappotto. Blu, con il bavero triangolare alzato alla moda dei nobili. Portava un cappello nero a tesa larga che gli nascondeva in parte il viso, su cui cresceva una corta barba chiara.
Il giovane si avvicinò al mendicante giapponese che, seduto sotto a un lampione come un vaquero all'ombra di un albero, chiedeva l'elemosina con un sottovaso.
«Buona serata,» disse con un sorriso, porgendogli una banconota di piccolo taglio.
Il senzatetto la accettò dalle sue mani quasi con deferenza, come se fosse un oggetto sacro. Lloyd si voltò e diresse gli occhi a delle stelle che non poteva vedere, offuscate dalla luce dei lampioni, ne immaginò l'ascensione retta e la declinazione.
«Buona serata a lei, signore».
Io volevo costruire il sogno di Britannia.
E in qualche delirio di onnipotenza si era pure imposto di salvare il mondo.
Il giovane che si allontanava lanciò uno sguardo circospetto ai dintorni, come se quello che aveva fatto fosse passibile di denuncia. Invece che gli occhi di un poliziotto, incontrò quelli di Lloyd e passò avanti, forse prendendo nota solo del fatto che avesse un bel cappotto.
Lui, dal canto suo, in genere evitava di pensare al passato. A quando aveva l'età di quel ragazzo e voleva che i suoi concittadini si stupissero guardando l'armonia degli indici contratti che diventava concreta nella metrica degli Energy Filler. O a quando aveva l'età della principessa Euphemia, costretta al massacro di pochi giorni prima, ignorante del fatto che in Britannia – già da molto tempo prima di Zero – ormai era giunta a termine la gentilezza.
*
Colchester Institute of Science.
27 novembre 2023 a.t.b., ore 7.10.
Dipartimento di Fisica e Astronomia William Herschel.
«Sono presenti il direttore del Dipartimento Alexander Renault,» dichiarò il segretario con voce impostata, raddrizzando la schiena sulla propria sedia. Nonostante la situazione d'urgenza avesse richiesto una riunione da remoto, prima di andare in ufficio si era rasato alla perfezione e aveva indossato giacca e cravatta. «Cécile Croomy, assistente universitaria; professor Lloyd Asplund, detentore della cattedra di...»
Lui, invece, se ne stava seduto con i gomiti appoggiati al tavolo di casa. Aveva i capelli spettinati e sporchi alla radice, le dita intrecciate tra loro, frapposte tra il suo viso e una grande bottiglia d'acqua piena per tre quarti. Dopo aver sentito il proprio nome, sollevò appena lo sguardo dal monitor, si premette entrambi i pollici sulle palpebre e si alzò.
«Chiedo scusa,» disse con un mezzo sorriso, in modo formale e quasi dimesso. Il segretario stava annunciando la delegazione con a capo Mihara, che aveva fortemente voluto che quell'incontro si tenesse. «Devo prendere delle medicine».
Kallen osservò con attenzione i volti di tutti i presenti. Nessuno fece una piega a quell'affermazione, considerato anche che il loro caro professore mostrava dei notevoli postumi da sbronza. Lontano dai lazzi della festa, aveva indossato una camicia bianca poco appariscente, senza nemmeno una piega, infilata nei pantaloni neri.
Solo Cécile si portò una mano al viso, si grattò la guancia e poi tornò composta. Kallen si voltò verso C.C., che le stava seduta accanto, e la vide che fissava lo schermo con i suoi occhi da gatta. Sembrava puntare proprio la sedia vuota di Lloyd, come se quell'uomo confondesse la sua visione nitida del mondo.
Cécile sistemò dei fogli sulla propria scrivania e tirò indietro le spalle, come a voler cercare sollievo per i muscoli contratti, poi intrecciò le dita e accavallò le gambe.
«In nome dell'amicizia tra i nostri Paesi,» riprese il segretario, con voce cupa, «abbiamo accettato la richiesta di Katsuro Mihara per un colloquio riguardante materie di conflitto che potrebbero coinvolgere la nostra università. Ci affidiamo alla riservatezza di ognuno dei presenti».
La videocamera di Lloyd inquadrò la sua sedia che, strisciando sul pavimento, si spostava. Lui vi si lasciò cadere e portò entrambe le mani all'altezza del volto, con i palmi aperti, per mostrare che era completamente innocente.
Kallen cercò di cogliere una qualsiasi sfumatura in quel suo atteggiamento, di capire se qualcosa fosse fuori posto, ma distinguere un cenno tra movimenti tanto enfatici era come provare a soffiare nella tempesta. Però a Lloyd tremavano le dita. Forse Rakshata, che stava seguendo non vista la riunione in un'altra stanza, con gli occhi fissi su un altro schermo, avrebbe potuto capire meglio.
Kallen premette con un gesto nevrotico il pulsante laterale del telefono, ma non trovò nessuna notifica pronta a rispondere ai suoi perché.
Lo premette di nuovo.
«Professor Renault,» esordì Mihara, facendola tornare alla realtà. «In quanto carica rappresentativa del Giappone, com'è in maniera non ufficiale anche la signorina Kōzuki che mi siede a fianco, sono qui per esprimere la mia preoccupazione riguardo al discorso del Primo Ministro di ieri sera».
«Preoccupazione?»
«Non vi sembra forse una dichiarazione d'intenti?»
Renault abbassò gli occhi sul tavolo, cercando le parole per rispondere.
C.C. prese a squadrare la cornice sullo schermo che conteneva l'intero mondo di quel professore, ricordandosi di un altro detto che era diffuso tra gli umani, uno che riguardava gli elefanti e le stanze.
«Mi si perdoni l'intervento, ma l'Università ha firmato un trattato di neutralità alla fine della guerra,» intervenne all'improvviso la voce acuta di Lloyd, «i Knightmare Frame in nostro possesso sono stati disarmati e non svolgiamo attività di ricerca volte allo sviluppo bellico. Per quanto ci riguarda, il dipartimento non può né ostacolarvi né aiutarvi».
«Una presa di posizione come la vostra mi sembra in contraddizione con quanto dichiarato da Zero nel comunicato di ieri».
«Cosa ha detto?» ribatté subito Lloyd, con quella che non sembrava affatto una domanda retorica. Quando ricevette gli sguardi confusi di Mihara e dei suoi stessi colleghi, reagì con un ampio sorriso. «Non sono stato attento».
Mihara si passò una mano sulla testa, forse nella speranza di rispingerci dentro certi pensieri che erano nati anche in Kallen. Poi cliccò due volte con il mouse e riprodusse la registrazione del discorso, puntando immediatamente gli occhi sullo scienziato.
«Cittadini di Britannia. Oggi ricorre il quinto anno di pace, di fratellanza tra tutti i popoli uniti sotto la nostra bandiera. Nessuno di noi è più la pedina di una partita a scacchi: dopo la caduta di Lelouch vi Britannia, il nostro Paese non ha fatto altro che fiorire. Pertanto, voglio che questo mio discorso di oggi sia un messaggio di pace e un invito alla collaborazione».
Lloyd aveva accavallato le gambe e appoggiato il mento a una mano. La sua assistente, Cécile, portava tra le sopracciglia aggrottate i chiari segni della preoccupazione.
Lo scherno del telefono di Kallen non si era ancora illuminato.
«Le recenti sommosse nello Stato di Corea sono il segnale di uno scontento ancora vivo nella popolazione, perciò a nome di tutta Britannia io vi chiedo: sedetevi al nostro tavolo per trattare. Non siamo più la nazione di Charles e Lelouch, non siamo più la tirannia degli Imperatori. La nostra reazione alla minaccia è il dialogo. Da oggi l'ex Area 11, Giappone, per la sicurezza dei suoi cittadini riceverà più fondi per lo Sviluppo Tecnologico, in modo da favorire quel progresso che ci mantiene tutti uniti».
Mihara fermò la riproduzione.
«Oooh, ha davvero chiamato i pezzi degli scacchi "pedine"?» miagolò Lloyd, accavallando le gambe in un modo vistoso persino per l'inquadratura frontale che lo mostrava a mezzo busto, come il ritratto di un nobile.
È vero, Lelouch non lo avrebbe mai fatto, si trovò a pensare Kallen, e subito quella considerazione la infastidì. Si morse le labbra e tentò di scacciare ricordi inopportuni dalla mente. Erano le sette e ventotto.
Erano le sette e ventotto e Mihara parlava come un vero diplomatico. Come un vero padre che aveva perso il figlio al fronte, e perciò era animato dal desiderio plumbeo della vendetta.
«Lloyd, ha bisogno che le dica ufficialmente che si trova in pericolo?»
L'interessato si strinse nelle spalle e strinse la mano destra sul bicchiere che aveva nuovamente riempito d'acqua. In silenzio, con un gesto meccanico, lo svuotò e lo appoggiò sul tavolo. Quando rispose, aveva gli occhi bassi ma le labbra piegate in un falso sorriso:
«No, la ringrazio, non ne ho bisogno».
Sembrava che considerasse il suo rimanere in vita importante quanto l'andare o meno a una serata al pub. Kallen deglutì a vuoto. Davvero era quello l'uomo su cui si erano basate le sorti in guerra di Britannia?
«Professore,» intervenne Renault, in tono accorato. «Prima che risponda le ricordo che lei non deve più la sua lealtà all'esercito. L'università le...»
Nonostante un gesto tale non assumesse grande rilevanza in una riunione da remoto, Lloyd per interromperlo alzò una mano e la pose davanti alla telecamera.
«...Mi ha concesso di confidare nella riservatezza dei presenti,» disse, senza che la sua smorfia gli scomparisse dal viso. Poi si rivolse a Mihara: «Sì, sono disposto a collaborare con voi. Faccia la sua domanda. Valuterò se mi è possibile rispondere».
Il sedicente diplomatico giapponese, nascondendo a stento l'antipatia che provava per lui, fece ripartire la registrazione.
«Dichiaro da ora attivo il programma R nella capitale e in Giappone,» annunciò la voce di Zero. Quando Mihara la fermò, quella frase risuonò nelle orecchie di tutti.
Lloyd soffiò l'aria fuori dal naso, il principio di una risata nervosa.
«Il programma R?» ripeté, con enfasi e scandendo bene le parole. Aveva un accento particolare, che lo distingueva dagli altri britanni, ma che Kallen non avrebe saputo posizionare su una cartina. «Ah, non è possibile. Aveva voglia di scherzare».
«Professor Asplund,» lo riprese Mihara, con i denti stretti. «Le testate F.L.E.I.J.A. Non voglio sapere dove sono. Solo se ci sono».
«Oooh, quelle. Dismesse. Puf. Disarmate. Le hanno lanciate fuori dall'atmosfera».
Kallen abbassò lo sguardo sul tavolo, con le sopracciglia aggrottate.
«Credevo le avessero tenute come deterrente,» mormorò, ma nessuno sembrò sentirla. Con l'ennesimo gesto nervoso, premette il tasto laterale del telefono. Lo schermo, illuminandosi, le mostrò che non aveva messaggi. C'era qualcosa che continuava a sfuggirle.
Mihara stava continuando a parlare, delle scene del passato – un passato cremisi e violento – cominciavano a tornarle in mente.
«Pensa che non ci sia l'attuale rischio di minaccia nucleare?»
Lloyd si rigirò tra le mani un pacchetto di sigarette, poi lo usò per picchiettare distrattamente sul tavolo.
«No. Per quanto riguarda la sorte del progetto In Vogue, non sono al corrente di altro. Non ho avuto nessun ruolo al suo interno».
Su questo non mentiva, Kallen ne era certa senza bisogno di conferme esterne. Nina era stata molto delusa quando il suo caro professore si era rifiutato di unirsi al progetto di ricerca di Schneizel per ragioni morali. All'epoca, non si era certo soffermata a chiedersi se questo costituisse una sorta di ipocrisia; oppure se in qualche modo anche Lloyd si fosse sentito deluso da Nina, che invece dentro al progetto In Vogue si era gettata come un bambino in una piscina di palline. All'epoca i pensieri degli adulti avvenivano in un mondo a parte, del tutto irraggiungibile.
E dei ragazzini avevano fatto la rivoluzione, dei ragazzini avevano partorito la bomba. Gli adulti erano stati a guardare.
In quel momento, Kallen provava per Lloyd un sentimento imprevisto, in qualche modo simile alla compassione. Anche lei, camminando per Shinjuku con le mani in tasca e la fascia tra i capelli, aveva creduto che la magia dei sorrisi delle persone che aveva salvato avrebbe potuto lavare via il sangue dalle sue mani, e le colpe dalla sua anima. Allora pensò a Lelouch, che quelle colpe se le era portate tutte sulla schiena, fino a venirci ammazzato. Si chiese dopo quanto tempo dalla morte si smette di essere un ricordo e si diventa un fantasma. Poi guardò sullo schermo gli occhi stanchi di Lloyd e si chiese se qualcuno potesse diventarlo mentre era ancora in vita.
Nessuno di noi è pulito, professore.
«Che cosa sa di Lewis Carroll?»
La voce di Mihara fece piombare quella domanda nel silenzio impettito dei partecipanti alla riunione. Quel nome innocuo suonò come una minaccia.
Lloyd si scostò i capelli dalla fronte e il suo sorriso si allargò ancora.
«Oh, un autore molto pregevole!»
Il serrarsi della mascella di Mihara fu evidente come un lampo nel cielo notturno.
«Le ho detto quello che dovevo,» concluse. «Sa come contattarmi».
Kallen osservò attentamente i loro volti, quello severo di Mihara e quello indecifrabile dello scienziato. Quelle due sole parole, Lewis Carroll, aveva fatto calare tra loro l'ombra di una guerra fredda.
«Che la fortuna le sorrida, professor Asplund,» continuò il diplomatico, con il maggior distacco di cui era capace, «ne avrà bisogno».
«Oh, le donne non mi hanno mai sorriso un granché».
Un fastidio improvviso s'insinuò come una biscia nelle viscere di Kallen. Per anni aveva lottato con le unghie e con i denti in modo da farsi seguire dagli altri, aveva portato la luce e sopportato le ombre dell'essere un leader, e nessuno le aveva mai regalato niente.
E, a dirla tutta, quelle tenebre le doveva ancora sopportare.
Quell'uomo per cui provava pietà, invece, se ne stava seduto sulla sua cattedra da professore a trentacinque anni, perché la guerra da cui si era salvato non aveva lasciato altri che lui. Nato nobile, aveva anche avuto la possibilità di dire che l'alta società non gli interessava, anzi gli faceva un po' schifo.
Gli sarebbe interessata eccome se fosse stato l'ultimo degli stronzi a Shibuya.
Debole, inaffidabile, eppure senza neanche una pallottola in corpo. Più che sorridergli, le pareva proprio che la fortuna gli avesse dato un bel bacio in bocca con la lingua.
Ma più che questo, la sorprendeva che la gente seguisse una persona del genere, cinica e senza senso di responsabilità, in grado di fare ironia anche sulla morte.
Il suo flusso di pensieri fu interrotto dalla vibrazione del telefono, proprio quando aveva smesso di prestarvi attenzione. Trattenne il fiato quando vide che il messaggio era di Rakshata.
Finora è stato sincero, ma adesso sta mentendo.
Non è vero che non sa nulla di Lewis Carroll.
*
10 luglio 2015 a.t.b.
Distretto di Tokyo, Area 11
Se fossi un uccello, volerei
Sulle risaie pallide.
Naoto leggeva in continuazione quel libro illustrato. Diceva che da bambino l'aveva trovato una cosa da bambino, e da adulto una cosa grande. C'erano riproduzioni di opere ukiyo-e che accompagnavano le poesie.
Kallen strinse entrambe le mani sul calcio del mitra, si gettò con la schiena contro una grata e tentò di separare nella propria mente gli ordini ronzati dalla radio e le raffiche di armi lontane. Doveva arrivare al Glasgow prima che i britanni chiamassero i rinforzi e prima che la tracolla del fucile le segasse la spalla.
Se fossi primavera, arrosserei
Le guance dei ciliegi.
Aveva visto saltare in aria suo fratello, un giorno, e in un secondo era cresciuta di anni. L'esplosione lo aveva fatto a pezzi e scagliato via. Quello che Naoto era stato era ricaduto a terra sotto forma di carne molle e bruciata.
Per qualche contorto miracolo, il libro gli era sopravvissuto. Kallen lo aveva visto sull'asfalto, aperto su una pagina a caso, bagnato dalla pioggia: lì aveva capito che non sarebbe mai esistito perdono. Lei, con le proprie mani, avrebbe tinto di sangue le risaie e i ciliegi.
Con la schiena sempre addosso alla grata, la ragazza avanzò in una posizione innaturale, sentendosi schiacciare dal peso della sua stessa arma. Un parlottare concitato nei circuiti della radio, quasi un rumore di fondo. Colpi esplosi nella direzione dove stava andando lei.
Raggiungere quell'hangar era troppo importante, la sua unica speranza di rinascere. Raggiungerlo prima degli altri, prima che capissero che era un'infiltrata bambina con in testa la fascia di suo fratello, era fondamentale. Con quel Glasgow avrebbe avuto una speranza di vendetta. Senza, avrebbe anche potuto pensare di buttarsi da un ponte e finire dov'era andato Naoto.
Kallen imbracciò il fucile, trattenendo un gemito quando la spalla le inviò una fitta di dolore, e sparò dritto davanti a sé, verso le figure britanne che correvano. L'aveva fatto più per spaventarle che per colpirle davvero: Il fischio dei proiettili che andavano a schiantarsi contro la grata era rassicurante.
Una figura britanna, però, cadde a terra. Kallen ricaricò il fucile prima di correre avanti.
Magari era un ragazzo come lei.
No, non esistevano ragazzi come lei in Britannia, e quella gente non possedeva nemmeno il metro del suo dolore.
Io non ho chiesto di nascere in un mondo del genere, pensò, mentre deglutiva a fatica e passava a fianco a qualcosa immobile per terra. Non pretendete che lo lasci come l'ho trovato.
L'hangar era a pochi passi, la porta scardinata dall'esplosione di un ordigno e la saracinesca sbudellata. Solo il gocciolare insistente di una grondaia accompagnava i movimenti cauti della ragazza.
Resistendo alla stanchezza, lei puntò la torcia del fucile tutt'attorno, attenta a non farsi sfuggire né un'ombra né un rumore. Senza nemmeno respirare, illuminò l'antro della bestia colonialista, e pregò che ci fosse davvero un Frame abbandonato da quelle parti. Prese aria solo quando cominciarono a farle male i polmoni. Era dolciastra.
Le persone mentivano, ma i radar non lo facevano mai. Alla fine del capannone vuoto c'era un gigante di ferro che, immobile, torreggiava nel vuoto. Il moto nell'animo di Kallen fu tanto forte da farle dimenticare la prudenza, e cominciare ad avanzare a passi rapidi.
Quello non era come tutti gli altri Glasgow che aveva visto. La vernice, scura come ogni altra cosa nel buio, inviò un riflesso cremisi quando fu illuminata dalla torcia. Un modello customizzato.
L'impatto del metallo al suolo, accanto ai suoi piedi, la fece saltare come un gatto colto di sorpresa. Strinse il suo coltello e si voltò, solo per vedere un uomo riverso nel suo stesso sangue, con un braccio proteso e un pugnale a poca distanza dalle dita. Aveva cercato di colpirla con le ultime forze che le erano rimaste, poi la sua faccia era ricaduta sul pavimento. Aveva i capelli chiari e indossava l'uniforme di Britannia. Qualcosa gli aveva reciso l'arteria femorale.
Kallen sentì salire un doloroso bruciore in gola e mosse qualche passo indietro.
"...ore?" gracchiò una radio che non era la sua.
Non si muoveva. Avrebbe dovuto controllare se respirava, prestargli soccorso? Oppure dargli il colpo di grazia? Cosa avrebbe fatto Naoto? Cosa facevano gli adulti?
"...i sente? Maggiore Carman, mi sente?"
Kallen afferrò una gamba della gigantesca armatura da combattimento e la usò per issarsi verso la postazione di comando, all'altezza del petto del Frame. La voce di una donna, marziale e preoccupata assieme, continuava a chiamare il poveretto a ormai tre metri di distanza da lei.
"Ma-"
La lama del coltello di Kallen pose fine almeno a quella agonia. Per un istante, una scintilla fuoriuscita dai cavi tranciati illuminò l'abitacolo del Glasgow. Una plancia, colonne di bottoni, leve di cui la ragazza poteva solo intuire il funzionamento. Solo di una cosa era sicura: sotto la chiave d'accensione, che il Maggiore Carman aveva lasciato inserita quasi sperasse che qualcuno ereditasse il suo Frame, c'era il nucleo di fusione.
Con i denti stretti e un movimento deciso del polso, Kallen estrasse il cilindro che lo conteneva. Fu abbagliata da una luce rosa, intensa come quella di un tramonto. Sakuradite. L'oro del giappone, il motivo per cui Britannia aveva raso al suolo la loro terra, ora animava la macchina della sua vendetta. Kallen spinse di nuovo il nucleo nel suo vano, girò la chiave e sullo schermo davanti a lei apparve un semicerchio che le indicava che la batteria a fusione era carica per poco meno di metà. Il computer di bordo cominciò a sciorinarle una serie di parametri, e lei strinse la cloche. Il Glasgow era vivo.
Ed era suo.
E forse non poteva andare là dove era finito Naoto, ma poteva portarla in ogni altro luogo.
Qualcuno chiamò qualcun altro alla radiolina che portava fissata alla giacca. Sentì un vociare, dei passi nell'hangar, ma ormai era tutto ovattato, come se fosse sul fondo di una piscina. Forse era il sangue ardente che le infiammava l'animo.
Una persona piccola piccola, ai suoi piedi, si sbracciò per farsi notare. Lei sapeva solo farlo camminare, quel Frame, eppure la sensazione di superarla degnandola appena di un'occhiata, come si fa con un segnale stradale, la fece sentire onnipotente.
Fuori dall'hangar, una falce di luna illuminava appena il cielo, offuscando qualche stella. Gli steli d'erba si piegavano dolcemente al vento, si arrendevano sotto le piante dei piedi del Glasgow, pronti a rialzarsi il giorno successivo. La notte trascinava le nuvole e portava via l'odore della guerra.
In un modo o nell'altro, il mondo stava cadendo a pezzi.
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