Chase the Wind (I)
<Buongiorno.
È opinione comune, di questi tempi, che il mondo stia per finire. Quindi per oggi tornate a casa, indossate il vostro completo migliore e concedetevi una bella cenetta.
Smettetela di stare qui ad ascoltarmi, andate!
Oh, come dite? E se la freccia non si rompe?
Beh, se la freccia non si rompe siamo tutti salvi. Ma perché siete ancora qui a pensare ai se e ai ma? Forza, andate! La vita non aspetta nessuno!
In ogni caso, il tempo si prevede sereno, con locali addensamenti in serata.>
And aah
That full-bellied moon, she's a-shinin' on me
Yeah
She pulls on this heart like she pulls on the sea.
And aah
She's shinin' on, shinin' on me,
Yeah
And those broken-hearted lovers
They got nothing on me.
(Gregory Alan Isakov)
<Il tempo si prevede sereno, con locali addensamenti in serata>. La frase più rassicurante che possa uscire dai circuiti di una radio.
Dopo averla sentita, il corpo di Kallen Kōzuki in qualche modo si rilassò fino al midollo. Seduta a gambe larghe sul sedile del guidatore, leccò la cartina della sigaretta e terminò di girarla, mentre la radio la confortava ulteriormente sulla situazione del traffico sulla A102.
«Sì, domani in serata. Certo, arrivederci».
Quando la porta del passeggero si richiuse, e un gesto muto le annunciò che bisognava ripartire, Kallen si infilò la sigaretta dietro all'orecchio come un vecchio capocantiere. Alzò lo sguardo al cielo, dove i locali addensamenti riflettevano il più roseo dei tramonti. Da qualche minuto una melodia nota, un ricordo d'infanzia, le accarezzava le orecchie coi suoi giri ripetuti di accordi.
<Helter skelter in a summer swelter, the birds flew off with a fallout shelter...>
Una foglia secca si librò per un istante in un refolo di vento, per poi planare di nuovo al suolo.
Mentre il motore faceva vibrare il sedile sotto di lei, Kallen aggiustò lo specchietto appeso sopra al cruscotto. Vi scorse l'immagine del suo cliente che, estratto un pettinino dalla tasca della giacca, si stava sistemando la riga dei capelli impomatati.
Katsuro Mihara, diplomatico giapponese, non era un tipo di molte parole. Si era presentato all'agenzia in cerca di una guardia del corpo, e aveva chiesto esplicitamente di Kallen. Quella tendenza al silenzio era una benedizione, dato che la ragazza in questione avrebbe avuto ben più di una discussione da intavolare sullo stato del Giappone dopo lo Zero Requiem. Avrebbe potuto parlare per ore di come a lei e ai suoi non fosse stato riconosciuto pressoché nessun merito, tanto che erano costretti a fare da scorta a politiconi come lui per riuscire a sbarcare il lunario.
Loro, che erano stati i Giapponesi.
Loro, che avevano combattuto in prima linea perché il tondo sole rosso potesse sventolare sulle bandiere.
Era meglio stare zitti.
Del resto, l'unica informazione rivelatale da Mihara era stata che qualche mese prima, raggiunta quell'età in cui la vita chiedeva di tirare un po' le somme, si era accorto di essere felice di due cose.
Una era la coltivazione idroponica di pomodori che era riuscito a installare in casa, l'altra il fatto che la sua famiglia – a cui lui aveva contribuito con tre pargoli e due divorzi – era depositaria dell'antica tradizione della cerimonia del tè. A queste se ne sarebbe aggiunta una terza se fosse riuscito, durante il Tea Party di quella sera, a confermare l'esportazione dal suo Paese di enormi quantità di tè Matcha per soddisfare i palati dei nobili di Britannia. Allora ogni cerchio si sarebbe chiuso e Mihara avrebbe trovato l'armonia che cercava.
Kallen distolse per un istante gli occhi dalla strada, che sfrecciava davanti a loro sempre uguale, e lo osservò detergersi con un fazzoletto di stoffa la faccia, piuttosto simile a una maschera da teatro kabuki.
<We all got up to dance, oh, but we never got the chance.>
Al casello dell'autostrada, Kallen abbassò il finestrino e tamburellò con le dita sul volante a ritmo di musica. Pensò a Ohgi, a come lui, incurante del cliente sul sedile del passeggero, avrebbe cantato a squarciagola, i capelli al vento e la bandana ben stretta sulla testa. Avrebbe elencato a memoria tutto ciò che era successo il giorno in cui la musica era morta.
Quando sarebbe stato il loro turno di indossare un bel cappotto di legno, qualcuno avrebbe scritto qualcosa del genere in loro memoria?
Di certo nessuno si era preso quel disturbo per gli alberi, le case e le anime cinque anni prima. Le campagne fuori da Pendragon, la capitale che era risorta come una fenice dalle sue stesse ceneri, erano ancora riarse come il cuore di un vecchio generale.
Il cratere arrivava quasi fino ai bordi della strada, dove solo l'ultima retroguardia di cactus opponeva la sua strenua resistenza. Mentre il cielo mostrava sfumature di un arancione acceso, la terra invece, tra la sabbia e la cenere, doveva pagare il prezzo della libertà.
Per molto tempo ancora nulla sarebbe cresciuto, se non qualcosa di deforme.
<Do you recall what was revealed the day the music died?>
«Mi chiedevo,» disse Mihara all'improvviso. Kallen quasi sobbalzò, dal poco che era abituata a sentire la sua voce. «Come fanno a Pendragon con l'aria?»
E voi a Tokyo come fate con l'aria?, fu sul punto di domandargli lei, ma poi si trattenne. Sentiva che lui non avrebbe saputo risponderle. Che era uno dei bastardi che si erano rintanati sottoterra. Ah, l'idroponica!
«L'Imperatrice Nunnally,» la voce di Kallen, in un moto incontrollabile, s'addolcì quando pronunciò quel nome, «ha fatto sviluppare una sorta di cupola per proteggere la popolazione. Dei purificatori, credo».
La ragazza si schermò il viso dalla luce violenta del sole e lasciò cadere il discorso. Non avrebbe saputo fornirgli più dettagli, dato che non le era mai interessato di come funzionasse la tecnologia, purché funzionasse.
In pace e in guerra.
Del resto gli intrighi di corte, a Britannia, avevano sempre riguardato anche i giocattolai con il camice: Kallen aveva nel suo database qualche nome e sparute informazioni biografiche, ma la sua regola era di non essere mai troppo coinvolta nelle faccende che non la riguardavano.
In quel momento, però, un testardo flusso di coscienza stava imponendo al suo cervello il ricordo dell'Istituto Ashford. Rivide la sala del Comitato Studentesco, e Nina dietro al suo computer, con le spalle curve in avanti come una ragazzina che vuole nascondere il seno che le sta crescendo. Con le trecce e gli occhiali spessi, come la coprotagonista di un romanzo per adolescenti.
Kallen sobbalzò nel sentire un'interferenza alla radio. Per un istante, le parve che dagli altoparlanti dell'auto uscisse la voce sottile di Nina.
<fzzz... krrr...> diceva, <mi ha promesso che verrà... lui... krrr... ha detto che ha un regalo da farmi>.
La mano di Kallen scattò sulla manopola e tentò freneticamente di girarla. Le sue dita scivolarono e la canzone continuò, pacifica, a navigare tra i suoi vecchi accordi:
<Singin' "this'll be the day that I die"...>
«Notevole,» stava dicendo Mihara, accarezzandosi il mento squadrato mentre guardava, all'orizzonte, uno stormo nero d'uccelli. Poi, non contento, si passò una mano sui baffi come in un rituale antico.
«Opera di Nina Einstein, credo,» sentì l'urgenza di aggiungere Kallen.
Per lo meno, credeva che Nina fosse ancora a capo dello Sviluppo Tecnologico di Britannia. Sapeva per certo che anni addietro, dopo la fine della guerra, quel professore di cui non ricordava il nome s'era – metaforicamente parlando – fatto fuori da solo. Con un notevole aiuto da parte dei vertici di Britannia.
Sì, la sua eredità doveva essere passata a Nina.
«Einstein. Bel cognome».
«Bel cognome,» confermò Kallen, guardando se stessa in faccia attraverso lo specchietto. La ragazza dagli occhi blu aveva un gran bisogno di dormire. Da anni.
Senza nascondere un sorriso soddisfatto quando guardò l'autostrada da cui si stavano allontanando, punteggiata dai fari delle macchine ferme in colonna, Kallen abbassò il finestrino. L'aria della sera entrò nell'auto assieme a un vago odore di sterco e petrolio, agitandole i capelli come ciuffi d'erba rossa.
«Le dispiace se fumo?» domandò lei al signor Mihara.
«Prego. Lo facevo anche io alla sua età, sa. Buffalo Land, quelle col pacchetto nero. Poi il dottore m'ha fatto smettere».
La deviazione che avevano preso, e che avrebbe permesso loro di arrivare in orario al ricevimento, passava per la periferia di una città abbandonata. Attorno a un'armatura Frame senza un braccio – un vecchio modello Sutherland, notò Kallen – si annodavano i residui dell'ottovolante. La ruota panoramica non c'era, e a lei piacque immaginare che si fosse staccata dal perno e fosse rotolata via, libera per la Baja California. Senza una meta.
Come la Britannia.
Come lei.
«Un gran peccato,» stava commentando il suo cliente.
Kallen appoggiò un gomito sul finestrino semiaperto e prese un tiro dalla sigaretta. La brace, nella penombra rischiarata dai lampioni, fece l'occhiolino all'ottovolante. A quel vecchio colosso di Rodi intrappolato tra le sue spire, che in quel momento sembrava reggere il mondo intero; compresa Pendragon in cui andava tutto bene.
«Un gran peccato».
La strada che passava attraverso il deserto artificiale si restringeva all'improvviso, per il frutto di una mancanza non di spazio ma di fondi da parte del Governo Restaurato. La lancetta del tachimetro, che fino a quel momento era rimasta ferma sulle 80 miglia orarie, subendo solo qualche vibrazione, fu costretta a retrocedere.
Dei grandi fari rossi, ben distanti l'uno dall'altro, avanzavano inesorabilmente verso Kallen.
«Ah, dannazione,» commentò lei, fulminando con lo sguardo il vecchio camion che, davanti a loro, proseguiva a passo d'elefante. «E muoviti!»
All'improvviso, l'aver lasciato l'autostrada a favore della tranquilla campagna non le sembrava più una buona idea. Ormai era troppo tardi per tornare indietro e, nonostante mancassero diverse ore al ricevimento, nella disgraziata ipotesi che quel camion fosse diretto a Pendragon avrebbero subito uno spiacevolissimo rallentamento.
Kallen sentì un fastidioso prurito in tutto il corpo. Si accorse – era una sensazione di pancia, quasi infantile – che non le piaceva tanto stare in macchina con quell'individuo.
«Dai, dai...» mormorò ancora, come se un incoraggiamento potesse funzionare. Era talmente vicina al camion che i fari della sua auto, rimbalzando sulle buche, illuminavano come due riflettori una scritta in stile vintage.
Orange Parlor, Avinhon.
«Ora sì che sembra di essere in Giappone,» osservò il signor Mihara all'ennesimo sobbalzo sull'asfalto dissestato. «Sulla strada di casa!»
La sua risata roboante, improvvisa e inaspettata, riempì l'abitacolo. Kallen inarcò le sopracciglia e fece scorrere i palmi, coperti da guanti di cuoio liscio, sul bordo del volante. Non pensava che gente come lui avesse un senso dell'umorismo.
<They caught the last train for the coast the day the music died.>
Forse se suono si dà una mossa, si trovò a pensare Kallen, una mano che tambureggiava nervosamente sul volante e l'altra che aleggiava sul clacson come uno yūrei vendicativo. Si morse le labbra.
Sì, adesso suono.
Appoggiò la mano sul clacson con la stessa energia con cui, un tempo, aveva fatto con quel grande bottone rosso che faceva partire i missili dalle braccia del suo Guren.
Al suono del clacson, proprio come allora, un boato riecheggiò nell'aria. Kallen sgranò gli occhi: ma era davvero rosso, quel bottone?
Si sa che da sempre i bottoni per sganciare i missili balistici sono rossi.
Però c'era qualcosa che non le tornava. Forse era quella familiare sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco, forse il fatto che centinaia – o migliaia – di sfere perfette erano sospese a mezz'aria. In un tempo dilatato, cadevano verso di lei. I suoi bulbi oculari sembravano ormai stare per schizzare via dalle orbite.
<Bye, bye, miss American Pie
Drove my Chevy to the levee, but the levee was dry.>
Ma certo, arancione!
Il bottone a bordo del Guren era arancione!
Come la cascata di arance che, rovinando giù dal camion della Orange Parlor, un travolse il mezzo che Kallen guidava. Un po' dei frutti si fermarono e un po' si misero a rotolare, senza una meta, in giro per la Baja California.
<And them good old boys were drinking whiskey and rye
Singing, "This'll be the day that I die".>
Si ritiene ora necessario presentare un altro personaggio. Jeremiah Gottwald, un tempo Margravio Jeremiah Gottwald, aveva servito nell'Esercito di Britannia all'interno dell'Area 11, Giappone.
E dopo varie vicissitudini aveva detto addio alle armi, s'era ritirato e aveva cominciato a coltivare le arance nella bella Provenza. Non un nobile lavoro, ma un lavoro che nobilita, e forse gli avrebbe permesso – tramite il dono di piccoli omaggi all'élite – di ottenere fondi per la coltivazione e la possibilità di acquistare terreni pubblici, in modo da aiutare l'economia di Britannia.
Tuttavia, purtroppo i piccoli omaggi all'élite erano appena rotolati giù dal rimorchio, lasciato inavvertitamente aperto per una fatale disattenzione.
«Dici che siamo nei casini, eh, Jerry?» esordì la voce monocorde di una ragazza, una volta che il boato fu svanito. Alzò appena gli occhi dalla cartina che teneva in mano e si rassettò i capelli rosa e i vestiti maschili che indossava. Riaprì la bocca, ma le sue parole furono coperte da un grido ferale.
«Jeremiah,» provò a dire, guardando il volto dell'amico, deformato dal terrore. Stava tenendo convulsamente la maschera di rame che gli copriva per metà il viso, e i suoi occhi tentavano di spingersi oltre il finestrino, ostacolati dalla massa gargantuesca del camion e delle arance a terra. «Jeremiah, non...»
«Anya, cazzo, c'era qualcuno dietro di noi!»
La ragazza appoggiò la cartina stradale sulle ginocchia.
«Cosa?»
«Ho sentito un clacson, poco prima che...» farfugliò Jeremiah, aprendo la portiera e precipitandosi fuori dal mezzo. «Cazzo, cazzo...» continuava a ripetere, vagando nel mare di arance, «non sono un assassino...»
Anya lo imitò all'istante e saltò giù dal camion. I frutti erano talmente tanti da rendere difficile camminare.
«Jerry!» gridò, per poi appoggiare il piede sul corpo sfracellato di un'arancia e quasi perdere l'equilibrio.
«Troppe arance... non abbiamo chiuso bene il rimorchio e qualcuno... oddio...»
Jeremiah, mormorando frasi sconnesse, si morse le dita e cominciò a strapparsi via le unghie, mentre cercava qualche traccia in mezzo a quello sfacelo. La voce di Anya, preoccupata, continuava a ripetere il suo nome, ma lui a stento la sentiva.
Non voleva che fosse successo davvero. Sperava di essersi sbagliato, che quel suono non fosse un clacson, ma il richiamo di qualche uccello esotico.
«C'è qualcuno? Mi sentite?» gridò al vento.
Jeremiah Gottwald era stato un soldato, ma non era un assassino. Era solo un fattore che amava i suoi alberi, e veniva ogni anno ricompensato dal loro raccolto che aveva il colore del tramonto e il profumo del passato.
Perché era successo proprio a lui? Forse era quella terra che era maledetta: non sarebbe mai dovuto tornare nella capitale.
«Sorellina, chiama i soccorsi!»
«Ma...» obiettò Anya, alzando l'indice.
«Non m'importa! Dobbiamo...»
Lui desiderava soltanto una vita tranquilla in mezzo ai filari di viti e ai campi di lavanda. Voleva coltivare la frutta con Anya e respirare l'odore che ogni tanto arrivava dal Mediterraneo.
Per un veterano dall'anima frammentata, dal corpo rattoppato da innesti che lo avevano spinto più volte a chiedersi se poteva ancora definirsi umano, lavorare per donare qualcosa di buono al mondo era l'unica ragione di vita.
E l'idea di aver, di nuovo, strappato via a quel mondo una persona avrebbe potuto distruggerlo, se non respirava lentamente.
«Aspetta,» stava dicendo Anya, con l'indice puntato davanti a sé, «guarda lì!»
Jeremiah deglutì. Doveva respirare lentamente e pensare alle arance. Quelle meravigliose perle d'ambrosia che nutrivano i mortali e li dissetavano.
Ripercorse con la mente tutte le giornate passate a raccoglierle con i cesti e, con ancora più affetto, le ore spese nel capanno della fattoria. Con il coltello in mano e la terra umida sotto le unghie, cercava di creare quell'ultimo innesto. Quello che gli avrebbe donato una pianta che in un certo senso gli somigliava, e sui cui rami maturavano i frutti perfetti.
Sognava lo stupore dei botanici e le coccarde degli agronomi. Li vedeva in una sala dagli alti soffitti di legno, festanti, che lo acclamavano.
Gli dicevano che lui, Jeremiah, aveva creato una varietà incredibile, impareggiabile d'arance, con la polpa di rubino e la buccia che si staccava con uno sforzo dolce, alla sola pressione di un'unghia.
Del resto, quando si arrivava al fondo delle cose, ci si rendeva conto che il mondo era proprio come un'arancia. Era coperto da un involucro colorato, lucido e sfavillante, e all'interno aveva un cuore rosso che dormiva.
Ma se uno si prendeva la briga di incidere la superficie, piano, senza fare uscire il sangue, allora scopriva che le cose non erano semplici come sembravano.
C'era un secondo involucro più sottile, bianco e amaro, che somigliava alla sofferenza.
«Ma che cosa...»
E così, coperta solo dall'albedo, l'arancia sbucciata diventava l'occhio vigile di un grande Osservatore.
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