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Capitolo 8: La coppia pazza

L'arco era bello che teso, dovevo solo scoccare, ma la sua balestra era carica, sarebbe stata più veloce della mia arma.

I battiti del mio cuore accelleravano mentre io, disperato, cercavo una soluzione, un modo per salvare me e gli altri, ma ben presto mi accorsi che non avevamo scampo.

Sparò, iniziai a pensare fosse finita, immaginavo già la freccia che mi si conficcava nella carne, invece per poco l'idiota non se la tirò su un piede.

Una seconda immagine si avvicinò al primo soggetto.

«Padre, potevi ammazzarli!», la voce era femminile, una bella tonalità devo ammettere, sembrava fosse stata una sirena a parlare.

«Lo so, piccola mia, volevo solo spaventarli», Ritair provò a formulare una domanda: «Che cosa volete?», il padre della "piccola" rispose: «Cibo, per favore!».

Le due figure iniziarono ad avvicinarsi, ora ch'erano lontani dai raggi solari potevo farmi un'idea sul loro aspetto.

Si trattava di due elfi, il maschio possedeva dei lunghi capelli dorati e degli occhi verde acqua, devo dire che su quel viso rugoso quella fossetta non ci stava per niente bene.

I capelli, castano chiaro, della femmina gli arrivavano alle spalle, i suoi occhi erano celesti e il suo mento appuntito assomigliava tanto al mio, con la differenza che era un orecchie a punta e che si trattava di una lei.

«Possiamo darvi del cibo!», Etalio li incitò ad avvicinarsi, speravo solo non fosse un tranello per derubarci, ma l'elfo era troppo goffo e imbranato, la ragazza invece s'era pericolosa non potevo saperlo.

Una volta davanti a noi Etalio pensò a dare a entrambi qualche pagnotta e qualche pezzo di carne del velenoso.

Ora potevo vedere meglio anche cosa indossassero, la femmina una tunica bianca ricamata in oro, il padre invece portava una cotta di maglia.

Grazie agli abiti della giovane non mi fu difficile intuire che fossero dei nobili, ma che ci facevano tutti soli nella Grande Foresta?

«Come vi chiamate?», mi azzardai a chiedere, «Aene», rispose l'elfo maschio, «Esyl», mi rispose l'altra.

Poi fui io a presentarmi: «Sono Olwin», dopodiché indicai gli altri tre membri del gruppo, «Lui è mio fratello Etalio, mio zio Ritair, e Anfel».

«Molto lieto, siamo diretti a Nobor!», spiegò Aene, ma questo mi sembrava abbastanza ovvio, dato che eravamo proprio sulla via della città dei profughi.

«Anche noi siamo diretti a Nobor», li informò mio fratello.
«Oh bene! Vi va un po' di compagnia?», domandò euforica la ragazza.

Prima che il mio consanguineo potesse aprir bocca e dire qualcosa di offensivo sulla razza elfica intervenne mio zio, «Perché no?», appena udite quelle parole quei due strani individui tornarono al loro puledro bianco e montarono in sella.

«Mettiamoci in viaggio allora!», disse entusiasta l'elfo maschio.
E così salimmo anche noi in groppa alla nostra cavalcatura, continuammo il nostro viaggio con quegli elfi che galoppavano al nostro fianco con due enormi sorrisi stampati in faccia, era Aene a tenere le redini del loro cavallo.

Sembrava si stessero divertendo parecchio, come se fossero in una di quelle leggende sui forestieri che facevano il giro del mondo.
"Molto bizzarri per essere dei nobili", dissi dentro di me.

«Ma sono normali quelli?», borbottò Etalio quando Esyl iniziò ad emettere delle piccole grida euforiche e Aene fece impennare il cavallo tanto perché gli andava.

Rimangiai ciò che avevo pensato sull'elfo, poteva essere pericoloso, e anche sua figlia, non mi sembrava che ci stessero bene con la testa.

Ebbi un altro brutto pensiero su quei due: "Chissà quante ne hanno fatte passare a quel povero puledro".

A forza di sentire quegli strillii mi entrò persino il mal di testa, non dovevamo acquistare dodici ore di vantaggio per allontanarci da quelli, ne dovevamo guadagnare ventiquattro.

***

Il momento più difficile fu la notte, quando fummo costretti a fermarci.

«Mi sa che sarà una lunga nottata», commentò mio fratello, sarebbe stata davvero una "Lunga nottata", con tutta probabilità aveva portato l'uccello del malaugurio.

Aene prese qualche ramoscello che teneva in una faretra che portava in spalle e chiamò Esyl: «Vieni piccola, accendi il falò!», ella obbedì: si inginocchiò davanti alle legna e con un piccolo movimento delle dita creò un fuoco, era una maga, dunque.

Nella mia mente tentai di formulare questa domanda: "Chi metterebbe dei ramoscelli in una faretra al posto delle frecce?", speravo di ottenere la risposta tramite un dialogo interiore ma non riuscii nel mio intento.

«Esyl, piccola mia, fa' vedere ai nostri nuovi amici come canti bene!», il povero Ritair tentò di essere il più delicato possibile: «Potremmo rimandare tutto questo a quando avremmo raggiunto la nostra meta? Mi dispiace rovinarvi la festa ma dobbiamo riposare e durante le ore mattutine dovremmo proseguire».

La ragazza sembrava che non l'avesse nemmeno sentito, iniziò a muovere freneticamente i fianchi e a fare delle giravolte intorno al falò, dopodiché iniziò a cantare: «Vedo il metallo dentro i tuoi occhi, lo sai? È buffo ma non riesco a immaginarti senza una faretra in spalla e un arco in pugno, lo sai? Combatterai, per noi tu ci sarai!
Orogher, non indietreggierai mai!
I demoni fermerai! Orogher.

Probabilmente era una vallata di qualche antico mito a me sconosciuto, la sua voce era splendida, sarei rimasto ore lì ad ascoltarla, di giorno però.

Mentre ella proseguiva con la canzone tentai di assopirmi, ci riuscii ma venni di nuovo svegliato da quella maledetta cantilena, provai a dormire altre tre volte, l'ultimo tentativo ebbe successo, fortunatamente.

Giorno: 25 Zenluvia

Anno: 1018

Quando le mie palpebre si alzarono mi ritrovai l'elfa in faccia.

«Sveglia dormiglione! Gli altri erano attivi già prima dell'alba», «Forse perché non abbiamo neanche chiuso occhio», Etalio parlava a voce alta tra sé e sé.

Dopo essermi messo in piedi per prendere un pezzo di carne dalla sacca di mio fratello, ch'era legata ai fianchi della nostra cavalcatura, mi sedetti sul morbido terreno accanto all'elfa.

Volevo conoscere meglio la pazza coppia con cui avevamo a che fare.

«Allora, Esyl, raccontami un po' di te», «Non c'è molto da dire, sono una nobile», «Questo l'avevo intuito, ma cosa ci fanno due elfi, a cui il denaro non manca, nella via per Nobor?».

«In realtà il denaro ci manca. Io e mio padre siamo sempre stati due tipi allegri, mia madre Issez invece amava l'oro e la bella vita».

«Amava m'hai detto, è morta?»,
si piegò in due dalle risate, «Ma no, sciocco! Ha divorziato. Lei voleva un bel castello a Rokus, io e il mio vecchio invece desideravamo essere sporchi di sangue, star coi contadini, cacciare!».

«"Il mio vecchio", ho dato anche io questo soprannome a Ritair, degli studiosi scrissero qualcosa a riguardo, così ho deciso di mettere lo stesso nomignolo a mio zio».

«È un soprannome che veniva usato dalla civiltà dei palazzi di metallo, ma viene usato per i padri non per gli zii!», «Ora capisco».

Il dialogo che stavo avendo con la bella ragazza venne interrotto dal nitrio d'un cavallo, si trattava dell'animale da sella di Aene, egli aveva fatto impennare nuovamente la bestia.
«Andiamo, piccola, la pausa è finita!», l'elfa non esitò a salire in groppa alla cavalcatura, feci lo stesso con la mia così come anche Ritair, Etalio e Anfel.

Con lo scorrere del tempo atterrarono parecchi volatili sulla via quella mattina, per ogni pettirosso, falco, o piccione la fanciulla non resisteva senza esclamare a squarciagola: «Oh che carino!».

***

La linea di terra piana era finita,
dopo essere passati di fianco a numerosi villaggi dinanzi a noi iniziarono ad esserci un discreto numero di falò e una miriade di tende.

V'erano delle grosse rocce dietro ai vari accampamenti, ciò poteva essere utile per avere un po' d'ombra.

C'eravamo, eravamo alla città dei profughi, quella era Nobor!

La mia mente tornò al mio villaggio, a ciò ch'era accaduto, ma l'importante era essere vivi, il resto si sarebbe sistemato con l'avanzare degli anni.

Col tempo avrei svolto dei lavoretti a Nobor, avrei guadagnato qualcosa, il necessario per avere un tetto altrove, un'abitazione che non fosse alla città dei profughi, un rifugio che non fosse una tenda.

Un ragazzo con addosso una tunica marrone ci venne incontro, i suoi capelli color rame alla luce dei raggi solari parevano fatti di bronzo.

«Vi servono delle tende?», ci chiese, fu Ritair a rispondere: «Ci occorre un rifugio, sì».

Scendemmo di sella tutti quanti, inclusi Esyl e Aene, l'individuo dai capelli ramati portò le nostre cavalcature in una "stalla", (altro non era che un piccolo tugurio in pino), una volta fatto ciò ci accompagnò alla nostra tenda, (anticipo che, purtroppo, un paio di anni più tardi i poveri cavalli morirono per la mancanza di cibo e acqua).

Durante il tragitto vidi donne che piangevano o perché i loro figli più grandi erano caduti in guerra o perché la loro prole più piccola era morta di febbre, vidi umani ed elfi azzuffarsi per un misero pezzo di formaggio, ma soprattutto vidi dei cadaveri distesi in una pozza di fango, abbandonati là, senza neanche un poco di rispetto, non v'era tempo per tali privilegi.

Forse l'entusiasmo di Esyl era un po' svanito, dato che non la sentivo più sghignazzare e urlare per l'euforia.

Una volta che ci ebbe condotti a un rifugio il nostro accompagnatore tornò ai suoi doveri, ovvero sfamare e dissetare i vari membri della tendopoli.

Mi distesi su uno dei giacigli in paglia all'interno del mio accampamento, tanto per riposare un poco i piedi.

Con noi, dentro a quella tenda, v'era una donna bruna occupata a tranquillizzare il suo bambino.

Nella faccia del piccolino erano presenti degli enormi bubboni viola, (speravo solo che non contagiasse anche noi).

«Mamma, mamma!», «Andrà tutto bene, piccolo mio, vedrai che troveremo un rimedio alla peste», ma non sembrava credere neanche lei stessa alle proprie rassicurazioni, e quelle lacrime che le colavano giù dal viso n'erano la conferma.

Purtroppo quando ci si sdraia e il corpo si rilassa la nostra mente vaga, è ciò che successe a me: non riuscivo a rimuovere le immagini dei morti che avevo visto nel mio paese e lì a Nobor pochi istanti prima, tutto questo non era giusto, non ero pronto, avevo diciassette anni dopotutto, ero un ragazzo.

Mi sforzai di pensare solo alle cose positive, Etalio ci riusciva ogni volta, con un poco d'allenamento mentale ce l'avrei fatta anch'io, ne ero convinto.
Il giorno seguente mi avrebbero dato il primo incarico, probabilmente avrei distribuito piccole porzioni di cibo e qualche recipiente d'acqua ai vari profughi.

Quella "città" era una tendopoli che non riposava mai.

Ed ecco che la mia mente tornava a quei selvaggi: chi voleva illudere Walgrid? Gli emilciei erano una tempesta di sabbia che avanzava violentemente verso sud, ebbene quella tempesta non sarebbe stata un pericolo, non se una pioggia di fuoco non ci avesse indebolito prima.

Vi sono sempre state guerre, e la maggior parte di esse sono scoppiate proprio grazie a Kalarsmit stessa.

I cittadini senza una casa presumevo che aumentassero ogni giorno là a Nobor, ed era grazie a questi spargimenti di sangue che si ritrovavano senza un tetto.

No, basta, dovevo pensare alle cose positive.

Avrei guadagnato qualche dragone distribuendo cibo ai senza tetto come me e sarei riuscito a comperare una casa, saremmo riusciti a comperare una casa, io, mio zio e mio fratello.

Non ci riuscivo, la mia testa tornava sulla morte, tornava sui disaccordi vari che c'erano stati tra le tre nazioni.

Infine la mia mente andò sui mostri di Aok: in verità i demoni che colpa ne avevano se eravamo così stupidi? Non sono stati loro a dividere il mondo, siamo stati noi con le nostre manie di potere e il nostro fanatismo, le creature di Aok avevano usato ciò a loro vantaggio, avevano semplicemente sfruttato una buona occasione.

Zaykia era divisa già da prima il ritorno dei demoni.

Serrai i pugni con tutta la forza che avevo, adesso provavo rabbia.

Gli emilciei avevano distrutto il mio villaggio per cosa? Per l'oro, per conquistare Kalarsmit?
Tutti noi esseri di Zaykia, eravamo veramente così diversi dalle creature che temevamo? Non ne sono del tutto convinto.

L'era di sangue è nata a causa nostra, ed era successo molto tempo prima che quelle bestie infernali ci attaccassero, quanti innocenti erano caduti?

Poi vi fu l'era del progresso, gli anni della schiavitù, la sottomissione delle varie razze, tutti i popoli al cospetto dei superbi umani ed elfi.

Per un attimo mi vergognai di essere umano.

Mi piacerebbe sapere quanto era diversa la nostra generazione da quella della civiltà dei palazzi di metallo, saranno stati anche loro così superbi o avrebbero potuto insegnarci qualcosa?
Ancora oggi non riesco a darmi una risposta.

Se erano stati distrutti, se avevano richiamato a sé le belve di Aok un dubbio sulla loro moralità ce l'avrei.

In verità non credo fossero i demoni a essere malvagi.

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