Capitolo 12: Arruolato
Giorno: 1 Esabone
Anno: 1018
Il dieci di Kaeren tutti i profughi che si erano degnati di svolgere qualche lavoro furono pagati,
dieci dragoni a testa, una paga misera.
I miei sogni di comprare un nuovo tetto dove vivere furono ridotti in frantumi, dovevo essere realista, chi sarebbe riuscito a dare mille dragoni a tutta quella gente?
Nessuno, anche perché quei poveracci non sarebbero rimasti in quel sudiciume se avessero ottenuto una paghetta necessaria per acquistare uno stabile al sud, ma non riflettevo, ero stupido, dannatamente e infinitamente stupido.
I giorni di Kaeren passarono in fretta lasciando spazio al mese di Esabone e al gelido inverno.
La primavera si alterna con l'estate e l'autunno, per sapere cosa indossare e come saranno le condizioni meteorologiche di un determinato giorno si deve stare attenti al colore del secondo sole e della seconda luna, se è primavera Ivren e Aok saranno rossi, se è estate saranno verdi e se è autunno assumeranno un colorato arancio.
Poi però arriva l'inverno, Aok e Ivren diventano azzurri, è l'unica stagione che non si alterna con le altre tre poiché arriva quando le precedenti sono ormai finite, e ciò accade il primo di Esabone.
La neve può restare per un anno intero come può sciogliersi a fine Esabone, dipende, da cosa nessuno sa dirlo, per questo odio l'inverno.
Sono cose che mi paiano elementari, ma chissà, forse questo mio scritto verrà trovato tra mille anni e il mondo sarà cambiato, non si può mai sapere, dopotutto non sarebbe la prima volta che accade.
«Olwin, prestami ascolto», Aene riuscì a riportarmi alla realtà, fuori dalla mia mente.
Ma che stavo facendo? Come ho potuto anche solo pensare di accettare una proposta simile?
Come avevano fatto quegli idioti a convincermi di cacciare un troll davvero non lo sapevo, volevo solo provare di essere un uomo, dopo tutte le provocazioni di Esyl dovevo accettare per forza: femminuccia, vigliacco, fifone, donnicciola, ce n'erano anche altre, molte altre.
No, non potevo sopportare quelle frasi.
Non solo avevo già l'arco in pugno, ma avevo già incoccato e teso l'arma, ero pronto a scagliare la freccia.
Non era facile avanzare con tutta quella neve, ma ormai c'eravamo, eravamo accucciati dietro a un cespuglio e davanti a noi v'era la tana del mostro.
«Olwin, mi presti ascolto sì o no?», finalmente mi decisi a rispondere: «Sono tutto orecchi»,
«Bene, ho con me un sonaglio, i troll non gli sopportano, io lo tengo occupato mentre tu pensi a scoccare e scoccare finché non crolla. Bel piano, vero?», "Togliti quel sorrisino da idiota dalla faccia, non è per nulla un buon piano", annuii.
Offesi mentalmente quella dannata elfa che se ne era rimasta alla tendopoli mentre noi facevamo il lavoro sporco.
Ed ecco che l'omone verde usciva dalla grotta mentre Aene gli correva incontro dopo aver estratto una campanella metallica dal suo taschino destro, poi l'elfo iniziò ad agitare il sonaglio, «Ora, Olwin, ora!»,
«Affermativo!», quando Aene cacciava tendeva a parlare come un soldato, usava parole come "Ritirarsi", "Avanzare", "Affermativo" e "Positivo", a quanto pare aveva contagiato anche me.
Non esitai a scoccare, avevo mirato all'occhio destro, la nostra preda barcollò, un troll mezzo cieco è più facile da uccidere.
Purtroppo nonostante vedesse peggio di prima il mostro riuscì a tirare una manata al mio compagno di caccia spedendolo a due metri di distanza da me, la campanella chissà dov'era caduta, comunque poco importava, con quel colpo sicuramente s'era rotta.
Fallii tutti e sette i tentativi di colpire la creatura nel bulbo oculare sinistro, e allora non esitai a correre verso Aene.
«Che facciamo?», chiesi con voce spezzata per il fiatone una volta che ebbi raggiunto l'orecchione,
«Mantieni la posizione, ragazzo!», continuai a punzecchiare l'omone verde con le frecce, ma, come ho già scritto, non facevo altro che punzecchiarlo.
Il mio compagno ripeté per tre volte di fila di mantenere la posizione, ma una volta che il troll ci ebbe raggiunto deglutì e disse: «Ho un piano!», «Sarebbe?», domandai dopo che riuscii a schivare con una rotolata un calcio dell'omone verde, (dio solo sa come posso essere ancora vivo).
«Ehm... dunque... vediamo... il piano è...», «Il piano è...?», lo incitai a continuare, subito dopo mi accorsi di un secondo troll che avanzava verso di noi, probabilmente avevamo a che fare con un cucciolo e l'altro era uno dei genitori.
«Ritirata!», ero troppo impegnato a schivare i colpi della creatura per guardare alla mia sinistra, verso Aene, però riuscii comunque a formulare questa domanda: «Il piano è "Ritirata"?», il mio tono, senza ombra di dubbio, lasciava trasparire il mio stupore.
Non appena riuscii a voltarmi mi resi conto che l'elfo non era più al mio fianco.
Tra gli innumerevoli tronchi d'albero vidi l'orecchie a punta che se la dava a gambe levate, i suoi lunghi capelli biondi sventolarono a destra e a sinistra mentre lui urlava peggio d'una donna, poi sparì.
Tutto ciò accadde dopo che ebbi ripetuto un paio di volte che gli avrei dimostrato d'essere un uomo, che avrei abbattuto la creatura, e quel bastardo mi aveva lasciato là.
Provai ad urlare sperando che l'elfo mi sentisse nonostante ormai fosse lontano, «Ti dimostrerò chi sono, non sono un vigliacco io! Ucciderò i troll, mi senti?», nessuna risposta, dovevo fare la mia scelta, vita o onore, morte o vergogna, un respiro profondo e... «Aspettami!».
Fu molto complicato correre con tutta quella neve, difatti dovetti raccogliere un sasso e lanciarlo a un fusto d'un abete per provocare un rumore che desse fastidio alle due belve, tanto per rallentarli un poco, e per distrarli mentre mi nascondevo dietro a un arbusto.
I troll continuarono ad annusare per qualche minuto, fu un incubo per me, temevo d'essere scoperto da un momento a l'altro, già mi vedevo nella bocca di uno di quei mostri, e come mi masticava per benino nella scena che mi si era formata in testa!
Non appena distolsero lo sguardo dal mio nascondiglio continuai a correre finché non raggiunsi Nobor, caddi a terra stremato, oramai non c'era più bisogno di scappare, ma saltai in piedi come un gatto, caspita se faceva freddo, ovviamente.
Quand'ero davanti al mio rifugio notai Esyl e Aene che uscivano fuori, «Olwin, venivamo a cercarti! Mio padre mi ha raccontato di come ti sei battuto con il troll, anzi, con i due troll! Mi rimangio ciò che ho detto, tu sì che sei un uomo!
Lui è stato costretto a fuggire poiché un colpo di una delle belve gli ha rotto un braccio. Ma tu nonostante la stanchezza e la paura hai continuato a lottare.
Vedo, però, che non hai le loro carni con te, purtroppo non sei riuscito ad ucciderli, ma questo è tutto tranne che un fallimento, uomo!», detto questo la ragazza mi stampò un bacio sulla guancia facendomi arrossire.
Odiavo gli elfi, i maschi però, un bacio non mi dispiaceva né se fosse stata una mia coetanea o una orecchie a punta a darmelo.
C'era da dire ch'era un abile bugiardo quel bastardo di Aene, però il braccio se l'era rotto davvero, era impossibile fingere di tenerlo giù in quel modo e di non muoverlo, una cosa vera l'aveva detta almeno.
Esyl si diresse verso la foresta e mi fece gesto di seguirla, feci come richiesto, mentre passeggiavamo ella si tappò la bocca cercando di soffocare una risata, «Perdona mio padre, ormai lo conosco e so quando mente, anche se è bravo a sparare baggianate devo dire»,
che figuraccia.
«Sì... beh... io... ehm...», era meglio stare zitto dato che non riuscivo a formulare frasi di senso compiuto, «Tranquillo! Non devi vergognarti, fifone. Mi sono accorta di essermi relazionata poco con te, ti va di parlare?», si fermò e anch'io, feci di sì con la testa.
Sarebbe insensato perdere tempo a scrivere cose che sapete già, le raccontai di quand'ero un bambino, le confessai i miei sogni, le dissi che mi sarebbe piaciuto essere un eroe un giorno, raccontai anche del mio villaggio, degli emilciei che avevano sterminato i miei compaesani, tutto ciò che c'era da dire sulla mia vita lo dissi, parlammo finché il giorno non morì.
Lei mi confessò di voler essere una cacciatrice delle Armature Rosse, anche suo padre una volta era stato con quegli ammazzadraghi, fu licenziato per merito della sua incompetenza, sua madre invece era la classica nobile altezzosa che disprezzava i contadini e lo sporco del lavoro, per questo i suoi divorziarono, quando successe lei aveva solo sedici anni, età che per gli elfi equivale a qualche mese di vita umano, ora ne aveva centoventi.
Non avevamo molte cose in comune, ma ci capivamo, finalmente.
«Devo dire che tu mi piaci, umano», mi piegai in due dalle risate, «È la prima volta che me lo sento dire», «Capisco, ma tu mi piaci, non sto scherzando», «Che vuoi dire?», «Voglio dire che ti reputo uno a posto, forse, chissà, un giorno, io e te potremmo... no?».
Tornammo indietro, uno strano modo di finire un dialogo, eppure Esyl non disse altro, era una ragazza per bene, ma impossibile essere un buon partito per lei, non sarei riuscito a proteggerla, sarei invecchiato e sarei morto, lei invece no...
Certe cose poi non si chiedono, nascono col tempo! Ma era pazza oltre che a posto, questo ormai lo sapevo, (messa in questo modo sembra persino una frase contraddittoria).
Giorno: 2 Esabone
Anno: 1018
Ero desto quando notai dei cavalieri scalpitare in direzione di Horlard che era appoggiato alla porta del suo palazzo.
Horlard, non era cambiato d'una virgola, c'era sempre quel suo sguardo che metteva soggezione, era sempre lui, coi suoi occhi verdi bottiglia, coi suoi capelli rossicci che gli raggiungevano a malapena il collo, la pelle era talmente bianca da farlo sembrare un morto, stranamente nelle sue guance v'era qualche pelo, era la prima volta che non lo vedevo col viso pulito, addosso teneva la sua solita maglia arancio e dei verdi pantaloni in seta.
Gli uomini in groppa a dei neri cavalli si erano ormai fermati, in testa al gruppo v'era un umano dai capelli biondi che gli raggiungevano le spalle e dagli occhi azzurri come il mare, avrà avuto poco più di trent'anni, (a dire il vero erano tutti umani in quel gruppo).
«Sono il generale Kitahter», disse il biondo, «Mi avevate detto che qui era presente un ragazzo, egli è costretto ad arruolarsi per colpa di un debito del suo tutore», prese da una borsa in pelle che aveva attaccata al suo destriero un foglio ed iniziò a leggere: «Il tutore è un certo Ritair Enonguin, il ragazzo è suo nipote, Olwin Enonguin, diciassette anni», «Esatto», quel bastardo di Horlard confermò le parole del generale.
Anfel, Etalio, Ritair, Esyl e Aene, erano tutti al mio fianco ad osservare i cavalieri, Anfel, come sempre, rimase immobile come fosse una statua, Aene e la giovane elfa dai capelli castani invece mi lanciarono degli sguardi confusi, io, mio zio e mio fratello sbiancammo.
Un forte dolore al petto, il mio cuore batteva all'impazzata,
"Arruolato, prima o poi sarebbe dovuto succedere".
Horlard puntò il dito verso Olwin, il ragazzo dai capelli neri, il diciassettenne che sarebbe andato in guerra, che sarebbe morto per il suo paese, verso il poveretto che nessuno avrebbe ricordato, verso di me.
Kitahter, dopo essersi piazzato dinanzi a me, e dopo essere sceso dalla sua cavalcatura assieme ai suoi uomini, mi tirò qualche pacca sulla spalla, «Congratulazioni, benvenuto nel gruppo di Rokus, fai parte dell'esercito Kalarsmitiano ora».
Ritair urlò a squarciagola, «No, non prenderete mio nipote!», avrebbe persino aggredito uno dei soldati, ma due di loro pensarono a tenerlo fermo per evitare inutili spargimenti di sangue, e se qualcuno avrebbe interferito con l'arruolamento ce ne sarebbero stati di spargimenti di sangue, non ho dubbi.
Etalio si era chiuso nel silenzio esattamente come me, «Un debito?», domandò Esyl, «Sì, è così, un debito. Il qui presente Ritair disertò, le colpe dello zio ricadono sul nipote», spiegò il biondo generale, «Disertato? Facevi parte dei soldati?», adesso Esyl si era rivolta a Ritair, lui decise che era necessario confessare una parte dell'accaduto, già, proprio così, una parte.
«Ero un generale. Zatan, così si chiamava il padre di Olwin, era un bruto, un sanguinario, ma era mio fratello, si fece ammazzare,
non avrebbe mai dovuto sposare quella donna...
Disertai per prendermi cura di mio nipote, sua madre morì di parto, altro non ti dirò, ragazza».
"La madre morì di parto", aveva esitato a pronunciare quelle parole, non diceva la verità, ma avevo altro a cui pensare: sarei morto!
Kitahter salì nuovamente in groppa al suo destriero, tutti gli altri del suo gruppo fecero come lui, dopodiché mi scrutò per un attimo mentre la sua armatura argento s'illuminava grazie ai raggi del sole, «Sali con me, è un ordine», obbedii, ero costretto.
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