♡︎ capitolo otto
«È la cosa giusta da fare, Kris, stai facendo la cosa giusta» era quello che iniziai a ripetermi, non solo durante quella notte, ma anche nei tre giorni successi trascorsi a casa nella paura.
Cercai di autoconvincermi che quella fosse davvero la decisione giusta, una parte di me era eccitata al pensiero di poter avere una seconda possibilità, ma l’altra era abbastanza nervosa e in ansia.
La voce di Nicole mi risvegliò dai pensieri, mi colpì con una gomitata e solo così distolsi lo sguardo dal suo armadio bianco.
«Allora, mi stai ascoltando?» domandò, appuntando qualcosa su un quaderno.
«Cosa?».
«Ti ho chiesto se ti andasse di festeggiare qua, mamma ci lascia casa» mi annunciò, rosicchiando il tappo della penna. Alzai un sopracciglio, non capendo a cosa si stava riferendo, stavo letteralmente andando incontro alla morte: Nicole odiava non essere ascoltata.
«Terra chiama Kristen, sveglia! Tra due giorni è il tuo compleanno» mi ricordò, impegnata a scrivere qualcosa sul foglio.
«Ah, sì, va bene» osservai il calendario scoprendo che aveva ragione: il venti giugno era alle porte.
«Posso sapere cosa ti succede? È da ieri che ti parlo della festa e tu hai risposto “sì” a tutto, tanto che, con le tue numerose approvazioni, ho ordinato la torta, i panini, le pizzette e l’alcool» concluse, elencando il tutto, aiutandosi con le dita.
«Hai ragione, non ci sto con la testa, scusa» mi alzai e afferrai il pacco di sigarette dalla scrivania. Dannazione, ogni tanto ci vuole.
«L’indomani mattina, il ventuno, vado via» dissi, ispirando dalla sigaretta.
«Hai deciso, quindi. Così presto?».
«Sì, non dovrò più pensarci, almeno. Spero che Boston mi accolga nel migliore dei modi» confessai, sorridendo e cercando di contrastare l’ansia. «Me la caverò, prenderò i miei risparmi e fregherò qualcosa a Charline».
Spensi la sigaretta nel posacenere e mi avvicinai a lei, inginocchiandomi sul materasso. «Andrà tutto bene, Nico. Devo farlo» continuai, intuendo nei suoi occhi un velo di tristezza e preoccupazione.
*
La porta si aprì di scatto, mostrando Jett.
«Ah, sei qui, dobbiamo parlare» disse, rivolto a me.
Nicole si alzò e uscì dalla stanza, lasciandoci soli. Portai le ginocchia al petto, fissandolo. Non lo vidi muovere un muscolo, si limitò ad abbassare la testa e io non potei più guardare i suoi occhi. Ma, subito dopo, la sua voce roca mi spiazzò: «Hai deciso di andare via».
Non capii se quella era una domanda o un’affermazione. «Già. Ne ho già parlato con Nico e Annabel, e poi non penso che ti interessi così tanto». Me ne sarei andata, punto. Perché tutta questa tragedia? Nessuno mi avrebbe potuta fermare.
«E invece non sai quanto mi interessa. Non partire. Sei Kristen, la Kristen che è cresciuta con mia sorella, e, in fin dei conti, anche se noi due non ci siamo mai calcolati, fai parte della mia famiglia».
«Devo pensare a me stessa, Jett. Questa è la mia soluzione».
«Dove hai deciso di andare?».
«Boston. Senti, Jett, arriva al punto» mi alzai, intrecciando le braccia al petto.
«Non andare, troveremo un’altra soluzione. Devi solo deciderti a denunciarlo, Kris, e tutto passerà».
Chiusi gli occhi e cercai di scacciare via quelle parole.
«Basta, rassegnatevi. Ho preso la mia decisione. Ho chiesto a mamma di seguirmi, ma non vuole, non vuole venire. Finitela. Trovatevi una soluzione per voi stessi». Replicai infastidita, per poi andare via sbattendo la porta alle mie spalle.
Scesi i gradini velocemente come se volessi scappare da lui, anche da lui, e, arrivata in salotto, notai Annabel seduta sul divano concentrata a leggere una rivista di moda, la sua preferita. La lasciai in pace, sorridendo, ed entrai in cucina trovando Nicole intenta a lavare i piatti.
«Nico io vado, torno a casa» mi avvicinai e le schioccai un bacio sulla guancia.
«Va bene, sta’ attenta» ricambiò, accennando un sorriso e, prima di uscire, ringraziai Annabel per il pranzo.
Da quasi un anno andava avanti questa storia: la mamma passava la maggior parte dei giorni della settimana a lavoro, per risparmiare i soldi dell’autobus, mentre Charline, da quando aveva perso il suo, aveva iniziato a lasciarsi andare. Si definiva un fallito, tornava spesso a casa ubriaco, mentre rare volte se ne stava sereno a guardare la tv sul divano.
Da quasi un anno, io e la mamma sopportavamo Charline, sperando in un piccolo miglioramento, mai avvenuto. Dopo le sue solite scuse, gli davo l’ennesima possibilità.
Quando arrivai, mi concentrai sulla pulizia della casa, per poi distendermi sul divano davanti alla tv, ignorando la cena.
*
Qualche ora dopo…
Mi trovavo in bagno, pronta a rilassarmi, quando sentii un forte rumore provenire dal piano di sotto. Mi bloccai di colpo, poi mi vestii e scesi i gradini lentamente, guardandomi attorno. Le luci erano spente, ma grazie ai lampioni davanti casa che riflettevano sul pavimento potei notare del vetro per terra. Sobbalzai sul posto quando sentii dei rumori provenire dalla cucina e decisi di non muovermi. Quando mi sentii chiamare, capii subito chi era entrato.
«Mamma» sussurrai, raggiungendola, dopo aver acceso la luce.
«Mi dai una mano, per favore?» domandò sfinita, in ginocchio, davanti alla spesa caduta per terra.Mi abbassai per aiutarla, imitandola.
«Non avrei voluto svegliarti» continuò con gli occhi lucidi.
«Sei stata al bar? Frank ti ha tenuto con lui in questi giorni?» domandai, sentendo il suo respiro accelerare, poco prima che iniziasse a piangere.
«Mi dispiace, Kris. Per tutto» sussurrò, sicuramente pensando alla mia decisione. Si sentiva responsabile e delusa per non esser stata abbastanza forte per entrambe.
«Va tutto bene, mamma. Stai tranquilla». Posai la mano sulla sua schiena e iniziai ad accarezzarla. «Forza, andiamo a letto» le dissi, dopo aver poggiato la spesa sul tavolo.
«Penso che papà stia per tornare» disse, alzandosi e poggiando entrambe le mani sulla sedia per reggersi in piedi. «Mancano pochi giorni al tuo compleanno, Kris» continuò. «Tieni, questo è il mio regalo, sai che non potrò essere presente». Sfilò una busta dalla borsa porgendomela.
«Grazie mamma» dissi, sfiorando di sfuggita le banconote.
Il campanello suonò. Dando un’occhiata all’orologio al muro, mi accorsi che segnava le tre e trenta del mattino. Aprii la porta senza guardare chi fosse quel demente che si divertiva a suonare il mio campanello a quell’ora, ma la sorpresa fu deludente: Jett, sorridente, mi squadrò per poi posare gli occhi sui miei.
«Kris, ho trovato la mia soluzione!» disse eccitato.
«Cosa vuoi, Jett? È tardi, torna a casa».
Stavo per chiudere la porta, ma lui la bloccò con il piede. «Kris, vengo con te, ecco la mia soluzione migliore».
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