5. Autopsia
Il medico legale se ne stava con la schiena ricurva sul tavolo autoptico, sotto al cono di luce bianca. Con la mano sinistra, teneva il cuore appena sollevato rispetto agli altri organi del torace. Aveva già utilizzato il bisturi per tagliare le due vene cave e l'arteria polmonare e, indeciso su come procedere nei confronti dell'aorta, rimase per qualche secondo con lo sguardo perso nel vuoto. Nel vassoio di metallo appoggiato sul carrello operatorio c'erano le forbici chirurgiche ricurve, nel caso la manovra fosse risultata difficoltosa.
«Ehi, fratello» gli disse Zlatko, tutt'a un tratto.
«Uhm?»
«Guarda che c'è tipo una lucetta, sul telefono, che lampeggia da cinque minuti.»
Il medico legale si voltò. «Oh, sì. Giusto.» Appoggiò il bisturi di lato, lasciò ricadere il cuore nella cassa toracica e si scostò dal tavolo autoptico. Da diversi mesi, aveva preso l'abitudine di togliere la suoneria dall'apparecchio per non essere disturbato durante le autopsie. Ma, visto che ormai si era distratto, tanto valeva rispondere.
Raggiunse il ripiano della scrivania, vicino alla porta. Fece per afferrare la cornetta, ma quando allungò il braccio di fronte a sé si accorse dei rimasugli di fluido pleurico e di sangue rappreso che gli imbrattavano i guanti di lattice, e si bloccò. Appena in tempo. Se li sfilò in fretta e li gettò a terra. Il bidone per i rifiuti biologici stava dall'altra parte del laboratorio. Era troppo lontano.
«Halo. Qui è il laboratorio medico-legale dell'Università di Osijek» disse, non appena ebbe la cornetta appoggiata sull'orecchio.
«Halo, parlo col dottor Varga?» chiese una donna dall'altra parte.
Maledizione. Non c'erano dubbi, quella era Jelena Pavlović. La sua voce era inconfondibile.
«Uhm, no» rispose cupo. «Qui è Goran Babić. Se cerca il mio collega–»
Ma non fece in tempo a terminare la frase. La donna borbottò qualcosa che aveva tutta l'aria di essere un'imprecazione. «Ah. Mi scusi» sibilò fredda, e gli riattaccò in faccia.
Il dottor Babić sospirò. L'aria calda che gli uscì dal naso rimase tutta all'interno della mascherina. Ancora con la cornetta attaccata al lato della faccia, osservò i guanti in lattice appallottolati ai suoi piedi. Avrebbe dovuto prenderne un paio nuovo dalla confezione, adesso.
«Stronza» sibilò tra i denti. E riagganciò.
Fece un bel respiro, e tornò a guardare verso il centro del laboratorio.
Il corpo di Zlatko Čukman, il magazziniere ventottenne residente nel quartiere di Josipovac, lo attendeva immobile sulla superficie fredda di metallo. Aveva lo sguardo fisso sull'intensa luce bianca della lampada da ispezione, che rendeva la sua pelle ancora più pallida, e si rifletteva sulle viscere umide, esposte nei confini del taglio a "Y" che gli apriva il torace.
Decise di lasciar perdere i guanti sporchi sul pavimento. Ci avrebbe pensato più tardi. Si incamminò verso la sua postazione. Quantomeno, nel frattempo aveva preso una decisione: per l'aorta, avrebbe utilizzato le forbici chirurgiche ricurve.
Si piegò sul carrello operatorio per aprire il penultimo cassettino.
«Problemi coi piani alti, fratello?» gli chiese Zlatko, mentre era ancora intento a estrarre il nuovo paio di guanti dalla scatolina.
Il dottor Babić bofonchiò. «Lasciamo stare. Niente d'importante.»
«E dai, confidati con me. Mi annoio» piagnucolò. «Tanto, scusa, a chi mai potrei andare a raccontarlo?»
Il dottor Babić emise uno sbuffo nasale. Poi, si ritirò su con la schiena. «È quella Pavlović, dell'ufficio amministrativo.» E, tenendolo dal bordino, scosse nell'aria il primo guanto, per renderlo indossabile. «Non la sopporto più, mi tratta sempre come un appestato.»
«Tipo?» chiese Zlatko, in tono curioso. «Che fa di strano?»
«Be', hai sentito, ora, no?» L'ultima scossa al guanto. «Cercava il mio collega, il dottor Varga. Tra l'altro, lei dovrebbe saperlo quando sono i suoi turni, quindi non capisco perché abbia chiamato a quest'ora. Ma va be'. Stavo appunto per dirle di richiamare dopo le 17:00, ma quando ha capito che ero io, mi ha riattaccato in faccia senza farmi finire di parlare.» Infilò la mano sinistra, e aprì e chiuse le dita per farle aderire bene. «E dire che volevo solo essere cortese.»
«Uhm.» Zlatko ci pensò, corrugò la fronte e sbatté qualche volta le palpebre sugli occhi vitrei. «Be', riattaccare in faccia è una cosa un po' da stronzi, sì. Però, magari, non è che ce l'aveva con te, è solo che era presa dai cazzi suoi. Insomma, se è solo per questo...» Lasciò in sospeso la frase.
Il dottor Babić sospirò. «No. Non è solo per questo. Due sabati fa, ad esempio, ho saputo che c'è stata una grigliata a casa sua. Ha invitato tutti, in pratica. Tutti, tranne me.» Iniziò a sbattere nell'aria anche il secondo guanto, con lo sguardo rivolto al pannello di sicurezza, recante le istruzioni sulle procedure di smaltimento dei rifiuti biologici. Quei maledetti guanti sporchi. Gli sarebbe toccato disinfettare il pavimento, più tardi. Si riscosse. «Ma comunque è inutile che ti racconti degli episodi specifici. Lei fa sempre così, tutti i giorni. Se per caso ci troviamo in gruppo davanti alla macchinetta del caffè, o da qualunque altra parte, lei rivolge la parola a tutti, tranne che a me. Anzi, peggio. Mi guarda pure con disgusto.» Infilò anche il secondo guanto, tirò il bordo, fletté le dita, e afferrò le forbici chirurgiche ricurve, come aveva deciso. «Proprio con disgusto» ribadì, sommesso. «E non capisco il perché. Insomma, non credo di essere così... brutto.»
E si chinò sul torace del cadavere. Con delicatezza, insinuò le dita attorno al cuore fermo, lo sollevò, avvicinò le forbici e iniziò a tagliare l'aorta, vicino all'orifizio ventricolare.
Zlatko rimase a lungo in silenzio. Quando il dottor Babić gli lanciò un'occhiata, si accorse che aveva alzato le sopracciglia.
«Cos'è, una specie di domanda?» gli fece. «Devo rispondere?»
Il dottor Babić sbuffò. «No.»
«Perché, sai» continuò Zlatko, come se non avesse sentito. «Se lo chiedi a me, be'... Innanzitutto, ci tengo a chiarire un punto: io non ho quel tipo di... tendenze, okay? Mai, mai avute. Senza offesa, fratello. Non giudico nessuno. Ma io queste cose non le ho mai fatte.»
«Ti ho detto che non era una domanda.»
«A parte quella volta con mio cugino Janko, in vacanza al mare. Ma quella non conta.»
«Dio santo, non te l'ho chiesto.»
«Però, visto che tanto ormai sono morto e, detto tra noi, francamente non m'interessa ciò che intendi fare con il mio cadavere...»
Il dottor Babić sospirò e alzò gli occhi al soffitto.
«Ti dico che... sì, hai ragione. Non sembri un brutto uomo. Hai un po' di stempiatura, magari. E penso ti dovresti aggiustare le sopracciglia. Però, dai. Un non-so-che, ce l'hai.»
Il dottor Babić lo fissò serio, per qualche istante.
«Be', grazie.»
«Di nulla, fratello.»
Il dottor Babić diede l'ultimo colpo di forbice all'aorta, e a quel punto riuscì a sollevare il cuore di qualche centimetro in più. Lo inclinò di lato, alla ricerca delle vene polmonari, le più difficili da raggiungere, a causa della posizione.
La punta delle forbici si inoltrò con cautela nella cavità. Poi, a un tratto, il dottore si bloccò. «Resta il fatto che si comporta sempre così. E quindi? Quale può essere il motivo? All'inizio pensavo che avesse qualche pregiudizio nei confronti dei medici legali... Sai com'è, non tutti sono a loro agio al pensiero di qualcuno il cui lavoro consiste nello sventrare i cadaveri.»
«Be'...» rispose Zlatko, laconico.
«Ma questa tesi ormai non regge più. Non da quando ho visto come si comporta con il mio collega, Filip Varga. Facciamo lo stesso lavoro, io e lui. Eppure...»
«Ah, ho capito!» Lo interruppe Zlatko, in tono insinuante. «Quindi, sei geloso.»
«No.» Il dottor Babić chiuse le forbici in uno scatto nervoso e subito se ne pentì. Gettò un'occhiata nella cavità, controllò di non aver danneggiato altri tessuti, e poi sospirò. «Okay, sì. Ma non in quel senso.» I tagli successivi, eseguiti con più criterio, lacerarono tutte le vene polmonari e il cuore si staccò dal resto del corpo. L'uomo lo soppesò, senza stringere le dita; ripose le forbici chirurgiche nel vassoio di metallo e si voltò, alla ricerca del contenitore di formaldeide. «Non sono interessato a lei in senso romantico.»
«E a lui, invece...?» chiese Zlatko, con un certo sgomento.
«Oh, ma ti sei fissato.» Il dottor Babić si girò all'indietro e gli lanciò un'occhiata di fuoco. «Non intendo abusare del tuo cadavere, va bene? Puoi stare tranquillo.»
«Okay» rispose Zlatko, dopo un attimo di silenzio.
Il dottor Babić scosse la testa e si rivoltò in avanti. Con la massima accortezza, lasciò scivolare il cuore nel liquido trasparente del formaldeide, lo osservò immergersi e sigillò il contenitore. «È solo che non capisco cosa avrei fatto per meritare un trattamento così astioso. Insomma: non ho mai tardato nella consegna di un rapporto, ho sempre seguito tutte le procedure alla perfezione... Arrivo sempre in orario, non chiedo mai giorni di permesso...» Muoveva la testa a destra e a sinistra, mentre stilava l'elenco dei suoi comportamenti irreprensibili. «E per giunta, come puoi immaginare, le mie diagnosi post-mortem hanno permesso la risoluzione di una marea di casi. Cosa che non può certo dirsi di Filip Varga. Quindi... perché lui le sta simpatico e io invece no?»
«Eh, è un bel mistero» convenne Zlatko.
«Eppure, un motivo ci dovrà pur essere» continuò, tornando a osservare lo squarcio sul petto del cadavere. «Non concepisco che una persona possa svegliarsi al mattino e decidere che ti odia. Così, a caso.»
«Hai ragione, fratello. Un motivo, di sicuro, ci sarà.»
Il dottor Babić annuì, distratto. Era arrivato il momento di prelevare un campione polmonare. Riafferrò il bisturi, che aveva lasciato appoggiato a fianco di Zlatko quando aveva ricevuto la telefonata, e si chinò piano sul suo petto.
«Non è che magari è invidiosa di te?» chiese Zlatko. «Tipo, che in realtà avrebbe voluto essere assunta lei per lavorare qui, e invece hanno preferito te.»
Il dottor Babić affondò la lama e corrugò la fronte. «No, no. Lei è assistente amministrativa, ha fatto tutto un altro percorso di studi, che non c'entra niente col lavoro che faccio io. Sospetto che la paghino anche di più, figurati.»
«Ah, okay.» Zlatko sbatté le palpebre e tornò a guardare verso la luce.
Per un po', rimasero in silenzio. Il dottor Babić era intento a incidere un quadrato nel tessuto spugnoso, nel tentativo di tirarne fuori un cubo regolare. Non c'era alcun motivo per cui il campione avrebbe dovuto avere quella forma. Era una sua fissa, niente più.
Per quanto riguarda Zlatko, invece, è difficile dire cosa stesse pensando. Forse, alla sua vita.
«Va be'» borbottò il dottore, dopo un po'. «Parliamo di cose più serie. Tu eri un fumatore, giusto?»
«Uhm... Com'è che hai detto che ti chiami?» rispose Zlatko, eludendo la sua domanda.
Il dottore lasciò correre. «Goran. Goran Babić.»
«Okay, Goran. Tu... mi stai simpatico, davvero. Sembri un brav'uomo. Quindi, voglio darti un consiglio.»
Il dottor Babić sollevò un sopracciglio, lo scrutò. Poi, tornò sul polmone. «Spara.»
«Se questa tizia... Pavlović, dovesse mai offrirti del cibo, tu... non mangiarlo.»
«Del cibo?» Il dottor Babić interruppe l'operazione e sollevò la testa, confuso. «Be', proprio uno strano consiglio, il tuo. E perché non dovrei mangiare il suo cibo?»
«Perché, tipo... Anche il mio vicino di casa, il signor Horvat, ce l'aveva con me. Mi trattava proprio nello stesso modo, identico: non mi salutava, mi guardava storto... Secondo me, si era convinto che mi scopassi sua moglie.»
«Uhm. Ed era vero?»
Zlatko scosse la testa. «Lascia perdere, non è importante. E poi,» continuò, in tono concitato, «a un certo punto, ha cambiato del tutto atteggiamento. Ha cominciato a dire che voleva essere un buon vicino, ed era tutto sorrisi, ciao-ciao con la mano. E mi portava il cibo.»
Il dottor Babić assottigliò le palpebre e lo studiò.
«Sarma, burek, frittelle, patate al forno...» continuò Zlatko. «Diceva: "Mia moglie ha fatto questo, ha fatto quello, ne prenda un po' anche lei, signor Čukman". E io, figurati se dicevo di no. In quel modo, non ero costretto a cucinare. Quindi ho mangiato sempre tutto. Ogni volta. E guarda dove sono finito.»
«Ah, sì?» chiese il dottor Babić, con un filo di voce.
Avvelenamento cronico, pensò. Fegato e reni. Ecco su cosa avrebbe dovuto concentrarsi l'analisi tossicologica.
«Eh, già.»
«Interessante» mormorò il dottor Babić. «Grazie, Zlatko.»
L'altro si strinse nelle spalle. «Dovere.»
Il dottor Babić terminò di intagliare il cubetto di tessuto polmonare e passò subito al fegato. C'era da optare per la rimozione completa, altroché. Non sarebbe bastata la prelevazione di un campione. Sul rapporto avrebbe giustificato la sua scelta, corredandola di istruzioni dettagliate per il laboratorio di analisi chimica. Sospetto avvelenamento, attraverso il cibo. E così, ancora una volta, avrebbe compiuto la sua magia.
Il signor Horvat, pensò. Vicino di casa geloso, che sospetta l'adulterio della moglie. Questo non lo avrebbe scritto nel rapporto, ovvio. Ma, di certo, lo avrebbe tenuto a mente.
«Ehi, Goran?» chiese Zlatko, dopo un po'.
«Sì?»
«Ripensavo alla tizia che ti odia...»
Il dottore sospirò. «Eh.»
«Ecco. Non è che, tipo, c'entra qualcosa il fatto che parli... con i cadaveri?»
Il dottor Babić aggrottò la fronte. Diamine, non aveva mai pensato alla questione da quel punto di vista.
«Non saprei...» mormorò, non del tutto convinto. «Potrebbe anche essere.»
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