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29. Astronave

La sagoma pixelata di un veicolo comparve sul margine del terminale, accompagnata da un segnale acustico intermittente. Dag Jensen sollevò la testa, ne valutò la forma squadrata in 2D e, per prima cosa, ipotizzò che si trattasse di una nave mercantile. Il sistema informatico non era ancora in grado di specificare il modello. In caso contrario, sarebbe apparso a fianco della figura, insieme alla velocità di crociera. 

Niente di irregolare. A volte c'era bisogno di attendere che la distanza si riducesse, specialmente nel caso di modelli fabbricati sulle colonie esterne. Dag Jensen si chinò sul pannello di controllo, digitò il codice per inviare il primo segnale di richiesta di avvio della comunicazione e si lasciò andare contro la superficie rigida dello schienale. In breve, la sua mente si proiettò altrove, alla ricerca di altri lidi.

Il suo compito, all'interno della Sala di Monitoraggio degli Attracchi, consisteva in questo: ripetere la medesima procedura standardizzata nei confronti di qualsiasi mezzo in arrivo, fino al cambio del turno. Era un po' come ripetere: «Biglietto, prego» tante volte al giorno, senza mai cambiare inflessione o postura. Dopo la pochi giorni dall'assunzione, la sua padronanza degli strumenti alla postazione aveva raggiunto il culmine e a Dag Jensen non restava più nulla da imparare. 

Per giunta, la stessa prassi veniva utilizzata in tutte le stazioni pahl'er senza variazioni significative. Era da almeno cinquant'anni che le cose stavano così. Perciò, gli habitué dei viaggi spaziali non avevano alcun bisogno che venissero loro spiegati i passaggi da seguire per effettuare l'attracco. Come dire, avevano già il biglietto in mano, quando giungevano davanti a lui. L'ultima volta che Dag Jensen aveva dovuto avviare una comunicazione video, dall'altra parte c'era un giovanissimo ximo'er, salito in orbita con una navicella monoposto direttamente dalla sottostante atmosfera di Jabo. O di Proxima Centauri b, nella vecchia lingua sun'er. Aveva appena preso la licenza, ed era la prima volta che metteva piede in una stazione spaziale.

Nella maggior parte dei casi, però, Dag Jensen si limitava a premere qualche tasto. 

Stimò che avrebbe ricevuto una risposta dalla nave cargo nel giro di pochi minuti. L'equipaggio si sarebbe identificato, avrebbe dichiarato il carico, lo scopo della sosta. Dopodiché sarebbe rimasto in attesa, e Dag Jensen gli avrebbe assegnato il giusto hangar nel quale attraccare. Nove su dieci, si sarebbe trattava del 12C, destinato alle navi di taglia medio-piccola che avevano bisogno di effettuare piccole riparazioni. Stimò che tutta l'operazione gli avrebbe portato via mezz'ora al massimo, tenuto conto di eventuali problemi tecnici. Una volta finito, sarebbe tornato nel suo consueto stato di tedio, fino al successivo segnale acustico del terminale. 

A volte, quando si trovava a metà di uno di quei pochi gesti routinari che intervallavano le lunghe fasi di nulla, a Dag Jensen capitava di sorprendersi nel sentire una strana tensione nei muscoli del collo. La sua mascella si serrava, nel suo petto gravava un peso a cui gli risultava difficile dare un nome. 

Era colpa del cibo della mensa, pensava. Magari qualche sostanza chimica contenuta nelle pietanze di quel giorno aveva interferito con l'efficacia dei suoi inibitori dell'umore. 

E così, per un istante, gli sembrava quasi di vedersi dall'esterno, e percepiva un senso di assoluta estraneità. Si vedeva... piccolo. Non piccolo come dimensione – la sua altezza era nella media sun'er – ma più: ridotto. Sminuito. Svilito. Per un attimo, gli mancava il respiro. L'intera esistenza trascorsa a cercare di dimostrare di non essere vincolato alla propria natura terrestre. Di essere speciale, un'eccezione. Abbastanza al di sopra degli altri esemplari della sua razza da meritare un posto nei corsi di addestramento specializzato nelle accademie militari del potere centrale. Tutta la sua vita, spesa a dimostrare di essere disposto a qualsiasi sacrificio, pur di venire assunto in una stazione spaziale. Insieme a loro. Ai pahl'er. Per ritrovarsi relegato in una stanzetta, a premere quattro tasti per tutto il giorno. Avrebbe potuto essere sostituito con una scimmia.

Era raro, perché di solito gli inibitori funzionavano a pieno regime. Ma poteva capitare che alcune sostanze chimiche avessero quell'effetto inatteso. 

Non era grave. Gli sarebbe bastato aggiornare il suo profilo medico, collegato col sistema di distribuzione automatico del cibo, per far sì che ai pasti successive gli venissero serviti cibi più consoni, la cui ingestione non interagisse con l'azzeramento emozionale. 

Dag Jensen sollevò di nuovo lo sguardo sul terminale, per controllare a che punto fosse la situazione. 

La nave aveva coperto metà della distanza che la separava dalla stazione. Si era avvicinata in maniera sensibile, e avanzava a velocità sostenuta. Eppure, ancora nessuna indicazione sul modello. Accanto alla figura rettangolare, in caratteri pahl'er, veniva ora riportato un numero maggiore di dati: le coordinate, il tipo di carburante utilizzato, alcune informazione sconnesse sugli elementi che componevano l'esterno del mezzo. Ma niente più di questo.

Strano, pensò Dag Jensen. Qualunque nave fosse mai stata prodotta nel corso dell'ultimo secolo all'interno dei sistemi sotto il controllo pahl'er doveva essere per principio registrata, e l'ipotesi che venisse da fuori non era nemmeno da prendere in considerazione. Una nave mercantile di quelle dimensioni non avrebbe mai potuto coprire simili distanze. Dunque? Doveva essere un veicolo davvero molto obsoleto, se non se ne trovava traccia nell'intero database. Ma era possibile?

C'era una spiegazione più semplice, forse. Poteva trattarsi del risultato di un riassemblaggio di pezzi di fortuna, tratti da veicoli diversi.

Dag Jensen fece aderire le spalle contro il sedile rigido. C'erano regole molto ferree che stabilivano quando fosse il caso di richiedere la consulenza dei superiori, e questo non rientrava nella lista. Non era illegale girare con delle anticaglie o dei catorci riasseblati. Era solo poco intelligente. 

Si sporse di nuovo sul pannello di controllo e ripeté l'invio del segnale. Poi, rabbrividì.

Dag Jensen abbassò lo sguardo alla manica della sua tuta termica e premette il sensore di regolazione.

La temperatura, nella Sala di Monitoraggio, era fissata sugli otto gradi celsius. Era bassa, per un organismo sun'er. Ma, in tutta la stazione spaziale, c'erano solo quattro sun'er come lui, su un totale di migliaia di impiegati e operatori pahl'er o, alla peggio, ximo'er. Era già tanto che il suo impianto di areazione fosse programmato per il costante rilascio di un miscuglio di gas che simulava l'atmosfera terrestre. Non sarebbe stato realistico avanzare richieste anche su questo. Il calore, in fondo, era una mera questione di comfort, non di sopravvivenza. Nella logica pahl'er, aveva più senso che fosse lui, piuttosto, a indossare una tuta termica per adeguarsi al contesto. E così faceva.

Dag Jensen tamburellò le dita contro il bracciolo. Quell'attacco di inquietudine non se ne andava più via, era insolito. Cartella medica. Forse era il caso di scriversi un appunto, di mettersi una sveglia, per ricordare di compilare il modulo per i pasti alla fine del turno. Altrimenti, avrebbe rischiato di limitarsi a seguire il flusso e di ritirarsi nella sua cella fino all'indomani.

Detestava riempire quel tipo di pratiche. Di rado riusciva ad associare verbi dal significato così intenso alle azioni che svolgeva. Detestare. Tuttavia, era così. Peggio dell'ammettere per iscritto le sue intrinseche debolezze e infilarle nelle maglie del sistema informatico pahl'er c'era solo il trovarsi costretto a effettuare una visita medica. 

Non riusciva a viverla diversamente da un fallimento. Alla fine, non era affatto diverso dagli altri. Era quello che era, per quanto si sforzasse di dimostrare il contrario. Un insignificante organismo sun'er. Debole, volitivo, irrazionale. Una spesa inutile, dal punto di vista degli addetti alle risorse. Perché il miglior sun'er per abilità e determinazione non avrebbe mai eguagliato in efficienza il meno qualificato dei pahl'er, nemmeno se imbottito di stabilizzatori dell'umore. Dag Jensen concentrò l'attenzione sul terminale. Non poteva far altro che cercare di ignorare quel turbine di pensieri, e rimettersi a lavorare.

Forse non era solo colpa del cibo. O non solo. Ogni volta che rileggeva i dati riportati dal sistema, aveva la netta impressione che ci fosse qualcosa di strano, nascosto tra le righe di pochi dati riportati sullo schermo. Non ne era certo, però.

Velocità sostenuta. Riassemblaggio di pezzi di fortuna. Obsolescenza. Colonie esterne. 

Dag Jensen aveva motivo di credere che il malfunzionamento degli inibitori avesse investito anche le sue normali capacità logico-deduttive, a quel punto. Un pahl'er non avrebbe mai indugiato in ipotesi fumose, in assenza di dati certi dai quali far discendere deduzioni inoppugnabili. Non avrebbe mai detto: "C'è qualcosa che non va, ma non so cosa sia". Quella, era una debolezza dei sun'er. Eppure, c'era qualcosa che non andava. E Dag Jensen non sapeva cosa fosse.

Il fatto che poi la nave continuasse a non rispondere alla richiesta di avvio della comunicazione non faceva altro che alimentare quel dubbio senza nome. 

C'è qualcosa. Qualcosa. Non so cosa. 

Dag Jensen si ritrovo con la mano sospesa accanto al pulsante rosso al lato del pannello. Gli sarebbe bastato premere per mettersi in contatto con i superiori pahl'er. Eppure, non lo premette. Non voleva farlo.

E se si fosse messo in contatto con Kyle, invece? Giusto per sentire il suo parere, per farsi dire cosa avrebbe fatto lui al suo posto. A quell'ora, avrebbe dovuto trovarsi in cabina. Gli sarebbe bastato mettersi digitare il suo codice identificativo sul cercapersone e attendere la risposta. 

Ma anche questa sarebbe stata una scelta irrazionale. La ricerca di conferme da parte di un pari non avrebbe dovuto avere alcun ruolo nel suo processo decisionale. Kyle aveva il suo stesso grado di competenze. Solo, Kyle era un altro sun'er. E Dag si domandava, a volte, soprattutto quando stava male, se ci fosse una qualche speranza di potersi aprire. Se avrebbe capito, almeno lui. O se si sarebbe limitato a fissarlo, con gli occhi vacui dell'azzeramento emozionale.

Dag Jensen distolse le mani dal pannello di controllo.

Il suo lavoro, nella Sala di Monitoraggio degli Attracchi, consisteva nel ripetere la procedura standard nei confronti di qualsiasi veicolo in arrivo. Il suo compito, nella stazione spaziale pahl'er, era di non permettere alla sua natura sun'er di interferire con il suo incarico. Non creare problemi. Non rallentare le procedure. Non farsi trascinare dal piano istintuale, dalle sensazioni di pancia, dai dubbi campati per aria.

Dag Jensen accese uno schermo più grande, fissato in alto contro la parete. Mostrava ciò che veniva inquadrato dalle telecamere esterne. Il buio dello spazio profondo. La vaporosa atmosfera di Jabo. La nave mercantile continuava ad avvicinarsi. Tra poco, sarebbe stata visibile. E lui doveva vederla. Voleva.

Velocità sostenuta. Nave non registrata. L'equipaggio non risponde ai segnali di richiesta di avvio della comunicazione. Non si identifica, non dichiara il carico. Viene dritta verso la stazione spaziale.

L'immagine che comparve al centro dello schermo, dopo qualche istante, era anonima tanto quanto i dati riportati dal terminale.

Nient'altro che un catorcio alla deriva, tutto spigoli e metallo.

Eppure, Dag Jensen tremava.

Ne aveva sentito parlare, prima di essere ammesso nell'accademia militare. 

Se ne stanno nascosti, da qualche parte, nelle estreme periferie dell'impero. Non usano il termine sun'er per parlare di loro stessi. Perché sono esseri umani. E si preparano alla resistenza. 

Dag Jensen non aveva mai dato peso a quelle dicerie. 

Erano storie. Nient'altro che favole consolatorie per marginalizzati. 

La popolazione sun'er si era ridotta di tre quarti, dopo l'invasione. E, nel corso dei duecento anni successivi, il rigido controllo delle nascite da parte dell'impero l'aveva mantenuta stabile, e perlopiù confinata nelle riserve. Erano pochi. Deboli. Non avevano i mezzi. Che senso aveva dar credito a simili idiozie? E chi diavolo avrebbe mai scelto di vivere una vita da fuggitivo, nascosto come un verme in qualche grotta sotterranea di un pianeta inospitale, solo per sfuggire al controllo, o per votarsi a una resistenza che non aveva alcuna speranza di successo? Quando avrebbe potuto fare ciò che aveva fatto lui, Dag Jensen. E trovare il proprio posto nella burocrazia pahl'er. Ne l'ordine delle cose.

Eppure, in quel momento, a Dag Jensen ribollivano le viscere.

Il pulsante per dare l'allarme era ancora lì, a meno di un passo da lui. Se ci fosse stata la necessità di abbattere quella nave, avrebbe dovuto avvertire subito, in quell'esatto momento, o sarebbe stato troppo tardi.

Trascorsero dieci secondi. Dag Jensen deglutì. Era soltanto una nave mercantile. A giudicare dal suo stato, era tutto fuorché improbabile che ci fosse stato qualche guasto nei loro sistemi di comunicazione. 

La spiegazione più semplice.

Dag Jensen teneva lo sguardo incollato allo schermo, su quell'ammasso di acciaio che diventava ogni istante più grande. Un minuto, non di più. Avrebbe dovuto fermarsi, entro un minuto. 

Poi, un segnale acustico riempì la Sala. Era una richiesta di avvio di un collegamento video. Finalmente.

Trenta secondi.

L'immagine esterna della nave venne sostituita dall'inquadratura di una saletta interna. Grigia, priva di orpelli. C'era una giovane sun'er, al centro. Aveva una sciarpa blu e verde poggiata morbida sulle spalle. Era sola, e guardava verso la telecamera. 

«Qui... Qui la Sala di Monitoraggio degli Attracchi» disse Dag Jensen nel microfono, in lingua pahl'er. Questa era la procedura. «Dovete frenare im-me-dia-ta-men-te,» scandì, «se non volete schiantarvi contro la stazione spaziale».

Ma lei non rispondeva. 

Quindici secondi.

«Mi sentite?! Dovete Qui è la Sala di... Di...»

Il suo sguardo si spostò, dopo un istante, oltre la figura della ragazza. Grossi cilindri di metallo, posizionati in orizzontale. Grisi, pesanti, scintillanti. Almeno una dozzina. Erano testate nucleari. 

Dag Jensen si ammutolì.

Cercò, nel volto della ragazza, la traccia di quel qualcosa, che lui aveva perso. L'umanità.

Otto secondi.

E provò vergogna. Vergogna per la sua intera esistenza, tutt'a un tratto.

Cinque secondi.

Poi, si sentì grato.

«Grazie» sussurrò. 

Tre secondi.

«Per la Terra» disse l'umana, che reggeva un telecomando tra le dita.

Poi, più nulla.

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