27. Papavero
Un'ultima occhiata all'interno del vano, per controllare che le cassette di avocado siano state rimpilate come piace a me, tutte belle in fila e assicurate dalle cinghie, e poi chiudo lo sportello.
Ogni volta, la stessa storia. Si perde più tempo a levare e rimettere la frutta piuttosto a sistemare il carico sul fondo. Ma, del resto, è così che si deve fare: non è che posso andarmene in giro con un furgone a Tamazula, con trenta chili di morfina semilavorata nel furgone e senza una bella storia di copertura.
«Bene. Allora io vado, eh?» Faccio un cenno distratto in direzione di Rojas, appoggiato con le spalle contro il muro della baracca.
Non dà segno di avermi sentito. Si limita a fissarmi, con il suo AK-47 puntato al suolo terroso.
Sempre amichevole. I tecnici si sgranchiscono i muscoli delle braccia e si allontanano dal mezzo per rientrare nel laboratorio sotterraneo, sotto il suo sguardo attento nascosto dagli occhiali da sole.
Be', è ora di andare. Sputo a terra la pagliuzza, saluto con la mano i pochi rimasti di fronte alla tenda antimosche del casolare e mi dirigo al posto di guida. Sbatto la portiera, il crocifisso ondeggia appeso allo specchietto. il termometro segna trentotto gradi.
Accendo il motore. Destinazione: Culiacán. Quando faccio retromarcia, una nube di polvere giallastra si solleva dal terreno.
«Kiko! Aspetta!»
E ora che succede? Getto un'occhiata in direzione del laboratorio. Jesús Nava, il caporeparto, si avvicina a passo svelto verso di me con un braccio alzato, mentre con l'altro si sposta l'M16 dietro la schiena per toglierselo d'impaccio. Abbasso il finestrino.
«Che c'è?»
Lui si appoggia alla carrozzeria.
«Devi fare sosta a Sanalona.»
«E perché?»
«Consegna. Ordine dall'alto.» Da sotto l'ascella, tira fuori una borsa azzurra, squadrata, chiusa con una zip. Me lo lancia addosso attraverso il finestrino. «Non aprirla.»
Me la ritrovo in mezzo alle gambe. Perplesso, l'afferro per la cinghietta sfilacciata e lo sollevo a mezz'aria, di fronte a me.
Che razza di packaging. È di materiale molle, plastico, usurato. All'interno deve contenere un fondo rigido, o qualcosa del genere. Mi sembra di aver già visto contenitori simili.
«Ma che è, una borsa frigo?»
Jesús Nava resta a fissarmi a lungo con occhi vacui.
«Davvero? Davvero vuoi indagare, Kiko?»
Sospiro. Va be', non è che possa rifiutarmi di fare una consegna. Poggio il pacco sul sedile del passeggero. «Hai detto a Sanalona?»
«Sì. Tanto sei di strada, no?»
«Ma c'è un indirizzo o basta che lo butti dal finestrino quando vedo il cartello?»
Jesús Nava si gratta la barbetta sotto al mento. «Hai presente dove sta El Barco Pesquero?»
«Il ristorante di pesce?»
«Sì. Da lì, prosegui di un centinaio di metri verso la laguna. C'è un villino bianco, in fondo alla strada. Quello è il posto.»
Emetto un mugolio sommesso. «Un villino bianco...» Cerco di far riemergere il ricordo di quella zona. Non ne sono sicuro, ma secondo me ce n'è più di uno, di villini bianchi.
«Non ti puoi sbagliare, Kiko. Se hai dubbi, chiedi di Ramiro Hernández.»
«Ah, Ramiro Hernández! Potevi dirlo subito!»
«Perché, lo conosci?»
«Come no! Era il mio professore. Suo figlio Miguel era amico mio, andavamo a scuola insieme.»
«Okay, okay.» Nava scuote la testa, con la mano fa un gesto per farmi stare zitto. «Non mi interessa.» Fa qualche passo all'indietro e si allontana dal furgone. «Cerca Ramiro Hernández e consegnagli il pacco. E non aprirlo.»
«Ehi, ho capito, non lo apro. Ciao.» Dio, deve avermi preso per sordo. Imposto la retromarcia e mi torco all'indietro verso lo sterrato.
«Ah, aspetta!» Prima ancora che io riesca a premere il pedale del gas, Nava torna verso di me, a corsetta, e si ferma a pochi passi dal finestrino aperto. «E devi anche dirgli: "Saluti da Lupita".»
Lupita. La sorella di Miguel.
Gran topa.
«Va bene, riferisco.» Saluto per l'ultima volta con un cenno della testa ed esco dalla piazzola del casolare. Dietro di me, sotto la canicola, la solita nube di polvere giallastra si leva dal suolo, in prossimità delle gomme posteriori.
Accendo l'autoradio. Il cd è già inserito. Jefferson Airplane, Surrealistic Pillow.
* * *
«One pill makes you larger, one pill makes you small...»
In fondo, mi piace il mio lavoro. Che altro si può chiedere di più? Monti sul tuo furgone, fai su e giù, vedi un sacco di gente. Sforzo minimo, paga eccellente... E che dire del cielo terso sopra Tamazula? Ah, questo versante della Sierra Madre è un'esplosione di colori, di profumi buoni; ovunque ti giri, il viola della bouganvillea, il giallo della tagete, le foglie lunghe dell'agave; e, qua e là, nascosti tra le fronde scure dei pini di Durango, i campi di papavero in fiore; le corolle, bianche, rosse e rosa; le capsule gonfie, le ombre armate tra gli steli... E puoi correre, per decine e decine di chilometri, in compagnia solo di te stesso, e dell'autoradio accesa.
«When logic and proportion have fallen sloppy dead...»
Non sarà così tremendo fare sosta a Sanalona; sarà una cosa veloce, immagino; ed era un po' che non mi fermavo in zona. È proprio un bel posto per vivere, quello lì. Chissà se ci sarà Miguel in casa. Sarebbe carino potersi fermare a El Barco Pesquero per mangiare qualcosa. Ma finirei con l'arrivare tardi. Va be', fa niente. Pranzerò a Culiacán.
«Remember what the dormouse said, feed your head...»
Quando la canzone finisce, sono quasi arrivato. Le acque della laguna sono di un blu acceso, intenso quanto quello del cielo. Dopo aver superato l'insegna colorata del ristorante di pesce, rallento qualche decina di metri, finché non vedo il villino. Lascio il furgone parcheggiato sotto una parota a bordo strada, e afferro la borsa frigo prima di scendere.
Mi è venuta in mente una cosa, mentre venivo qui, proprio sul professor Hernández. È una vita che non ci vediamo, da quando ho mollato la scuola. Però, mi pareva di aver sentito dire in giro qualcosa. Tipo, che si era messo nei guai, non so. O forse era qualcos'altro? Che si era impicciato con la chota. Ma dove l'ho sentito? Bah. A dirla tutta, tendo a non ascoltare quando la gente si mette a dire 'ste cose.
Ancora con la melodia in testa, supero la staccionata e mi avvicino al portone d'ingresso. Bella casa, non c'è che dire. Salgo i quattro gradini, m'insinuo sotto la veranda e pigio sul campanello.
Poco più in là, un mastino se sta a pancia all'aria, tra l'erba, a prendersi i raggi del Sole. Per fortuna è attaccato alla catena.
E se non ci fosse nessuno, che faccio? Diamine, potevo chiederlo a Nava.
Per fortuna, la porta si apre poco dopo. Il professor Hernández si sporge dall'ingresso e mi squadra da capo a piedi.
«Bolaños?» mi fa, incredulo. «Francisco Bolaños?»
Sorrido. «In carne e ossa, professore.»
«Per Dio! E chi se l'aspettava! Come te la passi? Sono secoli che non ti fai vedere.»
«Eh, me la cavo.»
«Lavori?»
«Sì, sì, lavoro.»
«Bravo, ragazzo. Sei... Sei qui per Miguel? Purtroppo hai avuto sfortuna, caro mio. Proprio questa settimana è via per degli esami all'Università. Sai, fa avanti e indietro tra qui e Città del Messico. Ma, se vuoi, appena torna gli faccio sapere che sei passato.»
«Oh. No, non si preoccupi. Cioè, mi avrebbe fatto piacere trovarlo un saluto. Ma in realtà sono qui per consegnarle un pacco.»
L'espressione del professor Hernández si fa perplessa. «Un pacco, dici?»
In tutta risposta, gli passo la borsa-frigo. Lui, sempre più confuso, sta lì a fissarla e non accenna a prenderla in mano. «Ma da parte di chi?»
Eh, che razza di domanda. Che vuole che ne sappia, io? E poi, anche se lo sapessi, non lo so mica se glielo potrei dire.
Mi limito ad alzare le spalle. «Mi hanno solo detto di consegnare, professore.»
La pelle del suo viso si fa livida come quella di un morto. Una goccia di sudore gli solca le rughe sulla fronte, mentre allunga il braccio tremante alla cinghia sfilacciata.
«Bolaños...» sussurra, quasi in un singulto. «Ma per chi lavori?»
Il cuoio capelluto inizia a prudermi come non mai. Maledizione, avrò preso i pidocchi? Ancora?
Mi do una feroce grattata sulla testa, poi mi volto verso la strada. «Vede là?» gli dico. «Ho un furgone pieno di avocado. Trasporto roba. Ora devo andare a Culiacán, infatti non mi posso fermare.»
Il professor Hernández fissa il mio mezzo, parcheggiato all'ombra della pianta. «Bo... Bolaños, cosa... C-cosa c'è qui...?» E indica la borsa frigo.
Io alzo gli occhi al cielo. «Eh, professore. Mi hanno detto di non aprirla. Che ne so? Pensavo lo sapesse lei. Ora vado, mi scusi. Non è per essere maleducato, è che davvero non posso fare tardi.» Indietreggio, per ridiscendere i gradini in legno della veranda.
«F... Francisco...»
Ma io sono già nel giardino e non voglio fermarmi. Sul serio, non posso trattenermi in chiacchiere. «Senta, magari un'altra volta, quando c'è anche Miguel, torno a trovarvi e andiamo tutti insieme a mangiare pesce a El Barco Pesquero. Eh, che ne dice? Offro io, mi farebbe piacere. Ah, già. Quasi dimenticavo. Mi hanno detto di dirle, ehm, saluti... Saluti da Lupita.»
«Da Lupita?!»
«Ora scappo, davvero!»
«Hai detto Lupita?!»
«Alla prossima!»
Ed esco dal giardino degli Hernández. Dall'altra parte della strada, il furgone bianco mi attende, sullo sfondo del lago di Sanalona.
E ora, finalmente, Culiacán. Devo decidere dove andare a mangiare. Magari chiamo alcuni amici, chiedo se vogliono pranzare con me.
Quando salgo sul furgone, l'urlo straziato di Ramiro Hernández riempie l'isolato. Dal parabrezza, lo vedo inginocchiato a terra, sulla veranda, con la borsa frigo aperta tra le mani.
Cose che capitano. Magari è vero che si è impicciato con la chota. Chi lo sa?
Metto in moto. Devo fare manovra.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro