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11. Capo - Cat

Il primo ricordo felice che Cathleen aveva dei suoi padri era sulla spiaggia. Erano memorie confuse, spezzoni di immagini e suoni, e un calore che riusciva ancora a scaldarla dopo tutti quegli anni. Era certa che papà Quentin l'avesse portata altre volte sul mare, ma quella era la prima volta in cui c'era anche papà Darby, e forse anche la prima volta che l'aveva chiamato in quel modo. Non ne era sicura. Sapeva solo che, quando si nominava la parola famiglia, e tutte le volte che i Sovalye le avevano chiesto che rapporto avesse con i suoi genitori, a Cathleen tornava in mente l'immagine di loro tre seduti sulla spiaggia a fare castelli di sabbia.

Non l'aveva detto, naturalmente. Non aveva detto niente a quei maledetti cani, come le era stato insegnato, e quei bastardi li avevano gettati in prigione senza neanche farglieli salutare. Lei l'avevano lasciata in quell'orfanotrofio fetente, con quelle odiose Lucille rugose e i ragazzini idioti che la guardavano male, come se essere figlia di due criminali fosse una vergogna. Andassero a fanculo tutti quanti, gli orfani, le Lucille e i Sovalye, non aveva bisogno di nessuno di loro.

Cathleen versò un poco d'acqua nella conca di sabbia che aveva scavato, cominciando a mescolare perché si assorbisse. Quella stupida sabbiera in cortile non era la spiaggia e i suoi padri non erano lì, però sentire la sabbia umida tra le dita le dava l'illusione di tornare a quel giorno, riusciva persino a sentire il calore del sole sulla pelle benché il cielo fosse coperto da nubi a chiazze. Riempì il secchiello vuoto con l'impasto di sabbia e acqua, ignorando la fresca brezza che le scompigliava i capelli biondo scuro lunghi fino alle cosce – troppo lunghi, diceva Lucilla Chiara, ma col cavolo che li avrebbe tagliati – e immaginando di avere addosso il costume da bagno e non la salopette grigia sopra la maglia larga. Al posto delle voci dei suoi odiosi coinquilini, che giocavano a palla dall'altro lato del cortile, c'erano quella ferma e profonda di papà Quentin e quella gioviale di papà Darby, che l'aiutavano con le formine e le portavano conchiglie con cui decorarlo.

Era stupido. Li avrebbe rivisti, anche se nessuno le diceva quando, anche se parlavano della possibilità di una nuova famiglia, come se fosse una maledettissima orfana anche lei. Era stupido, ma ogni torre che aggiungeva a quel castello di sabbia la faceva sentire un po' meglio, e meno sola.

«Ma quest'altra che gioca con la sabbia?» gridò uno dei ragazzi. Cathleen non si voltò, ma sentì molti piedi calpestare il terreno alle sue spalle. «Quanti anni hai, cinque?»

Scoppiò a ridere, e il gruppo che gli era venuto dietro fece lo stesso. Cathleen grugnì, rovesciando il secchiello pieno di sabbia accanto alla struttura che aveva già creato.

«Ho tanti anni quanti sono i cazzi tuoi che devi farti» rispose, sfilando piano il secchiello per rivelare la nuova torre, che insieme alle altre tre chiudeva gli angoli delle mura esterne del castello.

I ragazzi si lamentarono, borbottando tra loro, poi si mossero. Cathleen sperò che avessero deciso di andare via, invece accerchiarono la sabbiera e si strinsero attorno a lei. Qualcuno che era rimasto alle sue spalle l'afferrò per i capelli, strattonandola all'indietro.

«Tu a me così non rispondi, capito?»

Il ragazzo – lo stesso che aveva parlato prima – l'afferrò anche per la spalla, e quando lei alzò le braccia per contrastarlo lui la spinse di lato, gettandola a terra. Cathleen cadde di faccia contro la sabbia, le risate degli altri ragazzi ad assordarle le orecchie mentre sputacchiava i granelli che le erano entrati in bocca. Alcuni rimasero tra i denti, stridendo quando li digrignò in preda al nervosismo.

«Maledetto—!»

Di nuovo lui l'afferrò per i capelli, e quando la tirò su riuscì a vederlo: era un ragazzo alto, con i corti capelli verde scuro tirati all'insù e una felpa troppo grande benché avesse una stazza imponente – o quantomeno lo era se paragonata alla sua. Si chiamava Ronn, o qualcosa del genere; Cathleen non ricordava ancora i nomi di tutti, ma si stampò quel faccione rotondo bene in mente mente.

«Toglimi quelle mani puzzolenti di dosso!» Tentò di liberarsi graffiandogli i polsi, ma qualcuno le afferrò le braccia e le tenne ferme mentre si dimenava, scalciando e spingendo via la sabbia.

«Stammi bene a sentire, Creteen.» Ronn tirò ancora di più i capelli, piegandosi per sussurrare al suo orecchio. «Sei nuova, quindi ti spiego come stanno le cose: qua il capo sono io e devi portarmi rispetto, altrimenti la prossima volta così ci finisci tu.»

Cathleen seguì l'indice che aveva allungato per indicare il suo castello, poi trattenne il fiato. Altri due ragazzi scavalcarono il bordo della sabbiera, poi si avvicinarono alla sua creazione e cominciarono a scalciare e calpestare ovunque.

«No! Brutti... Smettetela!» gridò Cathleen, contorcendosi in ringhi feroci. La presa attorno alle sue braccia era salta, stringeva tanto da fare male, e Ronn tirava così forte che alcuni capelli si erano strappati. «Ve la faccio pagare, teste di cacca! Cretini! Bastardi!»

Il gruppo rise e continuò nella sua opera di distruzione finché del castello non restò solo un cumulo informe di sabbia bagnata. Solo allora Ronn e i suoi la liberarono, e Cathleen cadde in avanti con le mani a sostenerla per non spiaccicare di nuovo la faccia nella sabbia. Guardò ciò che restava della sua costruzione, ma con essa se n'erano andati anche il calore del sole, le voci dei suoi genitori, la sua allegria. Restava solo il freddo soffio del vento e una rabbia così intensa da bruciarle il petto, pizzicandole gli occhi – li strinse per scacciare le lacrime senza asciugarli. Non avrebbe pianto, non di fronte a loro, non gli avrebbe dato anche la soddisfazione di vedere quanto aveva fatto male.

«Stai al tuo posto, sfigata!» Ronn le calciò della sabbia addosso, poi si allontanò ridendo insieme agli altri.

Cathleen restò in ginocchio nella sabbiera, inspirando piano per contrastare il magone che le annodava la gola. Codardi maledetti. Idioti. Stronzi. Si divertivano a fare i gradassi in sei contro uno? Avrebbe giocato sporco anche lei, allora. Li avrebbe fatti pentire di ogni singola risata.

Aspettò la notte per agire. Sgusciò fuori dal letto in silenzio, attenta a non svegliare le altre ragazze che dormivano nella sua stanza. Controllò che il corridoio fosse libero, i sensi in allerta per captare suoni o movimenti sospetti, ma l'orfanotrofio era silenzioso. Cathleen avanzò a piedi scalzi, muovendosi furtiva verso lo stanzino in cui le Lucille tenevano il materiale per le pulizie e altre cose che, a quanto pareva, a loro non era permesso toccare. Per sicurezza, dicevano. Avevano chiuso la porta a chiave e quella vecchia decrepita Lucilla Chiara se la teneva appesa al collo persino mentre dormiva, perciò Cathleen aveva portato con sé due lunga forcina per capelli. Sarebbe stato più facile con gli attrezzi che le aveva regalato papà Darby, ma quelle disgraziate non le avevano permesso di tenerli con sé. Chi insegna certe scelleratezze a una ragazzina?, avevano borbottato le Lucille. Le forcine, però, non le avevano requisite; era banale, però nessuno ci pensava mai. Per questo papà Darby le aveva insegnato a usare anche quelle.

Cathleen sfilò le forcina dai capelli, ne piegò una e le infilò nella serratura. Erano abbastanza resistenti da permetterle di fare pressione sui perni, e dopo alcuni istanti di paziente lavoro uno scatto deciso le offrì l'agognata ricompensa. Le labbra di Cathleen si curvarono all'insù quando aprì la porta, intrufolandosi in una stanza così buia che dovette abbassare l'interruttore per la luce, ché non c'erano finestre in grado di filtrare il bagliore lunare. In breve trovò ciò di cui aveva bisogno: una scatola di fiammeri, una pezza di stoffa e una bottiglia di alcol puro – o comunque qualcosa di infiammabile, come avvertiva il simbolo sul vetro scuro, perciò sarebbe andato bene. Cathleen ne ebbe conferma quando la stappò e l'odore pungente dell'alcol le penetrò le narici, facendole arricciare naso e bocca in una smorfia. Bagnò la pezza con l'alcol e si affrettò a farla scivolare all'interno della bottiglia finché una discreta quantità di stoffa non fu immersa nel liquido, poi sgattaiolò via.

Penombra e silenzio la seguirono fino allo stanzone in cui dormivano i ragazzi. Cathleen schiuse la porta con cautela, la bottiglia stretta in una mano e la scatola di fiammiferi nell'altra. Non aveva idea di quale dei tanti lettini in fila lungo le pareti fosse quello di Robb e dei suoi, c'era troppa poca luce ed erano tutti sotto le coperte, ma non aveva importanza. Appoggiò la bottiglia a terra, strisciando la testa di un fiammifero contro la striscia ruvida per accanderlo, poi lo utilizzò per dare fuoco alla lingua di stoffa che fuoriusciva dalla lingua della bottiglia. Era stato papà Quentin a spiegarle come fare, come funzionava.

Chi insegna certe scelleratezze a una ragazzina? Dei genitori fantastici, ecco chi! E grazie a loro avrebbe ottenuto la sua rivincita.

«Sveglia, facce da culo puzzolenti!» urlò, allargando il sorriso. «È l'ora dell'arrosto!»

Lanciò la bottiglia. La scia luminosa della fiamma descrisse una lunga parabola a mezz'aria prima di schiantarsi al centro dello stanzone, schizzando alcol e vetri tutt'attorno. Bambini e ragazzi urlarono quando il fuoco divampò sul pavimento e lambì le coperte, i volti pallidi di paura illuminati dalle fiamme. Si agitarono nei letti e si precipitarono giù per cercare la fuga, alcuni ammassandosi alla finestra, altri puntando la porta, ma questi ultimi si fermarono quando si accorsero di Cathleen sulla soglia.

«Sei stata tu?!» ringhiò Robb, facendosi spazio tra loro.

«Come cavolo ha fatto?» chiese qualcuno.

«È una Dotai!» azzardò qualcun altro. «Siamo spacciati!»

Cathleen scoppiò a ridere. «Ficcatevelo bene in testa, sfigati: da oggi il capo sono io, mettetevi contro di me e la prossima volta ci finite voi, nelle fiamme! Questo è il regno di Cathleen, adesso, e voi non potete farci niente!»

Il regno di Cathleen durò mezza giornata, poi la spedirono in riformatorio.



Finalmente facciamo la conoscenza di Cat, una signorina molto tranquilla e a modo xD

Fa strano scrivere il suo nome per intero, ma dovremo aspettare Longshot per avere solo "Cat" dato che non è un semplice soprannome (circapiùomenoquasi)

Che impressione vi ha fatto? Come vi aspettate che sarà il suo rapporto con gli altri? :3

Io so solo che mi fa molto ridere il fatto che abbia uno dei suoi ricordi più felici in spiaggia, mentre Kolt ha uno dei più traumatici. Ottimo, perfetto, fantastico!

Purtroppo né domani né Domenica avrò modo di scrivere dato che ho amici a casa, quindi la prossima oneshottina la pubblicherò lunedì :') Buon weekend ♥

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