Feierabend*
Il lavoro non mi piace – non piace a nessuno – ma mi piace quello che c'è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi. La propria realtà – per se stessi, non per gli altri – ciò che nessun altro potrà mai conoscere.
~ Joseph Conrad ~
Era passata una settimana dall'incidente con Katsuki e da quella specie di tregua che aveva instaurato con lui.
Izuku stava fissando fuori dalla finestra la vivacità delle strade sottostanti. La tensione tra lui e il biondino rimaneva palpabile, pure a casa, e i loro scambi si limitavano a sorrisi imbarazzati da parte dell'uno e cenni educati da parte dell'altro. «Va tutto bene, Izuku?», chiese Masaru, entrando in quell'ufficio luminoso e notando subito lo sguardo distante del giovane.
Lui e Mitsuki in quella settimana avevano cercato di fare il possibile per aiutarlo a diventare indipendente, provando a tenerlo occupato con pratiche burocratiche, solo per vedere se qualcosa riuscisse a entusiasmarlo. Ma per quanto Izuku apprezzasse i loro sforzi, non poteva fare a meno di sentirsi soffocato dalla monotonia della vita d'ufficio, il che era quasi un paradosso, perché al Rifugio avevano una serie di attività molto rigorose, cadenzate e, spesso noiose. Ma quello sembrava diverso.
Perché occupare il tempo della propria libertà finendo in una nuova prigione?
«Uh! Sì.», rispose frettolosamente Izuku, forzando un sorriso. «Stavo solo... Riflettendo.»
«Prenditi il tempo che ti serve...», intervenne l'uomo, con voce calda e incoraggiante. «Se vuoi fare qualcosa di particolare, non esitare a chiedere, sai.».
«Grazie...» sussurrò il ragazzo, con il cuore gonfio di gratitudine. «È che credo di aver solo bisogno di una pausa da tutte queste, ehm, scartoffie?».
Masaru sorrise a quella definizione e convenne che era difficile abituarsi a quella staticità fatta di computer, fogli scritti e telefonate.
«Ti dispiace se faccio un giro per l'ufficio?»
«Certo che no.», rispose l'uomo. «Vuoi che ti accompagni o preferisci esplorare da solo?».
Izuku rimase interdetto, perché erano giorni che lui ormai stava senza guinzaglio e girava liberamente tra gli uffici di Mitsuki e Masaru e quello a lui assegnato. Ma così...
«Da solo... Se-se posso, eh!».
«Certo! Fai pure con calma. Ci sono belle cose da vedere...», e, con un cenno di gratitudine, Izuku lasciò l'ufficio, ansioso di sgranchirsi le gambe e vedere cosa aveva da offrire il resto della Bakugō Corporation.
Vagò tra i cubicoli, osservando cautamente la gente che, come formichine operore, batteva sulle tastiere, scartabellava fogli, rispondeva a telefonate insistenti. Era un mondo che non faceva per lui, lo sapeva. Mentre infilava le mani in tasca e ricambiava gli sguardi curiosi del personale amministrativo, si disse che quello non poteva essere un lavoro per lui.
Ma, alla fine, quale era il lavoro per lui? Che lavoro poteva davvero aspirare a fare?
Ben presto i suoi passi lo condussero ad una uscita di servizio, che portava alle scale antincendio.
Prese la porta tagliafuoco e percorse quella rampa di scale che lo separava dal trentanovesimo piano.
Il corridoio in cui sbucò sembrava uguale a quello sul piano superiore, ma non c'erano cubicoli, ma meravigliose stanze dalle pareti vetrate, con delle fasce satinate nella parte bassa, e l'aria sembrava più frizzante: le persone dentro quei meravigliosi acquari di cristallo, così prese dalle loro discussioni o concentrate sulle loro scrivanie, sembravano emanare pura energia creativa.
«Occhio!».
Fu quasi investito da una ragazza bionda, minuta, che sembrava perdersi dentro i campioni di tessuto che gli ingombravano le braccia. Gli regalò un debole sorriso, prima di entrare in una delle stanze trasparenti e mollare il carico su un tavolo lungo e candido.
Incuriosito, Izuku mosse i passi con incertezza, seguendo la biondina e, mentre percorreva il corridoio ben illuminato, si soffermò a osservare degli schizzi e dei disegni esposti sulle pareti. Era un mondo lontano dall'ambiente sterile del livello amministrativo superiore. Non poté fare a meno di sorridere mentre si girava e osservava quegli artisti al lavoro: la dedizione e l'entusiasmo che emanavano era in netto contrasto con le pile di carta senza vita che avevano consumato le sue giornate fino a quel momento.
«Ehi, tu!», lo richiamò una voce, strappandolo alle sue fantasticherie. «Ti sei perso?».
Izuku si girò a destra e vide un giovane ragazzo che lo scrutava con curiosità dall'altra parte del corridoio, affacciato oltre lo spigolo di uno di quegli uffici trasparenti. Aveva un viso amichevole e uno sguardo vispo che lo misero immediatamente a suo agio. I capelli scuri, scarmigliati gli davano un'aria di finta trasandatezza che lo incuriosiva, quasi quanto il metro da sarta che teneva mollemente al collo.
«Ah, no, io... Stavo solo... Stavo ammirando il vostro lavoro.», balbettò Izuku, massaggiandosi timidamente la nuca. «Non volevo fare l'impiccione...».
«Ma va'! Non stai facendo l'impiccione!», gli assicurò lui con un sorriso. «Vuoi che ti faccia fare un giro?», e fece un gesto circolare del polso, la mano col dito indice alzato, quasi ad indicare l'intero ambiente.
«Veramente?», chiese l'Alpha, la sua eccitazione visibile su quel viso sorridente. «Mi piacerebbe molto!»
«Grande!» esclamò, facendogli cenno di seguirlo nello studio. «Partiamo da qua allora!», poi gli allungò una mano, il puntaspilli vuoto legato strettamente al polso. «Kosei!».
Ci mise qualche istante a realizzare e a stringerli la mano. «Izuku!».
«Abbiamo qualche Alpha qui... Ma non ti ho mai visto... Sei nuovo?».
«Avete degli Alpha?», chiese subito Izuku, curioso. Ne fu colpito e stupito, anche se, per quanto i Bakugō fossero di mente aperta, avrebbe dovuto aspettarselo.
«Sì. Il magazzino è gestito da un Beta, ma ci lavorano principalmente Alpha. Sai, no? Forza fisica e menate del genere...», minimizzò il ragazzo, gesticolando e finendo per sistemarsi meglio la matita in bilico sull'orecchio destro. «Ma a vedere il tuo vestito, non sembri certo un magazziniere. O sbaglio?».
Quella domanda venne posta sulla soglia dell'ufficio, al cui interno il gruppo che stava lavorando si scambiò sguardi diffidenti, chiaramente per non averlo riconosciuto e le loro espressioni divennero ancora più caute quando videro la museruola che portava sul volto.
Tuttavia, Izuku affrontò il loro scetticismo con un sorriso caloroso, rifiutandosi di lasciare che il loro giudizio smorzasse il suo entusiasmo. «N-no. Io sono dell'ufficio. Di sopra.».
Li sentì fermare forbici, macchine da cucire e fogli a quella sua affermazione, udendo il borbottio sommesso che s'era alzato dalle loro postazioni.
Era così strano? Non gli aveva appena detto che avevano già degli Alpha in quella strana azienda?
«Che bizzarro.», sentenziò Kasai, prima di fare un gesto ampio del braccio e indicare i colleghi, tornati quasi immediatamente ai loro lavori: «Questa è la parte dei prototipi di sartoria. Qui confezioniamo i campioni per lo streetwear per la prossima stagione.».
«Stre-streetwe-ear?».
«È abbigliamento informale... Ma fa più figo dirlo così! Non senti? Come ti riempie la bocca? Prova a dirlo meglio!»
«Streetwear...?»
«Mmmh... Già meglio!».
«Però... Sembra interessante!», esclamò Izuku, con la genuina curiosità che brillava nei suoi occhi. «Posso... Posso avvicinarmi?».
Il giovane sarto esitò, ma poi annuì, permettendo a Izuku di scrutare gli schizzi e i campioni di tessuto sparsi sul lungo tavolo davanti a lui. Mentre con delicatezza saggiava la consistenza delle stoffe e osservava minuziosamente i dettagli colorati dei bozzetti, quel suo entusiasmo per la novità si era rivelato contagioso e la squadra non poté fare a meno di addolcirsi nei suoi confronti, rispondendo alle sue domande curiose con garbo.
Alla fine, con tutta l'innocenza possibile, Izuku domandò: «Chi è responsabile di tutto que-».
«Kasai!».
Il vocione che proveniva dietro di loro fece incassare la testa del giovane sarto nelle spalle, mentre si voltava con cautela verso quello che, a tutti gli effetti, doveva essere il suo responsabile: un uomo imponente, brizzolato, dalla mascella pronunciate e mani grandi come badili che ora gli stavano porgendo dei fogli che sembravano fatti di carta velina per quanto erano sottili. Quella finezza della grana della carta lasciava intravedere, controluce, linee nere e fucsia che si appaiavano e s'intrecciavano, continue o tratteggiate.
«Sssì?», sibilò quasi, con lo stesso sguardo colpevole di un bambino che ha appena fatto cadere un vaso con una pallonata.
«Chi è questo qui?».
Entrambi i ragazzi si voltarono e, per quanto Kasai cercasse di dissimulare, si sentiva totalmente fottuto. «Lui è-»
«Izuku.», e allungò una mano in direzione dell'uomo, offrendogli un debole sorriso, provando a rilasciare quel tenue odore di erba umida per cercare di presentarsi al meglio verso quello che aveva tutta l'aria di essere un Omega. Ma non odorava da Omega. Sembrava che emanasse solo quel profumo alcolico di dopobarba al muschio bianco, che gli fece storcere il naso.
L'uomo però non prese la mano del giovane, non la strinse. «Hai finito di distrarre i miei subordinati, Alpha?», berciò quel Beta, aggrottando le sopracciglia con fare minaccioso.
«Signor Kan lui... Io gli stavo solo facendo fare un giro...», tentò di giustificarsi Kasai.
«Beh, giro finito.», e l'uomo gli cacciò sul petto i cartamodelli con fastidio. «Tornate al lavoro.».
Gli occhi di Izuku si spalancarono, colto alla sprovvista dall'improvvisa ostilità. «M-mi dispiace...», balbettò, sentendo le guance avvampare per l'imbarazzo. «Non volevo causare problemi.»
«Allora non farlo.» sbottò il sarto, facendogli cenno di allontanarsi con disprezzo. «Siamo impegnati qui e non abbiamo tempo per le distrazioni.».
Con un tuffo al cuore, Izuku annuì e si voltò per andarsene, il suo precedente entusiasmo ora sostituito dalla delusione. Non aveva intenzione di essere un fastidio; era stato semplicemente curioso riguardo al lavoro che si stava svolgendo intorno a lui, sentendo di nuovo un profondo senso di isolamento insinuarsi nel suo cuore.
I colleghi che erano in quella stanza ripresero le loro mansioni in silenzio e a capo chino e pure Kasai, mesto, lanciò un'occhiata di scuse a Izuku, mentre questi veniva afferrato per una spalla dal responsabile e fatto uscire dall'ufficio. «Quindi fila via!».
La porta di vetro sbatté dietro le spalle di Izuku col tonfo metallico della chiusura a riecheggiare nel corridoio e fin dentro le sue ossa.
«Non badarlo.».
Il ragazzo si voltò a sinistra dove, lungo il corridoio, stava camminando una donna minuta, giovanile, con capelli ricci color biondo miele e occhi scuri e vivaci dietro occhiali rotondi dalla montatura nera. Era forse più bassa di Mitsuki e la sua presenza sembrava irradiare un'energia calda e invitante.
«Quello lì è solo un vecchio brontolone.», e la vide tirare fuori la lingua in direzione del sarto che, indignato, gli aveva gentilmente rivolto un dito medio da dietro il vetro del proprio ufficio.
Izuku esitò, incerto se restare o andarsene, viste le premesse di quel primo, disastroso tentativo di esplorazione.
Nel suo tentennare, la donna l'aveva raggiunto e poteva assaporarne l'odore tenero delle albicocche e della mandorla, fuse assieme in un aroma delicato e perfetto, che smorzava il pungente profumo del caffè che si levava dal bicchierino che stava tenendo in mano con innata eleganza.
Lei lo fece trasalire, rivolgendogli un sorriso incoraggiante. «Vieni con me.», lo invitò, facendogli cenno di seguirla nel suo incedere frettoloso, prima di estrarre dalla tasca posteriore dei jeans un cellulare. «Mi farebbe bene avere un paio di occhi curiosi per un piccolo progetto a cui sto lavorando.»
«Chi? Io?»
«No. Mio nonno.».
«Lei... Lei è sicura?» chiese Izuku, speranzoso ma cauto. «Non voglio disturbare nessun altro.».
Percorreva il corridoio con il bicchierino di caffè in mano e nell'altra il cellulare su cu scriveva in modo convulso con la destrezza di una dodicenne aspirante influencer. Ma lei non aveva dodici anni.
Izuku intuì che era lì da tanto tempo eppure non avrebbe saputo dirne l'età con esattezza.
Era silenziosa come una volpe a caccia: ginniche multicolor di un marchio che non conosceva, le caviglie sottili che spuntavano da lì per poi infilarsi in un paio di jeans dalla forma inconsueta, neri con una grande etichetta con scritto Maison Margiela in un carattere semplice stampato sulla tasca posteriore.
«Te l'avrei chiesto?», lo rimbeccò lei, senza degnarsi di guardarlo. Ad ogni passo i suoi ricci sottili ondeggiavano e, sulla pelle leggermente abbronzata del suo collo spiccava chiaramente una cicatrice fresca di un marchio.
La sua mente vagò e pensò di non aver mai visto sul collo di Mitsuki nulla di simile. O, almeno, non ci aveva mai fatto caso.
«Non capita tutti i giorni di lavorare con qualcuno come te. Sarai il manichino perfetto per il mio nuovo design!», la udì borbottare, il tono allegro nella voce.
Izuku scaldò il proprio sorriso mentre si avvicinavano alla postazione di lavoro della donna: un ufficio spazioso, che prendeva buona parte di quell'ala del trentanovesimo piano, la vista mozzafiato sulla città. Probabilmente doveva essere una persona molto importante per quella azienda.
Lei gli aprì la porta a vetri e lo fece entrare. Una dolce nota di fiori profumava l'aria e lui si sentì un po' spaesato a vedersi puntati addosso sei paia di occhi curiosi che lo squadravano da capo a piedi.
«Oh, wow!».
«Ma hai preso uno del magazzino, boss?».
Izuku esitò, fermandosi appena oltre l'ingresso dell'ufficio della donna, mentre i suoi occhi verdi osservavano il caos organizzato di campioni di tessuto e sulle tavole colorate appese, ove spiccavano disegni di fantasiosi abiti a balze e pizzi o in cui l'abito sembrava scomposto nelle sue singole parti; ne ammirava i design innovativi che riempivano lo spazio dato dal foglio bianco. E quei sei ragazzi, più o meno giovani, che avevano tutta l'attenzione puntata su di lui, mettendolo profondamente a disagio.
«Ehi! Tu devi essere quello nuovo!» intervenne un terzo assistente, uno biondino, dagli occhi fin troppo vispi, studiando Izuku con curiosità.
«Madonna che impiccione che sei!», lo frenò una ragazza dai capelli arancioni, tirandogli una pacca sulla spalla.
«Uhm... S-sì, sono io.», ammise Izuku, massaggiandosi la nuca. «Ho iniziato a lavorare qui di recente...».
Poi qualcuno tossicchiò e i ragazzi si ammutolirono di colpo, rivolgendo l'attenzione alla donna che sembrava davvero essere il loro capo. «Mi fate un fischio quando la finite?».
«Scusaci boss!», dissero in coro, quasi fossero cagnolini ubbidienti e ben addestrati.
Izuku annusò l'aria, ma non percepì nulla, se non quell'odore floreale che lo infastidiva un po' più del normale.
«Vieni ragazzo.», e lo prese per la manica, conducendolo verso il fondo di quell'ufficio, distante dalle vetrate, verso un manichino vestito con una giacca leggera: il tessuto color ghiaccio in netto contrasto con gli inserti color cobalto. Il design quasi futuristico catturò l'attenzione di Izuku, che si ritrovò a meravigliarsi degli intricati dettagli in rilievo sulle maniche di quella giacca e dalle fascette di tessuto intrecciato che erano state applicate in punti strategici.
«Ecco, provalo.», suggerì la donna, sganciando la giacca dal manichino e porgendola a Izuku. «Sei un po' sciupatino per essere un Alpha, ma almeno non sei un nanerottolo. Ho bisogno di avere qualcuno della tua altezza.»
«Ehi!».
«Taci un po' Neito!».
Izuku si voltò appena ad osservare quel breve scambio acceso tra i due e ne sorrise. Quell'ufficio era decisamente più informale di quello da cui era stato quasi sbattuto fuori a calci.
Un colpetto sul braccio lo riportò con l'attenzione alla donna che gli stava porgendo la giacca e che l'aiutò ad infilarla.
«Senta, ma... Ne è sicura?», chiese il ragazzo, con voce dubbiosa. «Non voglio rovinarla...»
«Mai stata più sicura!», ridacchiò la donna.
Mentre sistemava la vestibilità, non poté fare a meno di lanciare uno sguardo ai sei assistenti che l'avevano lasciato perdere come se non fosse mai esistito ed erano tornati a lavorare diligentemente, alzando di tanto in tanto lo sguardo per osservare fuori dalle grandi finestre o per scambiare qualche battuta rilassata.
«Ti sta benissimo!» esclamò la donna, facendo un passo indietro per ammirare la sua opera su quel bel ragazzotto dal viso gentile, prima di alzarsi in punta di piedi ed afferrargli le spalle con le mani, tastandone la consistenza sotto i palmi. «La giacca andrebbe riempita un po' di più... Potresti andare nella palestra al ventisettesimo piano ed allenarti. Devi iniziare a fare un po' di muscoletti o finirà che mi toccherà trovare un altro mannequin!»
«Ma-manne-cosa?».
La donna sorrise a quegli occhi grandi e tanto spaesati, alle palpebre sbattute nel tentativo di capire: «Indossatore. È francese. Mannequin. Ripeti.».
«Ma-manne-quin?», rispose, mentre il rossore si insinuava sulle sue guance lentigginose.
«Ecco, bravo. Vieni, guardati.», e lo trascinò di nuovo, di qualche passo, di fronte ad uno specchio a figura intera, facendogli ammirare il modo in cui la giacca gli cadeva perfettamente addosso. Il colore del ghiaccio contrastava con i suoi capelli verde scuro e gli inserti cobalto, per quanto aumentassero la connotazione sportiva di quella giacca, aggiungevano un tocco di raffinatezza. Non poté fare a meno di arrossire quando intravide se stesso nel riflesso, assieme al sorriso pieno di quella donna che stava accanto a lui. «Visto?».
«Wow!», esclamò, girando appena le spalle per rimirarsi nello specchio, provando a camminare per apprezzare come tutte quelle fascette di tessuto contribuissero a dare movimento e dinamismo ad ogni gesto. «...non avrei mai immaginato di indossare qualcosa del genere...», rifletté poi ad alta voce, voltandosi verso la donna, che continuava a guardarlo da dietro la montatura degli occhiali, arricciando le labbra in una smorfietta divertita.
Tuttavia, mentre Izuku continuava a studiare la giacca, si scoprì interessato non tanto alla propria immagine che pian piano stava imparando ad apprezzare in quelle vesti un po' futuristiche, quanto più interessato verso gli schizzi e i modellini disegnati su fogli sparsi per la stanza. «L'ha disegnato lei?», azzardò.
«No. Uno di quei sei scapestrati che hanno assunto per darmi una mano.», borbottò, guardando i ragazzi, di cui tre erano chini sopra lo stesso cartamodello con metro e matita. «Ma anche se non è merito mio, ti ringrazio lo stesso. Anche a nome loro...», e gli tese una mano. Izuku ci mise un momento a collegare quel gesto, tanto che gliela strinse con poca forza, presentandosi quasi con un filo di voce: «Izuku.».
«Portia!», rispose lei, allegra, con le guance arrossate dall'orgoglio. «E dammi del tu, o mi farai sentire ancora più vecchia!», continuò, tornando ad aggiustare le maniche di quella giacca, borbottando qualcosa che il giovane non capì, facendo passare il suo sguardo perplesso tra lei, che era andata a prendere un puntaspilli con passi veloci e i ragazzi che avevano alzato la testa dal tavolo per osservarlo.
«Sai cosa non mi convince?», parlò piano la donna. «Il retro.».
Izuku voltò la schiena allo specchio, pensieroso, cercando di guardare cosa non andasse bene. «Non è un po'...ehm... Spoglia?».
«Non avevo mai sentito definire un abito "spoglio"!», arricciò le labbra la donna, «Però sembrerebbe il termine azzeccato, giovane.»
Izuku non riusciva a staccare gli occhi dalla propria immagine finì a quando non percepì un improvviso slancio, qualcosa che iniziò a ribollire dentro di lui, come se quella breve, estemporanea smania gli facesse prudere le dita tanto da torturarle, le une con le altre, provando ad attirare l'attenzione della stilista.
«Portia?», cominciò esitante, «Pensi che potrei provare a fare un disegno anch'io?».
«Tu?».
«Sì... Mi è venuta un'idea per la schiena... E vorrei buttarla giù, ecco...».
Voleva contribuire, senza una reale motivazione. Lo avevano interpellato solo per fare da manichino e gli avevano chiesto un parere. Ora, il suo occhio per nulla esperto aveva innescato tutta una serie di piccoli pensieri, di idee colorate, di linee che doveva tracciare su carta.
«Oh, beh...», si fece pensierosa Portia, fingendo riluttanza. «Non so se saresti in grado di eguagliare il livello di talento che possiedono i miei assistenti...», ma riconosceva bene quello sguardo. In tanti anni di lavoro ne aveva avuti di assistenti e pochi (pochissimi) rivelavano una tale caparbietà e curiosità ad una prima, fugace occhiata. E sapeva altrettanto bene che la sua ritrosia lo avrebbe in realtà spronato.
«Per favore?», Izuku insistette, i suoi grandi occhi verdi imploravano sinceramente. «Un disegno solo... Poi prometto che vi lascio lavorare in pace!».
«Va bene.», concesse Portia, incapace di resistere al suo entusiasmo. «Ma un disegno solo!», aggiunse, un mezzo sorrisetto che Izuku non notò mentre si sedeva accanto a uno dei suoi assistenti, un sorriso grato a illuminargli il volto quando lei tirò fuori un rotolo di carta velina chiara e se lo fece tagliare dalla ragazza con i capelli arancioni.
«Togli la giacca e rimettila sul manichino.», ordinò, senza degnarlo di uno sguardo, attenta solamente alla lunghezza del pezzo di carta sottile che cercava di distendere, arrotolandola al contrario.
Quando gli fu accanto, alzò il volto verso il ragazzo e, assottigliando gli occhi, iniziò: «Prima regola: per superfici ampie bisogna lavorare in grande. Se hai in mente una decorazione per una porzione consistente di tessuto la devi pensare in grande. Il piccolo serve solo per quei decerebrati che hanno bisogno della visione d'insieme. Per i dettagli serve un close up, al massimo uno schizzo a dimensione reale. Chiaro?».
Il ragazzo afferrò il pennarello sottile che lei gli porgeva, mentre un assistente fissava con degli spilli la carta al tessuto della giacca. «Capito.».
«Prego.», Portia fece un gesto con la mano. «Stupiscimi.».
Izuku diede un'ultima occhiata alla giacca nel suo insieme, girando attorno al manichino, il labbro inferiore preda degli incisivi e un cipiglio concentrato che quasi era adorabile.
Decostruì mentalmente le componenti e immaginò un nuovo design che potesse basarsi su quello già esistente.
La punta del pennarello nero scivolò sulla carta, lasciando dietro di sé tratti audaci e dettagli intricati.
Più disegnava, più chiara diventava l'immagine nella sua mente. Izuku provò un'eccitazione crescente mentre osservava la sua idea prendere forma.
«Interessante.», mormorò Portia, sbirciando lo schizzo da sopra la sua spalla. I suoi occhi brillavano di approvazione e non poteva fare a meno di sentirsi colpita dall'inaspettata creatività del giovane Alpha.
I suoi assistenti si ammutolirono, perché quello era un evento più unico che raro.
Quando Izuku staccò la matita dal foglio, si voltò con speranza verso la stilista: «Allora?»chiese Izuku, con il cuore gonfio di speranza. «Pensi che vada bene?».
«Draghi e fiamme?».
«Draghi e fiamme...».
«Perché?».
Izuku alzó le spalle con noncuranza, provando a sfregarsi i polpastrelli per togliere un po' dell'inchiostro con cui si era sporcato. «Non lo so. Lì vedi, no? Gli inserti cobalto...».
«Mh...».
«Le fiamme dello stesso colore ci stavano bene, secondo me. E il dragone bianco... Ha un che di tradizionale ed esotico allo stesso tempo... Mi era venuto in mente un personaggio di un vecchio film di animazione...».
«Haku.».
Izuku si illuminò nel sentire quel nome, i ricci verdi che seguivano il movimento della sua testa e gli occhi che quasi brillavano nell'osservare la donna dietro di lui. «Lo conosci?».
«Per chi mi hai preso ragazzino? Per una vecchia carampana?», sbraitò lei, fintamente offesa, mentre un sommesso ridacchiare si levava dalle postazioni dei suoi assistenti.
Poi Portia si ricompose e gli regalò un sorriso pieno, gli zigomi sollevati e le labbra colorate da un rossetto rosso che si aprivano piano, lasciando intravedere i denti piccoli e perfetti; la sua voce era piena di calore e ammirazione. «La sai una cosa, Izuku? Io penso che tu abbia qualcosa di veramente speciale qui.», e si indicò la tempia con un dito.
Non appena quelle parole lasciarono le labbra di Portia, in cuor suo Izuku seppe di aver appena trovato un piccolo posto dove stare bene. E, col tempo, avrebbe potuto dimostrare a Katsuki e ai suoi che li dentro anche lui poteva contribuire al benessere di quell'azienda.
«La tua tecnica è notevole...» lo elogiò Portia, con il tono di voce dolce ma sincero. «Sembra che tu abbia un dono naturale per questo, Alpha.».
Il giovane non rispose, limitandosi a fare un breve sorriso, con un rossore sincero che si diffondeva sulle sue guance lentigginose. Le sue dita esitarono per un attimo prima di riprendere il loro movimento fluido, guidate dalla ritrovata fiducia che le parole di Portia avevano acceso dentro di lui.
Non appena gli altri assistenti nella stanza si accorsero dell'ammirazione di Portia, iniziarono a lanciare sguardi curiosi al lavoro di Izuku. Sebbene inizialmente scettici nei confronti del nuovo arrivato, non potevano negare il potenziale che vedevano nel suo disegno. Sussurri di apprezzamento e stupore si diffusero a macchia d'olio tra loro, e anche i cuori più ostinati iniziarono ad addolcirsi nei confronti di Izuku.
«Ehi, sembra davvero bello.», commentò l'assistente biondino, avvicinandosi per dare un'occhiata più attenta. «Non pensavo che un Alpha potesse pensare qualcosa di così innovativo.».
Portia gli tirò una sberla sulla nuca, leggermente infastidita da quell'uscita arrogante: «A volte mi domando se tu sia davvero così intelligente, Neito. E fila a lavorare!», berciò, offrendo un piccolo sorriso di scusa in direzione di Izuku. «Sembra che voi Alpha siate sempre sottovalutati...».
Il ragazzo rilasciò un laconico «Già.», inclinando la testa e finendo di ammirare l'intricato disegno che aveva pensato, dopo aver aggiunto gli ultimi dettagli.
Quando si voltò, tuttavia, si ritrovò circondato da volti entusiasti. Ognuno gli offriva i propri suggerimenti o complimenti, creando una sinfonia di incoraggiamento che gli riscaldò il cuore.
«Io...», esitò, passandosi nervosamente una mano tra i ricci verdi e sistemandosi meglio la museruola. «No... É che sono semplicemente felice di aver potuto contribuire con qualcosa di utile...».
«Qualcosa di utile?» fece eco Portia, sorridendo orgogliosa al giovane accanto a lei, rivolgendo lo sguardo ad ognuno dei suoi collaboratori. «Credo che tu oggi abbia mostrato a tutti noi che c'è ancora così tanto che possiamo imparare e scoprire se solo siamo disposti a guardare oltre le nostre stesse supposizioni.».
«Grazie, Portia.», sussurrò, con gli occhi che brillavano e quello strano ufficio sembrava risplendere di calore e cameratismo, ben lontano dall'accoglienza gelida che aveva ricevuto solo poco prima. Mentre si crogiolava nel ritrovato senso di appartenenza, uno degli assistenti si precipitò nella stanza, il viso arrossato per l'urgenza.
«Alpha!», gridò il giovane, senza fiato. «Masaru-sama ti sta cercando!»
L'improvvisa interruzione fece sussultare Izuku, che si alzò velocemente, tenendo stretto in mano il pennarello con cui stava lavorando. Lanciò un ultimo sorriso grato a Portia prima di voltarsi per lasciare l'ufficio.
«Grazie di tutto, Portia.», disse, fermandosi sulla soglia della stanza, pronto a seguire l'assistente che l'aveva richiamato.
La donna gli rispose con un sorriso affettuoso. «Aspetta a ringraziarmi.».
«Perché?».
«Perché ho sensazione che ci vedremo molto di più d'ora in poi.»
Izuku annuì, con il cuore gonfio di una strana, debole speranza, e partì alla ricerca di Masaru.
•••
Katsuki Bakugō era seduto svogliatamente sulla comoda sedia in pelle dell'ufficio di Portia, i suoi occhi scrutavano svogliatamente a tratti fuori dai larghi finestrini, mentre i poveri assistenti della donna si prodigavano a sistemare sul lungo tavolo da lavoro i bozzetti e i prototipi dell'abbigliamento destinato alla nuova collezione per Enji Todoroki.
Portia si accorse di lui solo una volta che si avvicinò alla propria scrivania, una tazza gigante di caffè macchiato e corretto da qualche intruglio dolciastro, che pungolava l'olfatto dell'Omega, infastidendolo. «Dio... Già qui sei?».
Il biondino emise un mugugno svogliato, degnandola solo di un misero sguardo di sbieco. «Tendo ad essere puntuale.».
«No. Tendi a rompere le palle. E mi metti in soggezione i ragazzi.».
Lui scrollò le spalle con noncuranza, ondeggiando sulla sedia, un'occhiata veloce ai ragazzi suoi coetanei che si adoperavano per fare una buona figura agli occhi del loro capo.
«Meglio che si abituino con me, non credi?».
I due si scrutarono per un lungo momento, fino a che Portia non trangugiò una lunga sorsata di brodaglia. «Schioda il culo, ragazzino. Non ho tutto il giorno!», berciò poi, facendogli cenno con la testa di seguirla al centro della stanza, dove tutto era pronto sul lungo tavolo chiaro.
Con gli occhi scuri che scintillavano dietro gli occhiali, Portia iniziò a parlare al ragazzo che stava a un paio di passi da lei, le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni eleganti di fresco cotone di colore grigio. «Abbiamo appena finito di rivedere l'ultima serie di progetti.»
«Era ora, no?», grugnì Katsuki, guardando la serie di disegni sparsi sul tavolo. «Mostrami cosa avete pensato.».
Mentre Portia invitava a uno a uno i suoi collaboratori a spiegare cosa avevano pensato per quella collezione attraverso i vari bozzetti e prototipi, l'espressione di Katsuki rimaneva stoica, i suoi occhi acuti si restringevano criticamente verso ciascuno di essi. Nessuno di loro sembrava soddisfare i suoi rigorosi standard, e Portia poteva percepire la crescente frustrazione dentro di lui, assieme a quel suo aroma di zucchero bruciato che lo accompagnava sempre.
«Solo questo? Non rispecchiano molto l'idea che vi avevo dato...», mormorò sottovoce a Portia, massaggiandosi le tempie con irritazione.
«Pazienta...», mormorò Portia, un'espressione furba tutta rivolta nella sua direzione, tanto che Katsuki aggrottò le sopracciglia, domandandosi cosa volesse dire quel mezzo demonietto che tanto stava simpatica a sua madre...
«Sai che non ne ho, Portia. Con te poi...».
Ma il viso della donna venne percorso da un'improvvisa scintilla di ispirazione. «Il dessert ti stupirà.».
Dessert?
Cosa voleva dire quella donna?
La vide allontanarsi, aprire un'anta di uno degli armadi a scomparsa nel muro e tirare fuori un manichino con un po' di difficoltà. Gli assistenti della donna ridacchiarono e si davano piccole gomitate di incoraggiamento, consapevoli di qualcosa che lui non sapeva.
E questa cosa lo infastidiva enormemente.
Portia prese un profondo respiro e si fece da parte, lasciando che il giovane Bakugō si avvicinasse alla giacca sportiva color ghiaccio, ne ammirasse la complessità delle cinghie e delle fibbie sul fronte, gli inserti color cobalto sulle maniche.
«Tutto qui? Nulla di più di quanto ti avevo chiesto?», chiese, contrariato, la bocca piegata in una smorfia di disapprovazione. «È dozzinale. Lo sai anche tu che non andrà mai bene.».
«Chiudi quella boccaccia e avvicinati!», lo richiamò lei con tono scherzoso e un gesto della mano.
L'aveva quasi visto crescere in quell'azienda e si sentiva un po' come una zia col nipote preferito.
Le piaceva punzecchiarlo e rispondergli a tono come lui faceva con lei.
Katsuki obbedì e, sbuffando, le si avvicinò, facendo il giro di quel manichino e i suoi occhi si spalancarono mentre osservava i dettagli dell'enorme ricamo sulla schiena di quella giacca.
Le mani uscirono dalle tasche e le dita andarono a seguire le linee intricate e le forme audaci che componevano il disegno. Era un disegno tradizionale, certo, ma lo stile non era qualcosa di già visto o di ripetuto. Aveva visto serpenti e fiamme su varie stampe, su schiene sapientemente tatuate, ma era diverso. Quello stile era diverso... diverso da qualsiasi cosa avesse visto prima; eppure, c'era qualcosa di stranamente familiare in esso.
«Chi ha fatto questo?» chiese Katsuki, con voce bassa e intensa, incapace di trattenere l'eccitazione nel tono.
«Ah, beh... Ho fatto ricamare a Ibara. Se ci sono imperfezioni sai che deve prendere ancora bene la mano.».
Gli occhi rossi di Katsuki si posarono sulla ragazza dal volto serafico, che tremolava sotto il suo sguardo indagatore. «Ha fatto lei anche il disegno?».
Portia esitò, con un sorriso furbo sulle labbra. «No. Quello nuovo.», rispose vagamente lei, con tono scherzoso.
Katsuki aggrottò la fronte mentre scrutava i volti intorno a lui, alla ricerca di eventuali caratteristiche sconosciute. «Non vedo nessuno di nuovo qui.».
«Ah!», ridacchiò Portia, con gli occhi scuri che danzavano divertiti. «Intendevo la nostra ultima aggiunta alla squadra. Quello con gli occhi grandi e gentili. Quello con il sorriso che muove le montagne.».
La mente di Katsuki correva, cercando di ricordare chi corrispondeva a quella descrizione. Mentre il volto di Izuku balenava nei suoi pensieri, non poté fare a meno di provare una fitta di senso di colpa per come avevano lasciato le cose l'ultima volta che si erano parlati.
"Che sia lui?", si chiese, sentendosi allo stesso tempo incuriosito e impressionato da quella possibilità.
Poi tornò a fissare la donna al suo fianco, che se ne stava a braccia conserte sotto il seno, il mento sollevato e un sorrisetto compiaciuto stampato in faccia. «Stai dicendo... che Izuku ha fatto questo?», chiese Katsuki con cautela, quasi timoroso di dare voce a quel pensiero.
«Ha detto di chiamarsi così, sì. Occhioni verdi, una zazzera di riccioli dello stesso colore in testa...», confermò Portia, allargando il sorriso. «Ha un bel talento, non sei d'accordo?».
Katsuki annuì lentamente, con il cuore gonfio di ritrovato rispetto per quello stupido Alpha; perché , per quanto cercasse di negarlo, non poteva fare a meno di riconoscere l'innegabile abilità posseduta dal suo compagno. Sembrava che in Izuku ci fosse molto di più di quello che sembrava, e forse, solo forse, avrebbero potuto trovare un modo per valorizzarlo.
«Me lo concedi?».
«Ah?».
«Posso averlo qui?».
Katsuki passava lo sguardo dalla giacca al viso di Portia che sembrava alquanto speranzoso, mentre la sua mascella restava stretta per la tensione di quella richiesta.
Affidare l'Alpha a Portia e equivaleva dire di averlo tra i piedi. Ogni. Giorno.
Lo sguardo rimase fisso sul ricamo sulla giacca e Katsuki abbassò le spalle, la battaglia con se stesso persa quasi in partenza, mentre con tono fermo ma non scortese rispondeva a quella richiesta. «Fai tu. Chiedi a mio padre.», la liquidò, muovendo velocemente i passi verso l'uscita di quell'ufficio, come se gli stesse mancando l'aria.
«Contaci!», concordò Portia, osservando il suo piccolo Katsuki lasciare la stanza.
Lo conosceva fin troppo bene per non aver intuito che quella cosa lo stesse scuotendo più del previsto.
E per quanto il futuro per lei fosse sempre incerto, una cosa le era diventata chiara: quel giovane Alpha di nome Izuku aveva appena spostato le montagne, e Portia non poteva essere più orgogliosa di questo.
Didn't have a dime but I always had a vision
Always had high, high hopes (High, high hopes)
Had to have high, high hopes for a living
Didn't know how but I always had a feeling
I was gonna be that one in a million
Always had high, high hopes
~ Panic! At the disco ~
•••
*Tedesco: la sensazione piacevole nell'arrivare alla fine di una giornata lavorativa.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro