But now I'm here alone
Le persone più belle che abbiamo conosciuto sono quelle che hanno conosciuto la sconfitta, la sofferenza, lo sforzo, la perdita e hanno trovato la loro via per uscire dal buio. Queste persone hanno una stima, una sensibilità, e una comprensione della vita che le riempie di compassione, gentilezza e un interesse di profondo amore.
Le persone belle non capitano semplicemente: si sono formate.
⁓ Elisabeth Kübler-Ross ⁓
Il cuore di Izuku batteva forte quando il biondo si avvicinò a lui, il piccolo mazzo di chiavi luccicava nella sua mano. Il silenzio tra loro era pesante, carico di una tensione inespressa.
«Ricorda quello che ti ho detto.» si raccomandò Masaru. con la voce bassa e ferma mentre guardava suo figlio. «Non sprecare questa opportunità.».
Il volto di Katsuki si contrasse per l'irritazione, ma non discusse con suo padre. Invece, si concentrò sullo sblocco dei piccoli lucchetti sulla nuca di Izuku, sui movimenti rapidi ed efficienti delle proprie dita.
La museruola e il collare elettrificato, che fino a quel momento avevano causato così tanto disagio a Izuku, furono rimossi e lanciati con stizza sul materasso, producendo un sinistro clangore metallico.
"Finalmente..." pensò Izuku, ma non osò dirlo ad alta voce. Tirò invece su col naso, lottando per trattenere lacrime di contentezza che minacciavano di traboccare dagli angoli degli occhi mentre si portava immediatamente le mani a tastarsi il volto e il collo, raddrizzandosi e osservando gli altri due uomini con incredulità e riconoscenza, anche se sapeva che quegli affari sarebbero stati assenti solo temporaneamente.
«Ti concedo venti minuti al massimo.», avvertì Katsuki. «Mi aspetto che tu sia ripulito e pronto per allora. E che non faccia storie.».
Silenziosamente, Izuku annuì in accordo, cercando di reprimere il misto di paura e speranza che continuava a percorrergli le vene in mille brividi. «No-non creerò problemi. Giuro!».
«Bene.» rispose il biondo, lanciando un'ultima occhiata ai vestiti sul letto. «Ora vedi di darti una ripulita. Non abbiamo tutto il giorno.», borbottò Katsuki, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni, senza mai distogliere lo sguardo dall'Alpha.
«Giusto...», rispose Izuku, con la voce tremante. Aveva ben compreso che era meglio non sfidare Katsuki o farlo aspettare. Ma mentre si affrettava a raccogliere le sue cose, non poteva fare a meno di chiedersi se in lui ci fosse altro, oltre a quella fredda apparenza.
«Ricordate...», la voce calma di Masaru attirò la loro attenzione e si rivolse a entrambi con fermezza: «Questa è una casa, non un campo di battaglia. Fino a che starete qui, con noi, Mitsuki ed io vorremmo che vi trattaste a vicenda con rispetto.».
Detto questo, Masaru si fece da parte, permettendo a Katsuki di lasciare la stanza dopo un suo cenno della mano, regalando a Izuku un sorriso pieno e caloroso. Quando la porta si chiuse alle spalle dell'uomo, lasciando Izuku di nuovo da solo, in piedi al centro della piccola stanza, con il cuore che gli batteva forte nel petto. Aveva ancora la pesante sensazione di quello sguardo di fuoco su di sé, anche se Katsuki non era più lì.
«Venti minuti...», sussurrò Izuku a se stesso, ripetendo le parole di quell'Omega come se fossero un'ancora di salvezza. Il ticchettio della vecchia sveglia sul comodino sembrava diventare più forte ogni secondo che passava, spingendolo a muoversi velocemente.
Eppure, non riusciva a liberarsi della sensazione che quel breve momento di libertà non fosse altro che una crudele illusione, che sarebbe andata in frantumi non appena Katsuki fosse tornato.
Il giovane strinse l'asciugamano e i vestiti puliti contro il petto, prima di avvicinarsi alla porta, le dita che abbassavano con titubanza la maniglia, mentre nel corridoio sentiva ancora discutere.
«Pa', ti ho detto di lasciarmi passare.», udì ringhiare Katsuki fuori dalla porta con voce soffocata, ma ancora piena di impazienza.
«No.», gli rispose il genitore.
Con la mano premuta contro la porta, Izuku ascoltò attentamente le voci soffocate appena oltre la barriera. Sembrava che Katsuki stesse ricevendo una severa ramanzina da parte di suo padre. Le parole erano appena distinguibili, ma riuscì a percepire chiaramente l'emozione dietro di esse.
Quando finalmente si decise ad uscire dalla stanza credendo che fosse tutto finito, notò invece i due Bakugō ancora lì in corridoio e udì distintamente Masaru parlare: «Ti devi ricordare che è una persona, proprio come te e tua madre e non devi trattarlo come un oggetto che possiedi!».
«Lui è un cazzo di Alpha! Te ne rendi conto?», protestò il biondino, il suo tono sulla difensiva ma venato di incertezza, mentre gesticolava con fervore e suo padre continuava a tenerlo per un braccio.
«Essere un Alpha non lo rende meno meritevole di rispetto e dignità.», ribatté Masaru, con voce incrollabile. «Per quanto non lo sia nella realtà, se ai tuoi occhi risulta diverso da noi, questo comunque non ti da' il diritto di trattarlo come... come una bestia!».
Katsuki si accorse di Izuku oltre le spalle del padre e si irrigidì nel guardarlo, con un'espressione illeggibile sul volto.
«Venti minuti.», ringhiò al nuovo arrivato e Izuku sapeva benissimo che ci sarebbero state serie conseguenze se non avesse mantenuto quella richiesta e ci avesse impiegato più tempo. Probabilmente ci sarebbero state delle conseguenze anche per aver origliato in maniera tanto spudorata quella conversazione.
«E vedi di muoverti!», sbottò prima di voltarsi bruscamente, scrollarsi la mano dell'uomo dal braccio e andarsene con uno schiocco di lingua sul palato.
Masaru si era voltato con aria colpevole verso il giovane Izuku e l'aveva di nuovo lasciato solo in quella casa enorme e silenziosa congedandosi con un misero: «Ci vediamo dopo.».
Le parole dell'uomo, dette totalmente in suo favore, si ripeterono nella mente di Izuku mentre chiudeva la porta del bagno dietro di sé; il loro impatto risuonava nel profondo del suo cuore e alimentava la speranza di trovare la felicità e l'accettazione che aveva sempre desiderato. Ma per quanto volesse credere nella gentilezza delle parole di Masaru, sapeva che la fiducia era un lusso pericoloso nella sua attuale situazione.
Si spogliò con calma, osservando il bagno dalle piastrelle blu, lucide, con una doccia enorme racchiusa da un vetro spesso e trasparente, senza il minimo alone o residuo di calcare.
Il riflesso nello specchio di fronte a sé gli rimandava un viso dal colorito spento, gli occhi gonfi di pianto e il naso arrossato.
Osservò il torace magro, passando i polpastrelli sullo sterno e sulle prime costole visibili sotto la pelle, si tastò le braccia, diede una rapida occhiata a quei segni che spiccavano sul candore della pelle della schiena. Fece una smorfia di disgusto, prima di sentire un sentimento di rabbia montargli nel petto, fargli ribollire il sangue e minacciare di farlo piangere ancora e ancora. Odiava essere così sensibile, ma tutto quello era...troppo.
Katsuki, quella casa, la sua stanza, perfino la solitudine di quel bagno... Si sciacquò il viso con l'acqua fredda un paio di volte, prima di specchiarsi di nuovo: «Smettila.», si rimproverò, scuotendo la testa come per scacciare fisicamente i pensieri preoccupati. «Sei più forte di così. Devi esserlo.».
Il punto era che credeva di non meritarlo.
Non meritare quella gentilezza, non meritare quella stanza, o quella breve parentesi di libertà, la privacy di una doccia da solo... Credeva di non meritare nulla.
Non aveva meritato di stare con la propria famiglia, perché doveva illudersi di averne una nuova?
Non era questo ciò che gli dicevano ogni giorno? Di non essere degno di nulla?
Eppure... Raddrizzò le spalle e si preparò ad affrontare qualunque cosa lo aspettasse. Sapeva che non sarebbe stato facile, ma si rifiutava di lasciarsi spezzare dalle parole dure e dal comportamento freddo di Katsuki. Si rifiutava di soccombere a quella spirale di pensieri negativi e distruttivi che gli stava avvolgendo il cuore.
Aprì l'acqua della doccia e non aspettò che si scaldasse per finirci sotto; le gocce che cadevano sul suo viso, mescolandosi con gli ultimi resti delle sue lacrime, sulle spalle e le braccia, creavano una sinfonia ritmica che solo lui poteva sentire. Con ogni goccia che cadeva sul pavimento, lavava via silenziosamente il dolore e la tristezza che erano rimasti impressi nella sua carne per troppo tempo.
Quel momento di beata solitudine era tutto ciò di cui aveva bisogno per riprendersi. Senza urla, senza dover tenere la testa bassa e non guardare gli altri.
Si passò una mano sul collo, assaporando la sensazione della pelle liscia sotto i polpastrelli.
«Dieci minuti...», farfugliò a se stesso, ma il tempo sembrava aver rallentato, concedendogli una breve tregua dalla dura realtà che lo attendeva fuori da quel bagno pulito e ordinato. Ma man mano che i minuti passavano – dieci, poi quindici, poi mezz'ora – sapeva che non avrebbe potuto nascondersi per sempre.
Come se fosse stato un segnale, bussarono alla porta. Izuku si bloccò mentre la paura gli accapponava la pelle delle braccia pur stando ancora sotto il getto caldo della doccia.
«Ehi! Tutto bene lì dentro?». La voce aspra di Katsuki tagliò il ronzio costante della doccia. Mancava il solito mordente, lasciando pensare a Izuku che il discorso di Masaru avesse influenzato un po'anche lui.
«S-sì!», rispose esitante, incerto su cosa dire mentre chiudeva l'acqua e provava ad asciugarsi più in fretta possibile, imprecando mentalmente sul proprio ritardo.
«Va bene, solo... Vedi di muoverti.».
Izuku sbatté le palpebre sorpreso. Anche il suo riflesso nello specchio lo era.
Perché percepiva della dolcezza nel tono di Katsuki? O era comprensione, forse? Scosse la testa, concentrandosi nel vestirsi in fretta, rischiando di scivolare sul pavimento nella premura di aprire la porta e ritrovarsi davanti il biondino accigliato. Il collare elettrificato era stretto nella sua mano.
«Continuerai a farmi perdere tempo?» ringhiò Katsuki, con voce profonda e autorevole, cogliendo Izuku di sorpresa. Nonostante le parole dure, c'era qualcosa di diverso nel suo comportamento che Izuku non riusciva a individuare.
«M-mi di-ispiace! Ho pe-erso la cognizione del tempo!», le sue dita tremavano mentre si allacciava il nastro della tuta in vita e si maledisse per essersi perso come uno scemo sotto la doccia.
«Solo... non metterci così tanto tempo la prossima volta.», mormorò, distogliendo lo sguardo da quella maglia scura troppo stretta su di lui e spostandosi per farlo passare per condurlo in camera da letto, con il collare di metallo che rimaneva nelle mani di Katsuki come promemoria delle loro dinamiche di potere. Izuku cercò di sopprimere il fastidio al pensiero di quella costrizione che gli si posava ancora sulla pelle.
Katsuki si sedette di peso sul materasso, l'attenzione focalizzata a controllare il collare, a osservarne ogni minima giuntura, prima di alzare lo sguardo verso Izuku, il collare tenuto aperto, rivolto nella sua direzione: «Inginocchiati.», ordinò. Ma il tono era meno brusco del solito, pur mantenendo quella naturale autorità nel timbro della voce.
Il comando esigeva obbedienza e Izuku deglutì a fatica, il nodo in gola quasi lo soffocava, ma seguì la richiesta. Le sue ginocchia premettero contro il pavimento di legno con un tonfo quasi impercettibile, e la sua testa si abbassò. Attraverso la cortina dei suoi capelli verde scuro intravide le pantofole marroni di Katsuki e le sue ginocchia aperte.
«Bravo.» mormorò Katsuki, la sua voce appena udibile sopra il respiro affannoso di Izuku, che in quel momento, si sentiva vulnerabile. Era come se il suo intero essere fosse stato messo a nudo davanti a Katsuki, e non potesse fare nulla per nascondersi dal suo sguardo penetrante. Cercò di calmare i suoi pensieri frenetici stringendo gli occhi, concentrandosi sulla sensazione delle assi ruvide del pavimento sotto le sue ginocchia e sui fruscii che il biondo provocava muovendosi.
Si costrinse a rimanere fermo, senza mai lasciare lo sguardo dalle pantofole di Katsuki mentre lo sentiva muoversi verso di lui, le punte delle dita a sfiorargli la pelle delicata del collo mentre si allungava sulla nuca prima di assicurargli il collare attorno alla gola e chiuderlo. Poteva percepire il suo sguardo, i suoi occhi che lo studiavano come un animale in gabbia, ma non osava alzare il capo.
«È per ricordarti il tuo posto, Alpha.», lo avvertì Katsuki, la cui voce sembrava una carezza di velluto intrecciata con l'acciaio freddo di quella costrizione; un agghiacciante promemoria del potere che aveva su di lui.
Un leggero fruscio riempì l'aria mentre Katsuki spostava il suo peso, avvicinandosi a Izuku. Il respiro del giovane si bloccò, l'attesa gli pizzicava la pelle come se fosse percorsa da mille minuscoli aghi. «Stai fermo.», ordinò ancora Katsuki, con voce bassa e ferma. Nonostante il disagio che gli agitava le viscere, Izuku trovò quasi impossibile non obbedire.
Le dita del biondo si mossero abilmente attorno al collo di quel giovane dai capelli verdi, fissando il collare con un movimento rapido. Il clack! tenue del lucchetto e un intenso brivido che gli percorreva il collo nello stesso momento in cui i polpastrelli del biondo gli sfioravano i ricci sulla nuca, tirandogli qualche ciocca, senza fargli male, come se lo stesse studiando.
«Interessante.», mormorò Katsuki, il suo respiro caldo contro l'orecchio di Izuku. «Dove hai lasciato la tua spavalderia? In doccia? Oppure è rimasta al Rifugio?». Poi sentì solo di nuovo un fruscio e quelle ginocchia e le cosce allontanarsi di nuovo dalla sua visuale.
Istintivamente alzò la testa, incrociando lo sguardo serio di Katsuki, che sembrava osservarlo con interesse: «La mia spavalderia?», rispose Izuku con un mezzo sorriso, non potendo fare a meno di sentire una scintilla di sfida accendersi nel petto: «Non l'ho lasciata da nessuna parte, Katsuki. È sempre con me, proprio come la mia determinazione. Forse dovresti guardare meglio.»
Katsuki rise leggermente, prima che gli afferrasse con prepotenza il mento e le guance: «Guardare meglio, eh?», e gli mosse la testa con prepotenza, osservandogli il viso, osservando la spuzzata di lentiggini che aveva sulle guance e sulla sommità del naso, le pagliuzze dorate all'interno dell'iride, nella parte più vicina alla pupilla, le sopracciglia che parevano disegnate. «Non sei male.», esclamò a voce bassa. «Il Direttore aveva ragione sulla tua buona genetica.».
Il cuore cadde, precipitando in una specie di buco da cui non si sarebbe sollevato facilmente.
Buona genetica.
Izuku capì che tutte le belle parole spese da Masaru, il suo volergli restituire una dignità persa da tempo... per Katsuki erano acqua fresca, che non l'avrebbe visto se non come un misero pezzo di carne.
Abbozzò un sorriso, che non gli illuminava tuttavia lo sguardo. «Il Direttore ha sempre ragione. Su tante cose.», gli uscì, il tono basso la cadenza quasi di sfida, lo sguardo di smeraldo assottigliato e piantato in quello di Katsuki, che ora aveva lasciato la presa sul suo viso e si sistemava meglio a sedere, come se avesse le spine sotto al culo al posto di un materasso confortevole.
«Ma non su tutto.» aggiunse poi Izuku, la voce tremante ma determinata. «Non su di me.».
Katsuki rimase in silenzio, lo sguardo fisso su di lui, tanto che poteva vedere la sorpresa nei suoi occhi, ma non c'era segno di rimorso o pentimento. «Non sono un pezzo di carne. Sono una persona. E merito rispetto. Proprio come ha detto Masaru.»
Mentre i loro occhi rimanevano fissi, Izuku non poteva fare a meno di chiedersi se avrebbe potuto trovare un modo per sfuggire a questo destino crudele. Sapeva che le probabilità erano contro di lui, ma non c'era altra scelta che sperare: sperare in una possibilità di libertà e sperare che un giorno avrebbe potuto reclamare la vita che gli era stata rubata.
Udì chiaramente la lingua che schioccava sul palato del biondo. «Mio padre ha le sue idee da Beta del cazzo. Io le mie.», tagliò corto Katsuki, alzandosi dal materasso, infastidito: «E non le cambio facilmente, stupido idiota.», e gli afferrò con forza i capelli, costringendolo a guardarlo, mentre continuava a parlargli a un palmo dal naso. «Adesso raccogli la tua merda e fai un po' di ordine. Stavolta i dieci minuti sono contati. Ti voglio già giù dalle scale appena saranno finiti. La strega ha preparato il pranzo anche per te. E sapere che dovrò sedermi vicino a te a tavola mi da' il voltastomaco.».
Un ultimo strattone prima di lasciare la presa e dirigersi a passo pesante verso la soglia, la porta sbattuta con forza dietro la sua schiena, lasciando Izuku con le mani nei capelli a massaggiarsi la testa per cercare sollievo, il cuore che sembrava caduto ancora più in basso in quel buco che gli stava risucchiando perfino la speranza.
Si trascinò a gattoni fino alla valigia aperta, cercando di ignorare il tremore nelle sue mani mentre si impegnava a scegliere i vestiti ammucchiati. Ogni indumento sembrava troppo prezioso per essere scartato.
Sospirò, prendendo una maglietta sbiadita che una volta era stata la sua preferita: per quanto volesse conservare questi resti del suo passato, sapeva che facevano parte di una vita a cui non avrebbe mai più potuto tornare. Ed era giunto il momento di lasciare andare e guardare avanti.
"Concentrati!", si disse severamente, asciugando col le dita un'altra lacrima che minacciava di fuoriuscire. "Non puoi permetterti di cadere a pezzi adesso!"
Combattendo il marasma di emozioni che minacciavano di riemergere, Izuku selezionò attentamente alcuni oggetti da conservare – ricordi di un tempo più semplice – e li mise da parte: con ogni pezzo che posava sul letto sentiva il peso del suo passato sollevarsi lentamente dalle sue spalle.
Anche le mani di Katsuki tremavano, dopo ogni pugno dato alle proprie cosce con violenza. Gli tremava perfino il labbro, forse perché la mascella era contratta per il fastidio e la rabbia ribolliva in lui come all'interno di un vulcano in eruzione.
Emise un ringhio frustrato, sbattendo i pugni ancora più forte, incurante dei lividi che ne sarebbero conseguiti. Non voleva che nessuno gli dicesse con chi avrebbe dovuto stare. Era un Omega, sì, ma questo non significava che fosse debole.
Per quanto ad un occhio esterno sembrasse alla stregua di un ragazzino capriccioso, Katsuki era stato cresciuto come un Omega volitivo, pronto ad affrontare qualsiasi sfida a testa alta. Ma questa volta si sentiva intrappolato, ingabbiato dalle aspettative della società e dalle insulse regole imposte da sua madre. La stessa madre che lo aveva reso così forte e indipendente.
Non voleva un Alpha. Non voleva dipendere da qualcuno solo per aumentare la propria credibilità! Voleva continuare ad essere rispettato per quello che era.
E quel che era certo non voleva uno smidollato come quell'I1507.
Odiava gli Alfa, li disprezzava con ogni fibra del suo essere e i suoi lo sapevano. Eppure, eccolo lì, costretto a prenderne in considerazione uno per il bene degli affari di famiglia. E, per quanto sua madre non ne avesse scelto uno come compagno per se stessa, insisteva, che ipocrita!, sostenendo che lui ne avesse bisogno, che non poteva essere preso sul serio come futuro leader d'azienda senza un Alpha al suo fianco.
Le sue mani tremavano mentre le stringeva contro il tessuto scuro dei pantaloni, tanto da far impallidire le nocche e mettere in rilievo i tendini e le vene sui dorsi. Le guardò dall'alto, con il respiro affannoso. Si sentiva come se si stesse sgretolando dall'interno, come se quel senso di frustrazione e impotenza lo corrodesse.
Cazzo, no che non lo voleva un Alpha!
Ma non importava quanto fosse arrabbiato o frustrato: sapeva che la stessa società che ingabbiava quelle bestie, costringeva anche gli Omega a sceglierli... Era intrappolato in un mondo che non riusciva a comprendere. E per quanto odiasse ammetterlo, era consapevole che avrebbe dovuto accettare quel piagnucolone di un Alpha.
Prese un respiro profondo, esalandolo lentamente: avrebbe trovato un modo per farlo funzionare, anche se ciò significasse andare contro tutto ciò in cui credeva, dimostrando a tutti che poteva essere rispettabile anche senza un animale da ammaestrare e portare in giro come un trofeo.
Si sporse verso il comodino, afferrando un flacone di medicinali e prendendo uno dei suoi soppressori a rilascio graduale, deglutendolo a secco con una smorfia. Non si sarebbe mai abituato all'amaro di quel medicinale.
Poi si alzò in piedi, fermamente deciso: doveva trovare il modo di essere fedele a se stesso, anche in un mondo che non lo accettava. E lo avrebbe fatto alle sue condizioni, anche a costo di rimandare anche quell'Alpha da dov'era venuto.
Mentre percorreva il corridoio, avvertì impossessarsi di lui un crescente senso di determinazione, direttamente proporzionale al tono troppo alto della voce della donna che parlava con quell'intruso poteva sentire il suono della voce di sua madre provenire dal soggiorno, ma la ignorò, concentrandosi invece sul suono del proprio cuore che, pian piano, prendeva un ritmo normale.
«Dov'eri finito? Ti stavamo aspettando!».
Diede un'occhiata astiosa a sua madre, alla mano che aveva posato mollemente al centro della schiena di quell'Alpha, sospingendolo all'interno della cucina con noncuranza...
«In bagno.». Non avrebbe permesso a nessuno di dirgli chi doveva essere. E sua madre non ne aveva più il diritto già da un po'. Poco importava che lei l'avesse selezionato lui tra una rosa limitata di possibili candidati. Ancor meno gli importava il modo in cui quell'odore di erba verde, appena tagliata, gli aveva solleticato le narici e aumentato la salivazione, portandolo a contrarre qualsiasi muscolo avesse al di sotto della linea dell'ombelico.
«Prendi pure posto qui, Izuku. - una pausa breve - Katsuki? Tu ti metti accanto a lui?». Un mugugno in risposta mentre si sedeva alla sinistra di quell'Alpha rip
Si sedette di fianco al nuovo arrivato, che si irrigidì a vederlo posare, sulla tovaglia accanto al bicchiere, il piccolo telecomando che poteva azionare le scosse sul suo collare.
Katsuki voltò di poco il capo e lo squadrò con aria severa, un piccolo ghigno a incurvargli le labbra, mentre la madre gli posava davanti una ciotola di ramen fumante e si ostinava a voler continuare una conversazione inutile. «Quella maglia forse ti è un po' stretta. – la donna si rivolse al marito – Lo potremmo portare oggi pomeriggio a prendere qualcosa, che ne dici caro?».
Katsuki osservò così tanto la madre che avrebbe potuto incenerirla con uno sguardo, perché stava catalizzando tutta l'attenzione su di sé, sul suo ciarlare costante. E, per certi aspetti, gli andava bene quella distrazione.
Si sporse di poco verso destra, la voce udibile solo dall'Alpha, mentre avvolgeva le bacchette attorno ai sottili spaghetti di grano. Avrebbe dimostrato a tutti che si poteva essere altrettanto rispettabili anche senza uno sporco Alpha al proprio fianco. E lo avrebbe fatto solo alle proprie condizioni.
Il ghigno si tese ancora di più, tanto da far tremolare al ragazzo dai capelli verdi perfino gli occhi.
«Buon pranzo, I-zu-ku.».
If only I could tell you how I feel
Cuz I know we were made for something real
If only we could learn to love each other
I wouldn't have to say this to myself
I hope you cry
⁓ Meg Myers ⁓
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