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Epilogo


Marzo

I raggi filtrano attraverso le persiane illuminando la stanza di un dolce bagliore dorato. Alle pareti sono appese le locandine di un paio di film e, poco distante, le foto che ritraggono me e Riccardo insieme, Riccardo e Cecily, Riccardo e sua madre. Il mio sguardo vaga all'interno della sua camera: si posa sulla scrivania ordinata, sugli armadi puliti, privi di qualsiasi traccia di polvere, e poi sul letto sfatto, sul lembo di coperta che tengo stretto al petto malgrado la pelle delle mie spalle che fuoriesce da essa sia già ricoperta di brividi.

Mi giro su un fianco, sistemo una mano sotto il viso e porto le ginocchia più in alto, quasi a sfiorare il seno nudo. Riccardo dorme accanto a me, a pancia in su, i capelli un'aureola scura attorno alla sua testa. Ha le ciglia lunghe e nere riposate sulle guance, la bocca distesa e leggermente dischiusa. Il suo respiro è regolare, quindi mi perdo ad ascoltarlo e a guardarlo mentre la vita fuori da queste quattro mura inizia a scorrere. Si sentono infatti i motori delle prime auto, qualche schiamazzo, gli urletti dei bambini che attendono l'autobus che li porterà a scuola alla fermata poco distante da qui.

Tendo una mano e gli accarezzo piano i capelli: sono morbidi e sottili. Dopo qualche istante si muove sotto le mie dita e dalle labbra gli esce un sospiro, un mugugno che si perde nel silenzio del suo sonno.

Non so cosa io abbia fatto per meritare una persona come lui. Forse nulla, forse era soltanto questione di tempo prima di incontrarci. Probabilmente è proprio questo il bello dell'amore: non gli importa né chi sei né chi sei stato, cos'hai fatto prima di conoscerlo, quante volte hai spezzato cuori a destra e a manca e quante invece hai dovuto raccogliere i pezzi del tuo, di cuore. Bisogna saperlo curare proprio come un fiore, perché se un giorno ti dimentichi di bagnarlo non è detto che domani lo troverai rigoglioso come lo avevi lasciato ieri.

Muovendomi piano mi libero della coperta e mi alzo in piedi. A pochi passi da me, sul pavimento, trovo una maglietta larga e grigia di Riccardo che subito indosso. È lunga per me, mi arriva quasi alle ginocchia, ma è così morbida che mi sembra di avvertire il tocco gentile delle sue mani su ogni centimetro di epidermide che copre.

Rivolgo un'ultima occhiata al mio ragazzo, il quale si è ora voltato. Ha le braccia incrociate, le mani sotto il cuscino, e il disegno marcato delle scapole sulla schiena. Non si è ancora accorto di essere solo, ma se ho capito qualcosa in queste mattine in cui ci siamo svegliati occhi negli occhi, quasi nello stesso istante, è che a breve mi raggiungerà ovunque io sia. Questo significa che devo fare in fretta se voglio preparare la colazione per entrambi prima che lui abbandoni il suo riposo percependo la mia assenza.

Scendo la scala che conduce al piano inferiore, un gradino alla volta, finché non mi ritrovo nel piccolo atrio d'ingresso dell'appartamento. È un locale luminoso, e in ogni stanza che lo compone sembrano esservi intrise l'aura solare di Riccardo, la sua positività, la sua luce. Da quando ci siamo conosciuti ho imparato a vedere il mondo attraverso il suo sguardo; non è male quanto mi ero convinta che fosse. Mi ha ricordato che oltre alle cose brutte che inevitabilmente accadono nella vita di ognuno ce n'è sempre una bella di più per spingerti ad andare avanti. Il semplice fatto di averlo incontrato mi ha fatto cambiare prospettiva.

Cammino fino alla cucina. Non è molto grande, ma ha tutto ciò che serve. Apro qualche anta di qua e di là per farmi un'idea di cosa preparare, però ben presto devo arrendermi perché io e lui, almeno sotto questo punto di vista, siamo totalmente diversi. A parte una scatola di cereali quasi vuota e un sacchetto di merendine, non c'è nulla che io possa usare per fare una colazione come si deve, una di quelle che preparavo prima di prendere consapevolezza del fatto che, a casa mia, il primo pasto della giornata si era trasformato nell'illusione di avere tutto sotto controllo e non più un momento da trascorrere insieme.

Sospiro e mi limito a mettere una caffettiera da tre sul fornello, poi estraggo dalla credenza due tazze e lo zucchero. Nell'attesa appoggio i palmi delle mani all'isola e mi guardo un po' attorno, anche se negli ultimi due mesi questo appartamento è diventato familiare quasi quanto il posto in cui sono cresciuta.

Soltanto un paio di secondi dopo aver sentito la caffettiera sbuffare, Riccardo fa capolino dalla porta. La sua bocca scatta immediatamente in un sorriso e dopo si prende il labbro inferiore tra i denti con un sospiro. «Non mi abituerò mai a vederti coi miei vestiti addosso.»

Una risata mi deforma il viso mentre, leggera come un gatto, mi dirigo da lui. Il tessuto della maglietta smette di danzare e si ferma nuovamente sulle mie cosce. «Ah, sì?» dico in un sussurro prima di sporgermi e baciarlo velocemente. «Allora mi vestirò più spesso, che ne dici?»

«No» ribatte tra i denti. Mi prende per i fianchi e mi attira a sé all'improvviso, nonostante mi aspettassi questa mossa da parte sua. «Non pensarci nemmeno.»

Le sue labbra tornano con rapidità sulle mie impedendomi di rispondere. Si spostano tra i miei capelli, sulla nuca e il collo, lungo la schiena, finché non mi allontano da lui per riprendere fiato.

«Il caffè è pronto» lo avviso con la voce e la faccia più serie che io abbia nel mio repertorio. «Non vorrai mica che si raffreddi.»

«Che si raffreddi pure» mugugna ancora sulla mia pelle. «Ne faremo un altro dopo.»

*

«Caelie, ti vuoi muovere?!» esclama Riccardo dal piano di sotto.

La promessa che gli ho fatto qualche mese fa mi si è ritorta contro oggi, durante il pranzo. A dicembre gli avevo detto che, un fine settimana, avremmo preso la macchina e ce ne saremmo andati da qualche parte, poco importa dove. Adesso che quell'occasione si è presentata, però, vorrei rimangiarmi tutto e trascorrere ciò che rimane di questa giornata accoccolati nel letto.

«Due minuti e arrivo!» rispondo guardandomi allo specchio, il pennellino dell'eyeliner in bilico tra le dita. Finisco di disegnare la linea dell'occhio sinistro e ravvivo i capelli con entrambe le mani. Quando sono di nuovo in camera sua, scandaglio la stanza alla ricerca del piccolo zaino che porto sempre con me. Lo afferro e me lo metto in spalla, il cuore che inizia a palpitare in vista dell'ignoto a cui sto andando incontro.

«Caelie» mi chiama ancora una volta, la voce ora più spazientita di quanto non lo fosse poco fa.

«Sto scendendo le scale» replico e sorrido anche se non mi può vedere.

«Mi vuoi dire dove stiamo andando?» gli domando quando sono seduta in auto e ho allacciato la cintura.

«È una sorpresa.»

Gli rivolgo un'occhiata in tralice; sa che non mi piacciono le sorprese, che preferisco avere tutto sotto controllo, ma siamo talmente in sintonia e in confidenza che io ormai mi permetto di essere in ritardo e lui di aggirare le mie paure. Ci sfidiamo a vicenda, e questo non sembra dare fastidio a nessuno dei due malgrado i battibecchi e gli sbuffi che ci lasciamo scappare un giorno sì e uno pure.

Accendo la radio e appoggio la testa contro il finestrino. Per un po' guardo fuori, le villette a schiera che presto fanno spazio a boschi di piccole dimensioni e campi verdi, il sole che splende alto nel cielo e che da qualche giorno ha cominciato a essere piacevole sulla pelle. Mi assopisco poco dopo, e l'ultimo ricordo della realtà che mi segue nel sogno è la mano di Riccardo posata sulla mia coscia.

*

«Sveglia, bella addormentata.»

«Eh?» biascico stropicciandomi gli occhi. «Come mi hai chiamata?»

«Certo che appena sveglia sei proprio una rompipalle» mi prende in giro. Sono consapevole che è vero, almeno in parte; o mi sveglio così o col muso lungo e la voglia di parlare con chiunque sepolta tre metri sotto terra – chiunque, tranne lui.

«Non avresti dovuto svegliarmi, allora» blatero risentita stringendomi nelle spalle. Nonostante l'aspetto da dura, appena volto il capo per sfuggire al suo sguardo mi scappa un sorriso.

È talmente bello poter essere spontanei con qualcuno fino a questo punto, non dover dosare né filtrare le parole, punzecchiarsi e poi stringersi, discutere e poi cercarsi, guardare un film e poi perdersi a parlarne per le tre ore successive. Essere leggeri e sentirsi tali, persino in compagnia di qualcun altro.

«Ti amo anche io» mi dice liberandosi dalla cintura di sicurezza. «Ora scendi o giuro che ti porto in braccio fino all'ingresso.»

«Dove siamo?» chiedo realizzando finalmente che non siamo più a casa sua.

Quando le suole delle mie scarpe toccano l'asfalto non posso fare altro che scandagliare lo spazio circostante, considerando anche che Riccardo mi rifila solo un mucchio di parole non dette in risposta alla mia domanda. Lo vedo però che è teso, malgrado il suo viso rilassato mi voglia far intendere il contrario. Ha infatti le mani infilate nelle tasche anteriori dei jeans, la schiena dritta e non leggermente incurvata come sempre, la mandibola che scatta quando apre e richiude la bocca decidendo di non parlare.

Attorno a noi c'è quello che ha tutta l'aria di essere un complesso residenziale: ci sono tre palazzine rosate di fronte a me, altrettante alle mie spalle. È tutto in ordine, impeccabile; persino le piante presenti nelle aiuole che costeggiano il marciapiede sono splendide e in fiore. Colorano di rosa, bianco e viola l'ambiente riprendendo la tinta delicata delle pareti.

Riccardo mi tende una mano incitandomi a raggiungerlo. I suoi capelli scuri vengono accarezzati dal venticello che si è appena alzato, e anche la sua maglia bianca con la stampa di Capitan America pare risentirne. Mi affretto verso di lui e intreccio le mie dita alle sue.

«Perché siamo qui?» gli domando ancora, anche se non mi aspetto che si spieghi. Lo faccio e basta, perché chiedere informazioni per comprendere la situazione è l'unica cosa, oltre alla sua presenza, a impedirmi di fare dietrofront e tornare alla macchina.

Un sorriso dolce gli illumina il viso quando scuote la testa un paio di volte, esasperato. «Lo scoprirai presto.»

Intanto ha spalancato la possente porta di legno dell'ingresso e siamo in piedi nell'androne. È perlopiù vuoto, fatta eccezione per un portaombrelli e uno specchio appeso sul muro a sinistra. Davanti a noi invece c'è una rampa di scale dalla ringhiera nera che mi ricorda, come un flashback, lo spezzone di un film che ho visto tanti anni fa ma di cui non riesco a riacchiappare il nome nella memoria. Per un attimo però la confusione dell'edificio mi disturba, il miscuglio tra antico e moderno — ho intravisto un piccolo ascensore, pochi passi prima dei gradini — e devo lottare perché la mia attenzione torni su questi ultimi, sul ritmo cadenzato dei miei movimenti contro il marmo.

«Va tutto bene?» mi domanda Riccardo riportando l'attenzione su di sé. Abbiamo già salito tre rampe e adesso ci stiamo addentrando in un corridoio ai cui lati ci sono una schiera di porte con un numero inciso su ognuna di esse. Annuisco e riduco la distanza che ci separa per potergli prendere la mano e dimenticare la paura di non sapere. Lui la stringe ricambiando il gesto e questo è sufficiente a calmarmi, a farmi tornare padrona dei miei pensieri e delle mie azioni.

Camminiamo uno affianco all'altra finché Riccardo non si ferma davanti alla porta numero 309. Sento il cuore battere furioso nel petto perché non so né cosa né chi ci sia dall'altra parte, ma se mi ha portata qui c'è un motivo. Non l'avrebbe mai fatto se fosse stato consapevole di ferirmi o di pormi in una situazione in cui non sarei stata a mio agio.

Porta la mano sinistra avanti e bussa due volte, sento il rumore sordo delle sue nocche contro il legno. Passano un paio di minuti, riempiti dal silenzio, prima che qualcuno ci venga ad aprire. È una donna minuta dai capelli rossi, tagliati all'altezza delle spalle, e gli occhi orlati da un tratto deciso di matita nera. Con le dita chiude il cardigan sul petto nascondendo la maglia a tema floreale che indossa sotto.

«Sono Riccardo» si introduce lui accanto a me, mentre il mio sguardo si fissa su un punto impreciso alle spalle della signora. Sembra avere cinquant'anni o poco più a giudicare dalle rughe di espressione attorno ai suoi occhi e alla sua bocca.

«Vi stavamo aspettando» sorride lei cordiale. «Tu devi essere Caelie» dice allora rivolta a me.

«Sono io» confermo evitando il suo sguardo come se da questo dipendesse la mia vita. Non ha l'aria di essere una persona cattiva, affatto, eppure non riesco a dare subito confidenza a chi non conosco, anche se la prima impressione che ho avuto è stata buona.

Riccardo è stata l'eccezione, l'unica che io ricordi.

«Prego, entrate» continua lei facendosi da parte; con un braccio rivolto verso l'interno dell'appartamento ci invita a raggiungerla.

È a questo punto che mi rendo conto delle parole da lei pronunciate poco fa: "vi stavamo aspettando". Chi altro c'è oltre a lei? Ancora una volta, quindi, intreccio le mie dita a quelle di Riccardo. Con le sue disegna sul dorso della mia mano linee dritte e cerchi per rassicurarmi che ha tutto sotto controllo — lui, non io, e devo farmelo andare bene volente o nolente.

A una prima occhiata l'appartamento è di modeste dimensioni e, nel complesso, piuttosto vuoto e impersonale. A eccezione di uno specchio a figura intera, posizionato a neanche un metro dall'uscio, non ho scorto altri indizi che facciano pensare che sia effettivamente abitato. Anzi, addirittura la presenza della signora dai capelli rossi è in qualche modo fuori luogo nel contesto.

Riccardo volta brevemente la testa nella mia direzione e fa cenno di sì col capo. So che lo fa per tranquillizzarmi, per evitare che io dia di matto ora che non ho appigli, sicurezze, risposte. Ne è ben conscio, ma lui al contrario sembra essere rilassato e sicuro; lo si evince dalla maniera in cui ora si muove precedendomi, quasi trascinandomi dietro di sé, dagli sguardi che lancia alla donna mentre la seguiamo verso altre stanze del locale. L'indecisione che avevo visto prendere possesso del suo corpo non appena siamo arrivati qui è sparita, e adesso è solo un ragazzo che sa dove sta andando e perché.

Pochi istanti dopo ci ritroviamo in cucina, dove lei ci fa accomodare indicandoci le quattro sedie, sistemate attorno al tavolo, con una mano. «Ragazzi, volete bere qualcosa?»

«Volentieri» risponde Riccardo per entrambi.

«Vi va il caffè?»

Lui si dimostra d'accordo e, quando annuisce, non può fare a meno di rivolgermi un occhiolino per rammentarmi invece quello che non abbiamo bevuto stamattina e che è stato dimenticato sul fornello.

«Mi chiamo Jane» aggiunge la donna quando ci dà le spalle. Sul mio viso prende forma un'espressione confusa, ma non tanto per quello che ha detto, quanto per come lo ha fatto. Il suo tono di voce dava per scontato che l'avremmo — l'avrei? — riconosciuto immediatamente.

«Jane?» ripeto allora, ma la sua risposta viene preceduta da un rumore di passi e da una figura che fa il suo ingresso in cucina.

Alzo inconsciamente il capo, quasi senza pensarci, per comprendere chi abbia disturbato il nostro accenno di conversazione, il momento in cui la mia sete di risposte stava per essere messa a tacere.

È un uomo. Ha le spalle curve in avanti e i capelli sale e pepe, la barba incolta sul mento e le gote. È anni luce dall'ultima immagine di lui che ho stampata nella memoria, ma i suoi occhi azzurri e il modo in cui gioca con le sue stesse mani, spostandole dalle tasche dei jeans ai bottoni della camicia e viceversa, è inconfondibile.

«Papà?» mormoro. La voce mi s'incrina dopo la prima sillaba che pronuncio.

Non mi rendo conto che sto piangendo finché una lacrima non mi bagna il dorso della mano riposata sulla coscia. Quando il suo sguardo si sposta e incontra il mio, vedo che anche i suoi occhi sono offuscati, lucidi. Si porta le mani alla bocca e un singhiozzo strozzato fuoriesce dalle sue labbra. Vorrei alzarmi e correre ad abbracciarlo perché è la prima volta che è così debole e vulnerabile di fronte a me, eppure al contempo la rabbia mi scorre nelle vene come se lo avessi trovato in compagnia della sua amante solo pochi minuti fa o avessi appena scoperto che, sentendosi sconfitto e inutile, si fosse buttato nell'alcol.

Credo di averlo perdonato già mesi fa, ma è comunque impossibile scordare la distruzione che le sue azioni hanno portato nella nostra famiglia. Lo guardo e vedo un uomo piccolo, a pezzi, vinto dalla vita e allontanato dai suoi stessi figli. Lo abbiamo fatto per il suo bene, mi ripeto, ma è davvero così? Più lo guardo e più mi odio, perché di mio padre rimangono solo pelle e ossa, gocce salate che precipitano verso il suolo.

«Caelie...» sussurra.

Ho aiutato solo mia madre. È lei la persona che ho capito in questa situazione. È lei che ho perdonato senza pensarci sopra due volte. È stata lei ad avere la mia compassione.

«Papà» dico ancora. Con la coda dell'occhio noto che Riccardo sta trattenendo a forza il pianto, e anche Jane sembra preda di emozioni che non posso comprendere non sapendo nemmeno chi sia o perché sia qui.

«Mi dispiace.» La mia voce e quella di mio padre diventano un tutt'uno quando pronunciamo queste due parole in coro.

Mi tiro su in piedi e lo raggiungo. Porto le braccia attorno al suo collo e la testa sul suo petto, inspiro avida il suo odore familiare, il profumo di muschio bianco intriso nella sua pelle, e inizio a piangere più forte quando avverto le sue braccia sulle mie spalle per ricambiare la stretta. Mi lascio andare a un pianto liberatorio, senza vergogna, eliminando dai miei pensieri il fatto che non siamo soli in questa stanza. Il punto è che se non fosse stato per Riccardo forse adesso non sarei qua, forse mi sarei aggrappata con le unghie e con i denti all'orgoglio pur di non cadere di nuovo. Avrei evitato le sue chiamate, i suoi messaggi. Lo avrei cancellato dalla mia vita perché lui era in tutti i miei ricordi più belli e li aveva rovinati insieme all'idea che avevo di lui, quella di un modello da seguire e al quale aspirare. È quello che ho fatto negli ultimi mesi, perché quando qualcuno ti ferisce così è più facile fare finta che non esista piuttosto che affrontarlo.

Continuo a cedere e a scappare, ogni tanto. Avere la possibilità di fuggire è ciò che, spesso e volentieri, fa sì che io possa andare avanti e non tornare indietro. È un percorso lungo, a volte ho la sensazione che lo sia fin troppo, eppure sono tanto orgogliosa di me per essermi data la giusta spinta a cambiare. Fino all'anno scorso avrei probabilmente dato i meriti di questo cambiamento ad altri, ma al giorno d'oggi so che non è successo grazie a loro. È impossibile fare qualcosa che non ci sentiamo già di fare nel profondo; se non fosse stato per quella scintilla di rinascita sepolta nel mio cuore né Riccardo né nessun altro sarebbero riusciti a trascinarmi lontano dalle mie ombre.

Mi asciugo gli occhi con il dorso della mano, poi con la manica del maglioncino. Me li sento gonfi. Tiro su col naso da quando mi sono staccata da mio padre, però sono talmente contenta di averlo visto che scoppio di gioia. Non è esattamente come mi aspettavo di ritrovarlo, tuttavia sia io che lui abbiamo affrontato qualche sfida quando siamo stati distanti. Va bene uscirne un po' ammaccati, purché questo sia un punto di partenza e non la fine.

«Mi ha fatto bene vederti» gli dico. È il rumore della caffettiera pronta a fungere da pausa tra una mia frase e l'altra. «Spero che ciò che ho fatto sia servito a qualcosa» termino con egoismo.

Papà si porta un braccio sulla fronte per nascondere il suo sguardo a me. Jane, nel frattempo, ha posizionato quattro tazzine sul tavolo e sta versando il caffè dentro di esse. È rimasta in silenzio da quando mio padre è entrato in cucina e non sembra intenzionata a intromettersi in questo frangente di tempo che appartiene solo a me e a lui, esattamente come Riccardo. Si scambiano un'occhiata di tanto in tanto ma, a parte questo, sono qui solo di contorno.

«Più di quanto potrai mai immaginare» mi risponde, la voce arrocchita dal pianto di poco fa. «Mi hai riportato alla realtà. Se non fosse stato per te, mi sarei distrutto con le mie stesse mani.»

«Ne saresti uscito comunque, papà» ribatto. «Non ti avrei preso come modello per tutta la vita se non ti avessi visto affrontare ogni situazione a testa alta. Capita a tutti di cadere e di sbagliare, qualche volta» lo rassicuro stupendomi io stessa di essere tanto calma mentre gli parlo.

Faccio appena in tempo a scorgere sia Jane che Riccardo sorridere.

*

Il resto della giornata lo passiamo a raccontarci ciò che è accaduto durante i quattro mesi che abbiamo perso: Leo, i due lavori della mamma, Joanne, Riccardo, persino Sebastian. Gli dico tutto, quasi tra di noi ci fosse nient'altro che un muro invisibile spesso quanto carta velina.

Lui fa lo stesso, anche se parlare della disintossicazione non è altrettanto semplice. Si ferma più volte, le lacrime in bilico agli angoli degli occhi, Jane che gli porta una mano sulla spalla e la stringe con dolcezza. Mi confessa, con un po' di timore, che lei è la donna di cui si è innamorato quando, con fatica, ha iniziato a riordinare i pezzi della sua vita. Lo ha aiutato a trovare un appartamento che gli desse un'idea di stabilità, nonostante per un lavoro sia stato lui a doversi rimboccare le maniche e ricevere una porta in faccia dietro l'altra. Questo finché non ha incontrato Brandon, un uomo sulla settantina prossimo alla pensione che ha avuto compassione di lui e gli ha offerto un posto nell'officina di famiglia.

Riccardo mi cinge le spalle con un braccio. «Se te lo avessi chiesto, mi avresti detto di no.»

«Lo so.»

«Come stai?» mi domanda apprensivo.

«Io? Sto bene. Ne avevo bisogno.»

Lui resta in silenzio e mi lascia un bacio sulla nuca senza commentare oltre.

«Ho avuto paura quando l'ho visto» aggiungo. «Non sapevo cosa dirgli. Non gli volevo parlare, volevo che restasse nel passato e che smettesse di fare parte del mio presente. Avevo accettato il fatto che non fosse più nella mia vita, ma il suo pensiero c'era e lottava per farsi ascoltare anche se io non lo volevo.»

«Non dobbiamo parlarne per forza» mormora a pochi passi dalla sua auto. «Non sei costretta a farlo.»

«No, Riccardo, ma ho bisogno anche di questo. L'ho perdonato, sai? Davvero, stavolta. E ho perdonato me stessa insieme a lui. Mi perdono per tutte le volte in cui sbaglierò e non avrò la forza di reagire, per tutte le volte in cui vorrò stare da sola un po' di più, per tutte le volte in cui mi nasconderò dietro una scusa per evitare qualsivoglia problema. Mi perdono, perché sono umana e non sempre mi comporterò nel modo giusto. Mi perdono perché ci saranno giorni in cui vorrò arrendermi nonostante tutte le cose belle che ho, ma va bene così. Non importa se a risalire dal fondo ci metterò un'ora o un anno, io mi perdono. So quanta forza ci vuole a ricominciare e so anche che non sempre mi renderò conto di quale sforzo sia per me o per gli altri. Ho perdonato anche Joanne per quello che abbiamo perso e ho perdonato me per le mie mancanze, ho perdonato Sebastian per non avermi mai vista e dopo l'ho perdonato quando, con le sue parole, ha cercato di interferire tra me e te minando la mia felicità, il nostro benessere. E perdono me, ancora una volta, per tutti gli errori che, magari in buona fede, commetterò d'ora in poi.»

«Sono così orgoglioso di te» sussurra avvicinandomisi. È la prima volta che lo vedo commosso in seguito a qualcosa che ho detto direttamente a lui. Prima, con mio padre, è stato diverso: lui era uno spettatore, io la protagonista. Adesso ci siamo solo noi, in piedi davanti al luogo che ha assistito alla rinascita di mio padre, occhi negli occhi.

Stringo il tessuto della sua maglietta tra le dita e sorrido con il viso premuto contro di lui. «Lo pensi davvero?»

«Certo» risponde. «La persona che ho davanti adesso non è più la Caelie che ho conosciuto in biblioteca. La persona che ho davanti in questo momento ha scelto di mettersi alla prova e ne è uscita vincitrice. Dovresti essere fiera di te, proprio come lo sono io.»

«Lo sono» commento, «ma ho come la sensazione che questa paura non se ne andrà mai.»

«Quando sentirai di voler mollare, io sarò lì per rammentarti il coraggio che hai avuto oggi.»

Gli spettino giocosamente i capelli per allontanare, almeno in parte, la serietà di quanto abbiamo vissuto dalle due di pomeriggio in poi. Mi sporgo verso di lui e deposito un bacio sul suo naso, sulla sua fronte, sulle guance e, infine, sulle labbra. «Grazie di avermi dimostrato che avere speranza non è una debolezza.»

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