6
Ci sono volte in cui piango. Da sola, in silenzio. Faccio fatica ad ammettere che accade perché, dopotutto, succede davvero di rado. Se piango è perché sono arrivata al punto di non ritorno, al momento esatto in cui l'unica soluzione a qualcosa è dire basta! con tanto di punto esclamativo alla fine.
Questa è sicuramente una di quelle volte.
La parte della mia camera in cui mi sento più al sicuro è la grande finestra della stanza con un ampio davanzale sul quale potermi sedere. Di solito qui leggo o guardo le stelle, osservo la vita che là fuori esiste a prescindere da me, ma stasera no. Tengo le ginocchia contro il petto e la testa posata su di esse, eppure per quanto io mi stia sforzando di farlo nessuna lacrima abbandona i miei occhi. Non lo fa perché, per quanto questa sensazione di amarezza e delusione mi abbia seguita per più di ventiquattro ore, so che neanche questo è irrecuperabile. So che posso andare avanti e ricominciare, che non è detta l'ultima parola.
Il cellulare dimenticato sul letto vibra più volte, lo sento chiaramente anche da qua. Non volto però il capo per vedere lo schermo illuminarsi; lo lascio fare, adesso non ho la minima intenzione di sostenere qualsiasi tipo di conversazione. Il pensiero che si tratti addirittura di Sebastian mi fa contorcere lo stomaco perché non sono pronta ad affrontarlo, malgrado io sia fin troppo consapevole di avere i minuti contati per risolvere questa situazione. A meno che non decida di restare qualche giorno in più a Lincoln è probabile che se ne vada senza nemmeno avermi salutata. D'altronde io non so se questo mi renda triste o sollevata, non lo so davvero, perché da un lato c'è la volontà di giungere a un compromesso e dall'altro una ferita ancora aperta.
Non ci voglio pensare tuttavia, non ora, quindi accantono il pensiero e il telefono, poi mi distendo sul letto. Mi avvolgo nelle coperte, inspiro il profumo di casa — quello vero — e chiudo gli occhi.
*
Mi sveglio intontita, addirittura prima che la sveglia suoni, con la sensazione di non aver riposato per niente. Mi rigiro nel letto per qualche istante, ma ben presto l'idea di riaddormentarmi e dover interrompere il sonno tra soli dieci minuti mi fa desistere. Allora mi alzo, già pregustando il momento in cui mia madre scenderà al piano di sotto e mi troverà vestita, magari anche già intenta a truccarmi.
Mi stiracchio e mi chiudo in bagno approfittando del tempo che ho a disposizione per fare una doccia più lunga delle solite. Lascio che l'acqua metta a tacere ogni altro rumore e pensiero, e abbandono la testa contro le piastrelle alle mie spalle. Resto ferma così per quella che sembra un'eternità, le gocce che scivolano rapide sulla pelle fino a cadere a terra. Anche un po' della mia preoccupazione scompare. Mi concedo di non pensare.
«Cosa ci fai già sveglia?» mi domanda mia madre quando apre la porta di fronte al bagno in cui sono. Abbasso per un attimo il pennellino dell'eyeliner e le sorrido vittoriosa, poi le faccio un occhiolino. Non rispondo, però noto che raddrizza la schiena all'improvviso e sul suo volto compare un ghigno divertito.
A Leonard non va altrettanto bene, comunque. Ieri sera deve aver fatto le ore piccole con i suoi amici a parlare di calcio e ragazze come sempre; forse addirittura con Cara, che non ho ancora capito se sia la sua ragazza o meno. Mia madre lo chiama almeno quattro volte nell'arco di un solo quarto d'ora, finché spazientita non inizia a urlare con lo sguardo fisso sull'orologio che porta al polso e che segna il tempo che passa sin troppo veloce, inarrestabile. Per lei la giornata è cominciata già da un'ora e le corse da una parte all'altra di Lincoln e dintorni sono un pensiero snervante e persistente.
È soltanto quando dovremmo essere fuori, a bordo dell'auto, che Leo si alza dal divano. Non guarda in faccia nessuno, non risponde a mia madre che lo incita a far presto; la sua espressione è dura, rabbiosa, come se avessimo interrotto molto più del suo riposo. A volte mi chiedo cosa ci sia che non va in lui, quali pensieri lo rendano tanto scontroso e distante da noi, da me, poi ricordo che con me è anni che non parla di sé e non si confida. Prima lo faceva, ero io la persona a cui riservava le sue considerazioni e frustrazioni, che fosse un brutto voto a scuola o una litigata parecchio pesante con un amico. Mi domando cosa sia cambiato, se lo scoprirò o se mai deciderà di dirmelo.
*
La prima volta in cui controllo il cellulare è poco dopo aver aperto la biblioteca. Mi sono tolta la giacca e ho permesso al mio sguardo di vagare per qualche istante tra questi scaffali per me tanto familiari. Ho assorbito il più possibile, ho provato a immaginare le storie racchiuse nei libri che i miei occhi non hanno mai sfiorato; per un attimo ho persino sperato di vivere dentro a uno di essi, in modo tale da poter almeno sperare di avere il lieto fine a cui tanto aspiro. E per un secondo ho creduto pure di poterlo davvero avere, un giorno. Per un secondo il grigio delle mie giornate è diventato di una sfumatura più tenue.
Dopo però ho sbloccato il cellulare, con il cuore in gola e le mani tremanti perché a me i confronti diretti spaventano, e ho visto il messaggio di Seb. Era uno dei pochi che brillavano sullo schermo, quello in cima quasi a ricordarmi che è questa situazione ad avere la priorità assoluta adesso. Mi ha chiesto se ci possiamo vedere stasera, ma non sapevo cosa rispondergli. Ero e sono tuttora combattuta, nonostante non aspettassi altro che questo, un "mi dispiace" che rendesse il mio malumore sopportabile.
L'ho spento di nuovo, ma cinque minuti e ce l'avevo di nuovo tra le mani per digitare la mia risposta. Ero certa che se non lo avessi fatto subito, quel momento non sarebbe mai arrivato. Dieci secondi dopo è arrivata la sua replica, un grande cuore rosso che pulsava.
*
Saluto mia madre con un cenno della mano e un sorriso debole. Mio padre e mio fratello non sono a casa questa sera, quindi è un peso in meno da sopportare. Apro la porta dopo aver fatto scattare la serratura e, tenendomi la borsa stretta contro il fianco, mi volto un'ultima volta a guardare la mamma.
«Andrà tutto bene» mi dice piano. «Ora va'.»
Mi sorprendono queste sue parole perché, dopotutto, con lei non ho parlato di quanto accaduto il giorno del mio compleanno. Nemmeno a mia nonna ho osato dire niente; un po' per vergogna e imbarazzo, un po' perché lei non ha mai tollerato volentieri quella persona tanto diversa da me.
Infilo gli auricolari nelle orecchie dopo essermi chiusa il cancelletto alle spalle e faccio partire la riproduzione casuale. Non è importante quale canzone venga riprodotta, quanto il fatto di avere una voce lì pronta a farmi calmare e a distendermi i nervi. Ripongo il cellulare nella tasca destra della giacca ed è lì che lo lascio, malgrado l'impulso di cercare la stessa canzone di sempre. È la canzone che da più di un mese accompagna i miei pensieri e le mie riflessioni, quella che mi capisce meglio di chiunque altro, che mi ha fatto ritrovare la voglia di scrivere e che un giorno mi ha fatto svegliare e ammettere che questa non è affatto la vita che desidero.
Cammino più lentamente del normale, i piedi che sembrano strisciare sul marciapiede senza sollevarsi di alcun millimetro. La borsa mi pesa talmente tanto che mi pare di averla riempita con i sogni infranti, le delusioni, le cicatrici che non sono mai stata capace di nascondere e non solo con il portafoglio, un pacchetto di sigarette e uno di fazzoletti. La sento che mi fa piegare di lato, che mi distorce come fa uno specchio rotto e pieno di crepe.
Sebastian mi sta aspettando al solito posto, ma per un secondo avevo immaginato di non trovarlo. Ha entrambe le mani affondate nelle tasche anteriori dei jeans, il capo chino verso il marciapiede e le spalle incurvate. Nel complesso si trova in una posizione tutto fuorché spavalda che non ha niente a che vedere con il ragazzo che conosco.
Non appena mi avvicino metto la musica in pausa e mi tolgo le cuffiette. Lo guardo, perdo un po' di tempo a osservarlo e mi domando se stia così per me o se sia successo dell'altro. Non è da lui, e quasi temo che possa urlare con il viso alto, rivolto alla luna, e scordarsi di me una volta per tutte. Eppure, quando ci separano solo una decina di passi, Sebastian si riscuote e per poco non corre per raggiungermi. Mi getta le braccia al collo, seppellisce il volto tra i miei capelli mentre i suoi mi solleticano il naso.
«Mi dispiace» sussurra, e lo ripete di nuovo prima di allontanarsi da me.
La mia mano destra si posa sulla sua guancia, con le nocche gli accarezzo timidamente la pelle. «Fa' niente.»
Mi sento ridicola ora, perché averlo davanti mi fa sempre dimenticare quanto prima fossi invece arrabbiata con lui. Se lo guardo negli occhi lo scopro sincero, e i suoi lucidi sono la conferma che mi vuole bene. Non c'è spazio per dubbi di questo tipo quando siamo l'uno di fronte all'altra.
«Sono proprio uno stupido» insiste. «Mi sono comportato davvero male stavolta, Caelie.»
«Siamo» lo correggo con un mezzo sorriso. «Ho esagerato un po' anche io.»
«No» ribatte stringendosi nelle spalle. «Era importante per te, e io sono stato un egoista del cazzo.»
«Però lei era bella...» lo prendo in giro, nonostante mi ferisca ancora l'idea che abbia preferito lei a me.
«Non quanto te» replica inclinando leggermente la testa da un lato. «E comunque non può essere una giustificazione.»
«Non lo è, infatti» concordo. «Ma ero certa che avresti capito la ragione per cui ero tanto delusa.»
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