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Sono sul divano ad ascoltare musica quando suona il campanello. Mi alzo a sedere issandomi sui gomiti e aggrotto le sopracciglia incrociando lo sguardo di mia madre, la quale è confusa almeno quanto me. Mi tolgo poi un auricolare e le domando: «Aspettavate qualcuno?»

Helena scuote la testa e mi regala un sorriso carico di dolcezza che le ho visto fare ben poche volte nell'ultimo periodo. «Noi no, ma è il tuo compleanno. Forse è qualcuno che conosci.»

Caccio indietro la risatina isterica che premeva per abbandonare la mia bocca, perché io di amici non ne ho. Non vicino a dire il vero, fatta eccezione per Joanne. Dopo il messaggio di auguri che ho ricevuto da parte sua, dubito fortemente che si tratti di lei e che abbia fatto più di un'ora di strada solo per vedermi stasera.

Dean mi ha ormai preceduta, è stato lui ad andare ad aprire. Lo guardo mentre armeggia con le chiavi e fa scattare la serratura; dischiude la porta di poco e si fa da parte. Sembra quasi decidere se rimanere o meno lì ad attendere che arrivi quella persona.

«Chi è?» chiedo disinteressata. Papà però incurva le labbra e non dice niente, così mi rizzo subito in piedi come una molla.

Lo raggiungo e mi ci vuole soltanto un secondo per capire chi sia. «Sebastian!» urlo a questo punto e gli corro incontro noncurante di avere solo i calzini e una maglia che non tiene per niente caldo addosso.

Seb avvolge le sue braccia attorno alla mia vita e mi fa roteare in aria per poi riempirmi le guance di piccoli baci. Mi viene da piangere perché è qui finalmente, davanti ai miei occhi. È passato più di un anno da quando ci siamo visti l'ultima volta e mi pare incredibile, quasi impossibile, che adesso sia in carne e ossa a pochi centimetri da me.

«Buon compleanno, Caelie» mi sussurra all'orecchio nell'attimo in cui ci allontaniamo l'uno dall'altra.

«Vieni.» Lo conduco all'interno della casa e chiudo la porta d'ingresso alle sue spalle. C'è un momento in cui Sebastian è assalito dai saluti di mia madre e di mio fratello il quale, provando una gran stima nei suoi confronti, si avvicina e gli dà una pacca amichevole sulla spalla.

Andiamo poi in cucina e lo esorto a sedersi. Sposta allora una sedia, ed è strano per me notare quanto sia cambiato in un anno. Ha i capelli un po' più lunghi, biondo scuro, e il sorriso di chi è comunque maturato tanto nel frattempo, di chi ha vissuto davvero e non per sentito dire.

«Vuoi un pezzo di torta?»

«Magari!» esclama strofinandosi i palmi delle mani.

Mentre ne taglio una fetta, Sebastian mi informa che ha riflettuto per un bel po' sul fatto di tornare a Lincoln, ma che alla fine è giunto alla conclusione che per me ne valeva eccome la pena. Lo ringrazio con una scrollata di spalle e un sorriso timido, perché anche se si tratta di lui non so crederci ciecamente. Dovrei, considerando il rapporto che ci lega, eppure non ci riesco.

Prende un morso di torta e fissa il suo sguardo su di me. «Cosa c'è?» gli domando, allora, dato che quegli occhi verdi sono sempre stati capaci di mettermi in soggezione, a maggior ragione quando i lineamenti del suo viso si induriscono e, nel complesso, il suo volto assume un'espressione seriosa.

«Vai a prepararti» ordina mellifluo. «Andiamo a farci un giro, ti va?»

«Sono le dieci passate» commento indicando l'orologio appeso alla parete.

«E quindi?» sorride furbo. «Abbiamo poco tempo per uscire insieme, tra un paio di giorni riparto.»

Avverto la contentezza affievolirsi e le spalle calare verso il basso, come se all'improvviso mi fossi ritrovata a sostenere un peso enorme sulle spalle.

«Ti odio, Seb» ribatto. «Ti odio con tutto il cuore.»

«Ti voglio bene anche io, Lily.»

«Non chiamarmi mai più così!»

*

«Com'è vivere da soli?» m'interesso quando siamo in auto. Sono parecchio curiosa di saperlo, tenendo pure conto che con i fondi che ho a disposizione è qualcosa in cui al giorno d'oggi non posso assolutamente permettermi di sperare.

«È fantastico» risponde, gli occhi fissi sulla strada e le mani strette attorno al volante. «E deprimente.»

«Deprimente?» ripeto, incredula, voltandomi di scatto nella sua direzione.

«Spesso penso che mi piacerebbe avere qualcuno con cui condividere l'appartamento. C'è troppo silenzio» spiega, e il suo tono di voce assume una sfumatura triste.

«Potresti trovarti un coinquilino» suggerisco.

«Non fa per me» replica. «Sai bene che non sono uno da rapporti duraturi» aggiunge ridendo.

«Invece, caro Seb, è proprio qui che ti sbagli.»

«Con te è diverso Caelie, lo è sempre stato» proferisce quasi immediatamente avendo perfettamente compreso dove volessi andare a parare.

A quel punto alza il volume della radio e la musica riempie totalmente l'abitacolo impedendomi di continuare la conversazione. Forse è meglio così, la certezza e la sicurezza con cui Seb parla di me a volte mi fanno paura. Io non potrei mai mettere la mano sul fuoco per quanto riguarda la nostra amicizia senza rischiare di bruciarmi. Il solito velo di insicurezza mi fa quindi tacere e concentrare l'attenzione su ciò che scorre fuori dal finestrino.

*

«Il Roses no, Seb» mi lamento uscendo dalla macchina. «Pensavo volessi fare un giro, non andare a una festa!»

«Quale modo migliore di festeggiare se non questo?»

Gli do una pacca sul braccio con più forza di quanto fosse nelle mie intenzioni. Sebastian fa finta di perdere l'equilibrio e si piega di lato solo per poi riacquisire la posizione eretta con tanto di schiena perfettamente dritta e petto in fuori. Lo affianco e lo prendo a braccetto dato che tiene la mano sinistra affondata nella tasca della giacca.

Ci avviamo verso l'entrata del locale dove una rosa e una luce al neon ne indicano il nome. Ricordo di esserci già stata, ma non la posso certo considerare una bella esperienza. C'è troppa gente e ho la sensazione di soffocare, ho paura di essere assorbita e inglobata dalla massa di corpi che forma un tutt'uno. La fila è parecchio lunga, perché tutto sommato è ancora presto per un locale del genere, quindi non possiamo fare altro che accodarci e sperare che non ci voglia tanto.

Ho freddo, però, quindi mi stringo nel cappotto e vago con lo sguardo un po' ovunque. Il cielo è scuro, e non perché è notte. Dei grossi nuvoloni coprono la luna, di cui rimane nient'altro che un alone giallognolo, quindi prego che il diluvio attenda qualche ora prima di mostrarsi.

«Comunque» esordisco. «Chiamami ancora una volta come la tua ex, solo perché mi assomiglia un po', e giuro che ti taglio le palle.»

Sebastian pare preso in contropiede per qualche secondo, ma la sua replica non tarda ad arrivare. «Dicevi, Lily?»

«Sei un vero deficiente.»

«Però sono il tuo migliore amico e mi vuoi tanto tanto bene.»

Noto in seguito che il suo sguardo non è posato sulla mia figura, bensì qualche metro dietro di me. «Parli del diavolo...» dice e ride così di gusto che quasi mi vergogno di essere qua in sua compagnia.

Malgrado io mi sia girata di poco, sono comunque stata in grado di intravedere Lily. Quanto è piccolo il mondo, penso. In fondo a lei piace divertirsi, e se non ricordo male il Roses è la sua discoteca preferita.

«Non dirmi che mi hai portata qui perché volevi vederla» proferisco non riuscendo a nascondere l'amarezza e la delusione che provo.

«Credo che in parte sia così, sì» mi risponde tranquillo. «Ma è passato tanto tempo.»

«Volevo farti divertire un po', Caelie, e stare qualche ora con te» continua.

«Certo, come no.»

«Non fare così, dai...»

«Se ci tieni tanto, va' da lei. Troverò un modo per tornare a casa.»

«No, siamo qui insieme. Non me ne vado senza di te» dice perentorio. «È il tuo compleanno.»

*

Il Roses è esattamente come me lo ricordavo: il solito odore acre di sudore, le stesse luci colorate che viaggiano sulle pareti dell'ampia sala che ospita il locale, il medesimo marasma di persone ammassate le une sopra le altre.

Sebastian sa che odio questo posto e che non sopporto le discoteche in generale. Mi fanno sentire fuori luogo, come se fossi costretta a ridere e scherzare e divertirmi. Non bevo, non ballo. Perché diavolo mi sono lasciata trascinare qui?

Perché gli vuoi bene, mi dico. Se bastasse questo, se solo questo fosse sufficiente ad accantonare i pensieri che mi hanno affollato la mente dal momento in cui ho realizzato perché Sebastian fosse qui... Avrei dovuto capirlo prima e non illudermi che gli mancassi e che volesse davvero passare qualche ora con me.

Il primo posto in cui ci fermiamo è il bancone. Sebastian ordina un cocktail di cui francamente non conosco il nome, mentre io nel frattempo osservo. Osservo i gruppi di ragazze che parlottano tra di loro e che di tanto in tanto indicano il ragazzo al mio fianco: alcune di loro sorridono, altre imitano un ventaglio con la mano e si fanno aria.

E poi succede. È questione di una frazione di secondo, ma scorgo Riccardo farsi largo tra la folla. Mi sorprendo di quanto sia effettivamente piccolo il mondo, e di quanto le coincidenze — o il destino — siano a favore di qualcosa che ancora non so identificare. È già la terza volta che lo incontro nel giro di una settimana e, pur non volendolo accettare, non dopo quanto è accaduto con Joanne, quasi spero che anche lui mi veda. Che mi saluti, che mi parli, che mi porti via da questa situazione.

«Andiamo a ballare?» propone Sebastian.

«Non mi va, Seb.»

«Ti prego» addolcisce la voce e fa per inginocchiarsi.

«Fermati.» Gli afferro l'avambraccio e lo aiuto a rialzarsi.

«Va bene» cedo. «Non fare mai più una cosa del genere però.»

«Ok, Lily» scherza ancora.

«Basta!» esclamo, ma la musica è troppo alta e lui non mi sente. Mi precede di qualche passo, il braccio alzato per evitare di rovesciare addosso a qualcuno il cocktail appena comprato.

Riusciamo a trovare un piccolo spazio dalla parte opposta della sala, ed è allora che Seb arresta il passo. Inizia a muovere i fianchi seguendo il ritmo martellante della canzone e con un sorriso m'invita a fare lo stesso, ma io nego con la testa. «Non ne sono capace.»

«Lasciati andare» mi dice all'orecchio dopo avermi attirata a sé. La sua mano sinistra resta sulla parte bassa della mia schiena, quindi aumenta la presa e mi guida nei movimenti. Per qualche minuto lo faccio sul serio, mi lascio andare e ballo, ma l'idea che qualcuno possa guardare proprio me fra tutti mi fa venire la pelle d'oca.

«Seb, basta» dico. «Ho caldo.»

«Usciamo a fumare, dai.»

Non ribatto, piuttosto afferro la mano che ha teso nella mia direzione. Uno dietro l'altra ci apriamo un passaggio tra la calca, e non appena scorgo la porta d'uscita tiro un sospiro di sollievo. L'aria pesante che c'era all'interno mi stava facendo mozzare il respiro e desiderare di non aver mai accettato il suo invito, molto più di quanto non lo abbia fatto l'aver compreso di Lily.

Appoggio la schiena alla parete e sfilo il pacchetto di sigarette dalla tasca, poi me ne accendo una. Sebastian fa ovviamente lo stesso, ma con molta più grazia ed eleganza. È persino sensuale quando lo fa, tanto che qualche altra ragazza si gira verso di lui e lo addita chiacchierando con le amiche.

«Penso che dovresti andare a salutarle.» Gli indico il gruppo di ragazze che lo sta fissando.

«Chi, quelle?!» Sembra risentito. «C'è Veronika.»

«Ah, la ragazza che non hai mai richiamato.»

«Esatto» mi risponde.

Mi volto e lo guardo dritto negli occhi, dopo mi avvicino a lui. In lontananza vedo nuovamente Riccardo. Scuoto la testa e faccio tutto ciò che è in mio potere per distrarmi, che sia prendere un tiro dalla sigaretta o parlare con Sebastian. Questo tuttavia non è sufficiente, perché inconsciamente il mio sguardo lo cerca di continuo. E lo trova, sempre; peccato che, per lui, io sia ancora invisibile.

*

Un'ora più tardi siamo di nuovo sulla pista da ballo, ma stavolta accetto volentieri la vicinanza di Seb mentre balliamo. Mi reggo a lui e lascio che siano le sue mani a dare una direzione e un ritmo al mio corpo.

«Ho appena visto una ragazza meravigliosa» mi confessa estasiato. «Mora, bellissima, ha due labbra che... Dio, fermami.»

«Puoi andare da lei» insisto, e mi pare un dejà-vu. Sarà la terza volta che gli dico una cosa del genere da quando siamo arrivati qui.

«Ma tu...»

Sto per replicare quando un'altra voce si unisce alla conversazione. «A lei posso pensarci io.»

«E tu chi sei?» domanda Seb.

Seguo il discorso senza voltarmi, perché se lo facessi so che quegli occhi azzurri, così chiari da farmi mancare il fiato, l'avrebbero facilmente vinta.

«Riccardo» si presenta.

«Lo conosci?» mi interroga Sebastian, un cipiglio palese a increspargli il viso.

«Sì» trovo la forza di dire. Riccardo sorride così ampiamente che il respiro mi manca davvero e il cuore perde estasiato qualche battito. «Lo conosco.»

Sebastian, nonostante la confusione iniziale, mi abbraccia e mi ringrazia di avergli concesso questa possibilità. Il che mi ferisce, così tanto che non trovo le parole per allontanarmi. Appoggio le mani sul suo petto e lo scanso, gesto che lui però interpreta come un invito a raggiungerla.

Riccardo si accorge che c'è qualcosa che non va ora. Lo vede che sono assente, che non rispondo alle sue domande, che la delusione mi sta mangiando viva. Non comprendo una singola parola di quelle da lui pronunciate, ma lui non fa comunque niente per farsi ascoltare. Resta immobile, in piedi accanto a me, mentre mi guarda con una sorta di sorriso sconfitto, come se si sentisse in colpa per essere stato lui stesso a permettere a Sebastian di andarsene.

Mi avvio verso l'uscita e lui mi segue a pochi passi di distanza, in silenzio. Quando siamo finalmente fuori mi libero, inspiro ed espiro tutta l'aria che mi è possibile accumulare.

«Mi dispiace» sussurra adesso che siamo in disparte, più verso il parcheggio che verso il locale.

«Non... Non è colpa tua» cerco di tranquillizzarlo, però la sua espressione non cambia, rimane la medesima maschera di colpevolezza e dispiacere.

«Davvero, credimi. Tu non hai fatto niente di male.»

Riccardo non cede. Lo capisco dai suoi occhi che saettano a destra e a manca incapaci di incontrare i miei. Lo capisco dalle mani affondate nelle tasche e dalle spalle incurvate, dalla mascella tesa.

«Potresti accompagnarmi a casa?» gli domando un po' titubante. Il pensiero di lasciare Seb da solo mi logora, ma ne ho abbastanza per stasera. So che potrei crollare da un secondo all'altro se restassi, e non voglio che Riccardo mi veda in questo modo: debole, vulnerabile, pronta a sopportare i capricci di chiunque.

«Certo.»

Nel frattempo inizia a piovere. Dapprima poco, poi le gocce diventano più grosse e il diluvio si espande, si mostra bagnandoci quasi del tutto. Io e Riccardo ci scambiamo un'occhiata veloce e lui mi indica la sua macchina, eppure non mi muovo. Alzo il capo verso il cielo e la pioggia mi bagna il viso, mi punge come tanti spilli, e contro ogni logica è questo il momento in cui mi risveglio, in cui elaboro ciò che è successo da quando ho messo piede fuori casa ad adesso.

Riccardo torna indietro e mi afferra la mano dopo avermi scossa un poco, poi cominciamo a correre verso la sua auto. Quando mi accomodo sul sedile del passeggero scoppio a ridere realizzando in quali condizioni io sia.

«Scusa» dico mentre mi allaccio la cintura. «Sono proprio una bambina.»

«Fa' niente» replica lui immediatamente e sorride. «Dovevo comunque farla lavare.»

È grazie a questo banale commento che mi rilasso, che i miei muscoli smettono di tendersi come corde di violino e si abbandonano sul sedile.

In pochi istanti siamo fuori dal parcheggio, e Riccardo mi chiede da che parte debba andare. «Abito a Lincoln, lo sai» gli rammento con voce flebile.

Annuisce come per affermare l'ovvio, ciò a cui non aveva ancora pensato. Vedo i suoi occhi fissi sulla strada, ma il suo cervello lavora, riacchiappa ogni ricordo che mi riguarda finché anche lui non assume un'aria più serena.

I tergicristalli scorrono sul parabrezza provocando un rumore alquanto fastidioso, almeno secondo me, quindi tendo una mano e accendo la radio per arginarlo. È Single la prima canzone che ascoltiamo, e per poco non avverto il respiro mancare quando sento un'altra voce aggiungersi a quella del cantante.

È quella di Riccardo che, con il braccio teso sul volante e l'aspetto apparentemente disinteressato, canticchia come se fosse da solo e io non lo stessi letteralmente fissando. Taccio però, perché il mio cuore ha un infinito bisogno di quest'alone di normalità e di leggerezza. Lo lascio fare e mi concentro sul testo, sulle decine e decine di parole che gli danno forma.

«Mi piacerebbe tanto andarmene da qui» esordisco nell'esatto istante in cui termina, anche se la mia confessione non ha niente a che vedere con la canzone, e questa volta come l'altra mi chiedo perché glielo abbia fatto presente senza prima rifletterci sopra.

«Anche a me» concorda. «Potremmo andarcene da qualche parte.»

Alla sua risposta innocente però m'irrigidisco, e Riccardo nota anche questo. Nota la postura più rigida, le mani che sul grembo non ne vogliono sapere di stare ferme.

«Prima o poi» aggiunge, ma io rimango in religioso silenzio.

Mezzora più tardi Riccardo arresta il veicolo a pochi metri dal cancello di casa mia. Spegne addirittura il motore, poi riaccende la radio e un'altra melodia ci invade le orecchie. Riempie i nostri silenzi, malgrado non siano affatto pesanti. Carichi di parole non dette, questo sì. Pieni di desideri taciuti, segreti, ricordi... pure.

«Allora ci vediamo martedì, suppongo» parla con la testa leggermente inclinata verso di me, un sorriso appena accennato a increspargli le labbra.

Slaccio la cintura e spalanco la portiera, dopo lo guardo. Lo guardo e nei suoi occhi vedo un luccichio anomalo, una luce diversa, come se gli bastasse questo per scandagliare attento ogni frammento che compone la mia anima. Stranamente non mi sento in soggezione, anzi: scopro che questo tipo di contatto mi fa sentire bene e importante, in qualche maniera.

«Credo di sì.»

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