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Non mi rendo subito conto di essere sveglia. Ho ancora in testa le ultime battute del sogno che si è appena interrotto, sogno che però non ho mai terminato. Non ricordo nemmeno cosa raccontasse a dire il vero, ma a giudicare dalla sensazione che mi ha invaso il corpo quando ho aperto gli occhi doveva essere qualcosa di felice. Qualcosa che posso vivere solo così, e neanche sempre.

Una luce fioca entra nella stanza per via della porta semi aperta, e ci metto un po' a mettere a fuoco lo spazio circostante. Istintivamente mi sporgo verso il comodino e afferro il cellulare, poi lo sblocco e la luminosità elevata mi fa stropicciare gli occhi. Mi affretto a ridurla e constato con disappunto che sono a malapena le sei e dieci e che oggi è il tredici ottobre, ossia il giorno del mio compleanno.

Non dovrei avere questa smorfia spalmata sul viso, ma è così. Lo è perché questo è il giorno che meno sopporto tra tutti, l'unico che eliminerei volentieri dal calendario. Non l'ho sempre odiato, d'altronde. C'è stato un tempo in cui non vedevo l'ora di sollevare le palpebre e vedere il sole, correre ad abbracciare mia madre e mio padre. Inutile dire che è cambiato tutto, anche se un po' mi costa ammetterlo. Una volta ero felice, penso triste, una volta sorridevo davvero.

Mi rigiro nel letto e porto le coperte sopra il capo. I pensieri hanno già cominciato a sovrapporsi, a sovrastarsi, a lottare per il dominio. Chi tornerà da me quest'anno? Chi fingerà di non avermi mai fatta soffrire? Chi mostrerà, invece, la sua vera faccia?

*

Arrivo da mia nonna e salgo le scale più lentamente del solito. Né io né lei amiamo dimostrare affetto fisicamente, però questo è il giorno in cui è tutto concesso: una tacita regola che si è stabilita negli anni, un modo come un altro per rammentare che non tutto è perduto.

Entro col medesimo sorriso di sempre, lo stesso «Buongiorno» che mi lascia le labbra. Lei è in cucina, seduta sulla sedia mentre ascolta le ultime notizie trasmesse dal telegiornale. Sul suo volto prende forma una sorta di cipiglio per il tono di voce acuto da me adottato. Non posso fare a meno di ridacchiare; nascondo il mio gesto dandole la schiena quando appoggio la borsa.

La guardo e mi ci vuole un attimo per scorgere la caffettiera già posizionata sul fornello. Le rivolgo un'occhiata torva e resto in piedi, in modo tale da anticiparla non appena il caffè sarà pronto. È esattamente quello che succede dopo pochi istanti.

Fa per alzarsi, ma la blocco avvicinandomi. «Lascia stare, faccio io oggi.»

Lei obbedisce, ma non senza aver sbuffato prima. «Ma che bello!» esclama prendendomi in giro. «Potrei farci l'abitudine.»

«Dovresti, lo sai?» le dico, io seria a differenza sua, versando il caffè nelle due tazzine preparate sul tavolo.

«Il giorno in cui resterò ferma a guardare, sarà perché sono morta.»

«Auguri, comunque» esala in seguito posando il cucchiaino. Le sono grata di non dover dimostrare anche adesso quanto io sia restia a essere toccata, in qualsiasi maniera e da chiunque. Lei sa e comprende che, a dispetto degli altri anni, questa volta voglio stare da sola nel vero senso della parola, senza la benché minima eccezione.

*

La biblioteca è deserta. Non dovrebbe sorprendermi, dopotutto, ma inconsciamente ho sempre la speranza di trovare più vita quando è il mio compleanno. Di vederla, di assaporarla, di convincermi che non è poi così male, che si può ridere e piangere traendone lo stesso beneficio.

Occupo il tempo libero rispondendo ai pochi messaggi d'auguri che ho ricevuto. Uno è da parte di Joanne, la quale quest'anno si è limitata a un mero "buon compleanno". Sarà che gli elogi mi mettono in crisi, perché non so ringraziare e non so crederci, ma Joanne ha probabilmente scorto un rifiuto negli scorsi anni, un muro più alto degli altri. Replico con un "grazie" altrettanto striminzito e fingo di non esserci rimasta male. Non sono pronta ad ammettere di esserlo, non sono pronta a dire a voce alta che quei messaggi erano il motivo per cui difendevo a spada tratta il nostro rapporto. Era nel momento in cui comprendevo quanto bene le stessi facendo che mi illudevo che anche lei ne stesse facendo a me.

Mi sistemo meglio sullo sgabello dietro il banco, porto una gamba sopra all'altra incrociandole, poi riprendo a ringraziare chi per tanto tempo non mi ha neppure rivolto nemmeno un "ciao" quando ci incrociavamo per strada.

È questo che faccio con Elaine, la persona che anni addietro era una delle mie amiche più strette. Le riservo il solito nomignolo di sempre, quello che ora mi fa impastare la bocca e pentirmi di averlo pronunciato. Lei tuttavia non demorde, mi chiede come sto, e io non posso fare a meno di domandarmi perché lo stia facendo. Perché d'un tratto è diventato importante saperlo, o sapere cosa io stia combinando nella vita?

Tra un messaggio e l'altro rispondo anche a Nathan, a Gwen, a Rose. Tutte persone che mai avrei pensato si potessero ricordare del mio giorno o che lo potessero rendere palese.

È questo il problema: non sono in grado di apprezzare. Dovrei stringere i denti e convincermi che stia andando tutto al meglio, ma non ci riesco. Mi disgusta l'idea che da domani sarà di nuovo come prima, che torneremo a essere sconosciuti che hanno diviso stanze e momenti ormai lontani. Non è normalità, e questo basta a farmi desiderare di chiudere gli occhi e svegliarmi quando sarà tutto finito.

*

La cena si è conclusa da ormai una buona mezz'ora; inganno il tempo giocando con il cellulare e ascoltando distratta la conversazione che sta intrattenendo mia madre e mio padre da circa un'ora. Sono talmente assente che non ho la più pallida idea di cosa stiano parlando, malgrado sia qualcosa di importante. Lo capisco dalle loro voci concitate, dai gesti che animano le loro parole e che intravedo con la coda dell'occhio, dal tavolo che ogni tanto trema perché mio padre non sa rimanere immobile durante una discussione.

All'improvviso, però, mia madre si alza e scompare dalla cucina. La sento chiamare Leo e aprire la porta che dà sulle scale. È questione di un attimo, sollevo lo sguardo dal cellulare e zittisco temporaneamente i pensieri.

Un piccolo coro di auguri irrompe nella stanza, e sia Helena che Leonard reggono qualcosa tra le mani: mia madre una torta, mio fratello un regalo impacchettato alla perfezione. Anche in un momento come questo sorrido poco e mi ritraggo quando mia madre prova ad abbracciarmi e a darmi un bacio sulla fronte.

Ascolto il «Buon compleanno» di mio padre Dean, ma è un eco lontano a cui reagisco con un semplice cenno della testa.

«Dovresti tagliare la torta, sei tu la festeggiata» mi esorta mia madre.

E io che speravo si fossero dimenticati di questo giorno, dei numeri "2" e "1" che campeggiano sulla sacher di fronte a me. Per un secondo mi ero davvero illusa di poter evitare che accadesse per non dover fingere, per non deludere chi per tutta la giornata ha pensato a me e a come sorprendermi.

Mi sollevo in piedi, scosto di poco la sedia indietro e prendo il coltello tra le dita. Lo rigiro tra di esse per qualche secondo; sento tre paia d'occhi premuti sulla mia figura che rendono i miei gesti maldestri, dettati da un'urgenza che normalmente non starei provando. Metto una fetta di torta in ogni piattino, altrettanti cucchiaini, e mi accomodo nuovamente. Stanno già mangiando, senza nemmeno avermi aspettata, quindi mi limito a fare lo stesso. Li guardo e non individuo il vero motivo per cui siamo qui: ognuno sta per i fatti suoi. Siamo divisi da pensieri diversi e sguardi diametralmente opposti.

Non sono qui per me, è questo ciò di cui mi convinco alla fine. Non siamo qui perché è il mio compleanno o perché volevano farmi una festa che non ho mai in realtà desiderato. Siamo qui, riuniti a questo tavolo, per dovere, perché un giorno come questo non lo si può tralasciare. Non lo si deve fare, per quanto artefatto si dimostri poi essere il risultato.

Prendo l'ultimo boccone di torta e lo addento come se non avvertissi alcun sapore o consistenza.

«Adesso apri il regalo, Caelie» mi incita Leonard.

Mi batto una mano sulla fronte. «Me ne ero scordata» mento rilasciando un sospiro.

Afferro il pacchetto e lo scarto con più cura di quanta ne necessiti, dopo libero il contenuto dalla scatola. C'è una borsa nera al suo interno, è piuttosto grande e capiente.

«Grazie» sussurro, ma quando la sposto mi rendo conto che non è tutto, che manca ancora qualcosa.

Sul fondo, dove prima c'era la borsa, ora vedo che c'è anche un piccolo quaderno. Lo tengo in mano, neanche fosse l'oggetto più prezioso che potessero donarmi. Tra le pagine bianche, vuote, scorgo ogni frammento di vita che potrei imprimere su carta. Oppure creare.

Helena mi rivolge un sorriso sincero e si stringe nelle spalle. La guardo e lei risponde con un occhiolino a malapena accennato, il quale però non mi sfugge. È stata lei, è una sua idea questa. È la prova tangibile che mi conosce più di quanto entrambe saremo mai disposte ad accettare.

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