24
Mi ci è voluto qualche minuto per riprendere contatto con la realtà dopo che Joanne se n'è andata. Ci è voluto persino più tempo di quanto pensassi, a dire il vero, perché la sensazione di vuoto e solitudine di cui ero preda mi ha risucchiata, mi ha compresso il cuore e seccato la bocca. Credo di aver sentito qualche voce in mezzo al silenzio ovattato in cui si erano perse le mie orecchie, forse il cameriere che voleva sincerarsi delle mie condizioni, ma ho lasciato perdere. Non riuscivo a parlare, a respirare, a smettere di tremare.
Me ne sono andata anche io dopo aver saldato il conto, e a nulla sono valse le parole di Cecily quando poi ci siamo incontrate io e lei da sole. A niente è servito ripetermi che continuare ad accusarmi di qualunque cosa accadesse fosse deleterio e inutile, a niente è servito avere una spalla su cui piangere in quel momento. Volevo solo andarmene, scappare lontano e dimenticare cos'era successo. Volevo correre a perdifiato e fermarmi al centro di un prato verde, lasciarmi cadere e permettere all'azzurro del cielo di riempire la mia visuale. Soltanto lui, l'odore dell'erba che mi invadeva le narici e il cinguettio distante di qualche passero. Ho desiderato solamente abbandonarmi, smettere di esistere in quanto persona e diventare qualcos'altro. Magari un fiore, una nuvola o ancora lo stelo di una margherita, un trifoglio che nessuno avrebbe raccolto, un granello del terreno che mi sosteneva.
Anche la presenza di Riccardo purtroppo non ha sortito alcun effetto. Ho saputo solo quando l'ho visto che avrebbe portato lui a casa Cecily, e che in parte l'aveva fatto perché sperava di portarmi a cena quella sera. Mangiare una pizza, guardare le stelle e poi scendere dall'auto davanti al vialetto per il semplice scopo di darmi un bacio sul naso e uno sulla fronte e augurarmi la buonanotte.
Volevo la solitudine come non avevo mai voluto nient'altro nella mia vita. Ancora una volta sguazzavo nel senso di colpa, e un po' mi ci sono crogiolata in quei muscoli tesi, in quelle labbra serrate e in quegli occhi grandi che non sanno più piangere.
Ed eccomi di nuovo stesa sopra l'autocommiserazione come avevo immaginato di fare su quel prato verde, incapace di alzarmi, correre da Joanne e dirle scusa, scusa, scusa, perché avrei dovuto fidarmi di lei, avrei dovuto almeno darle il beneficio del dubbio. No? No, invece ero lì, sul mio letto, circondata da quattro mura e non da due paia di braccia, quelle che avrebbero solo voluto stringermi e sussurrare, piano, sono qui con te.
*
Sono distesa sul divano a fare niente da almeno una buona mezzora. Mia madre non è a casa, come al solito, e mi stupisco del fatto che mi sono lasciata scivolare quella realizzazione addosso come un mucchio di gocce di pioggia che non avevo la forza di asciugare. Mi sono messa a leggere sul telefono un vecchio e-book acquistato mesi e mesi fa, quando ancora la sera avevo a disposizione del tempo da passare così, libera da qualsiasi pensiero. Per quanto i ricordi dell'incidente fossero ancora vividi e presenti, era diventato facile pensare ad altro e distrarmi, perdermi tra le righe di un romanzo e divenire una persona totalmente diversa da me. Nonostante alcuni tratti delle protagoniste mi facessero venire in mente miei comportamenti e mie esperienze passate, non riuscivo a immedesimarmi in loro al punto da ridere, commuovermi o addirittura piangere per ciò che le parole che scorrevano davanti ai miei occhi raccontavano. Leggevo con distacco per il semplice piacere di conoscere storie diverse dalla mia, vite a cui avrei potuto aspirare e momenti che avrei desiderato vivere sulla mia pelle un giorno.
C'è Leonard sull'altro divano, ma ci siamo scambiati a malapena un "ciao" da quando è tornato da allenamento. Al ritorno sul viso aveva la stessa espressione di sempre, quella dura e rabbiosa che sembra essergli stata cucita addosso in quest'ultimo periodo. È da tanto che non lo vedo ridere e neppure sorridere, ed è così strano che lui, proprio lui, abbia abbandonato quel lato del suo carattere leggero e spontaneo, quello che gli permetteva di divertirsi per le battute più disparate e stupide che non avrebbero mai e poi mai fatto ridere nessun altro.
Per certi versi mi ricorda Riccardo. Un tempo sarebbero andati d'accordo, lo so, perché Leo è un tipo sveglio e non si tira indietro. Avrebbero potuto parlare di calcio e dopo di stelle, di basket e dopo di viaggi e luoghi che gli avevano rapito il cuore, di scuola e di sogni. Un ragazzo ambizioso come Leonard avrebbe avuto tonnellate di cose da dire su quello che voleva diventare in futuro — "non so ancora se voglio essere un giocatore professionista o studiare architettura" aveva commentato quando siamo stati in vacanza a Firenze, in Italia, e io scrollando le spalle gli avevo risposto: "perché non entrambi?". E lui ci aveva riflettuto davvero, nelle settimane a seguire, tant'è che spesso mi chiedeva pareri a riguardo o voleva soltanto che qualcuno lo ascoltasse.
Ora guardarlo lì, perso e spaesato, ribelle e senza più una briciola dei sogni che aveva costruito, mi dilania. Mi mangia la carne, mi mordicchia dall'interno e vorrei solo prenderlo per le braccia, scuoterlo e urlargli in faccia: te lo ricordi? Te li ricordi i pomeriggi in cui i tuoi occhi erano grandi per poter vedere meglio i confini e i limiti che non c'erano quando pensavi ai tuoi giorni da adulto? Eh, Leo, te ne sei già dimenticato?
Le lacrime mi inumidiscono gli occhi, ma sono forte, mi ripeto una volta dopo l'altra con lo sguardo rivolto al soffitto candido, le punte dei piedi che escono dalla coperta solleticate dal calore del caminetto acceso.
«Caelie» mi richiama una voce che non sentivo da un po'. Non indirizzata a me, almeno, e non di certo così tranquilla e al contempo tremolante da farmi cedere le ginocchia.
Per un attimo credo di non aver capito, di essermi immaginata tutto, ma quando mi isso a sedere aiutandomi coi palmi delle mani mi rendo conto che non è così. Anche Leonard è seduto e tiene le ginocchia strette contro il petto, le braccia avvolte attorno a esse, e i suoi occhi chiari sono rivolti a me.
«Dimmi» mormoro temendo che la mia voce possa fare crac se dico troppo, frammentarsi come un vaso di cristallo che viene scagliato a terra da una mano intrisa di rabbia in un momento non proprio felice.
«Mi dispiace» sussurra solamente. Si sta limitando allo stretto necessario per non tradire le emozioni che sta provando.
Rimango in silenzio, forse in attesa che aggiunga altro al suo discorso o forse solo spaventata all'idea di aprire bocca e scoprirmi incapace di farlo senza iniziare a singhiozzare.
«Non avrei dovuto prendermela con te» continua infatti, «ma non avevo nessun altro con cui farlo. Avrei potuto arrabbiarmi con il papà o con la mamma, però non avrebbe fatto differenza. Avrei potuto dire e urlare e spaccare cose che tanto non sarebbero tornati insieme. Papà non avrebbe smesso di bere. La mamma non avrebbe ricominciato a preparare la cena e a mangiare con noi. Qualunque cosa io avessi detto la situazione sarebbe restata invariata. È stato facile invece prendermela con te, darti la colpa per ciò che era successo e sentirmi a posto con la coscienza. Volevo qualcuno da incolpare, tutto qui.»
Socchiudo le labbra per parlare, eppure da esse non esce alcun suono. C'è solo la frustrazione di non aver compreso la ragione dietro i suoi comportamenti a insinuarsi nel mio corpo. Non il perdono, non una parola di conforto, non un "accetto le tue scuse".
«È stato facile anche stare a casa il meno tempo possibile, inventare allenamenti extra e avere ulteriori scuse per non tornare, per essere fuori quel paio d'ore in più. È stato facile pensare ad altro e non a quello che avrei trovato rincasando, perché sapevo che avrei mangiato e sarei crollato a dormire neanche un'ora dopo. Nessuno faceva caso a me, mi avete lasciato fare, mi avete lasciato il tempo e la possibilità di evadere, e io non ho detto assolutamente niente. Mi stava bene così... solo che poi tu hai iniziato a parlare, parlare e parlare, e quel momento di stallo si è trasformato in un disastro. Papà se n'è andato, la mamma non c'era mai e anche tu non c'eri. Ero da solo.»
Si stringe nelle spalle. Tuttavia si sta finalmente sfogando con me, quindi gli permetto di farlo. Chissà da quanto si stava tenendo dentro queste sensazioni e chissà con quanti sensi di colpa ha ripagato la sua sfuriata.
«Ma mi dispiace, Caelie. Non è colpa tua, non è colpa di nessuno. Andava avanti da un bel po' e io non volevo accettarlo, non potevo. Pensavo ancora che, prima o poi, tutto sarebbe tornato come prima.»
«Lo so, l'ho sperato anche io per più tempo di quanto tu possa immaginare» sospiro. «Non sei da solo, Leo, te lo giuro. Ne usciremo insieme.»
«Io e te?» ridacchia. «La vedo un po' dura.»
«Tutti insieme» ribadisco. «Più tardi devo parlare con la mamma, sono stanca di non sapere dove va o dove si trova la sera. Possiamo affrontarla assieme, se vuoi.»
Annuisce col capo, poi a voce. «Sì, sono stanco di fare finta di niente. Voglio sapere anche io che cazzo sta accadendo a questa famiglia.»
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