21
La biblioteca, quest'oggi, mi ha dato un gran da fare. Certa che sarebbe stata deserta e che avrei passato la giornata a girarmi i pollici come al solito, è stata una bella sorpresa scoprire invece il lento via vai di persone dentro e fuori dall'edificio. Questo mi ha tenuta impegnata, lontana dai miei pensieri, per buona parte della mattinata e del pomeriggio. Ora che siamo vicini alla chiusura, però, dubito che qualcun altro verrà a farmi visita.
Mi appoggio al basso armadio dietro il bancone e sfoglio il libro che sto leggendo questo mese. Non mi ha presa tanto, ma odio lasciare le cose a metà. A volte è proprio quella seconda parte a farti rivalutare il libro intero e a dare un senso alla storia. I miei occhi scorrono quindi tra le righe, rapidi, perché le parole degli altri non le so assaporare fino in fondo come faccio con le mie. Sotto alcuni aspetti mi sembrano estranee, sotto altri le sento fin troppo dentro le ossa e ho bisogno di porre subito fine a quell'agonia. Ci sono libri, là fuori, che sembrano stati scritti per te e che ti fanno mancare il respiro a ogni frase. Ti ci vedi, lì, nel sorriso di un personaggio che odi dalla prima pagina o nel pensiero di una protagonista che, guarda caso, sta affrontando un'esperienza simile alla tua.
Ripongo il libro nella borsa una ventina di minuti più tardi, perché mi manca l'aria e voglio un attimo solo mio per poter ricominciare a respirare come si deve. L'orologio appeso alla parete, sopra la porta, segna ormai le cinque meno dieci. Manca poco, pochissimo, alla chiusura, quindi raccatto la mia roba lasciata un po' ovunque qua dietro. Dopo controllo il cellulare, forse aspettandomi un messaggio di Riccardo riguardo l'appuntamento di questa sera. Non trovo niente; faccio spallucce e indosso il cappotto, lenta, mentre il mio sguardo corre — per l'ultima volta in questa giornata — lungo gli scaffali colmi di libri.
Metto il braccio nella manica destra del cappotto e lo tendo per poterla infilare. Nel mentre avverto il rumore della porta che viene aperta, la quale stride leggermente contro le piastrelle del pavimento. Mi volto all'improvviso, tentando nel frattempo di indossare la giacca senza far cadere qualcosa a terra.
Riccardo sorride non appena i nostri sguardi si incrociano, e riesco solo a pensare a quanto io sia stata fortunata ad averlo conosciuto. Allaccio i bottoni e sistemo la borsa sulla spalla, gli occhi del ragazzo che seguono ogni mio movimento per l'ennesima volta, come se non ne avesse mai abbastanza di guardarmi, di ammirarmi quasi. Mi sembra ancora irreale che mi abbia vista e che continui a vedermi giorno dopo giorno come la cosa più bella che potesse capitargli.
«Ciao» mi saluta. La sua voce è bassa e ho la sensazione che stenti a credere che sia davvero arrivato questo momento, dopo tanti giorni in cui ho evitato lui e molte altre persone. Pare un sogno ad occhi aperti essere qui, l'uno di fronte all'altra, e sapere che la sua pelle è distante da me solo un paio di metri, i quali presto si trasformano in centimetri e poi millimetri.
Quando gli sono abbastanza vicina da poterlo fare, allungo le braccia e lo abbraccio. La testa aderisce al suo petto, proprio come avevo immaginato, e sento il suo cuore che pian piano accelera i battiti.
«Mi sei mancato così tanto...»
*
Dopo una breve sosta a casa mia per avvisare mia madre che questa sera non cenerò con lei e Leonard, salgo nuovamente a bordo della macchina di Riccardo. Un ciuffo scuro è caduto sul suo viso coprendogli parzialmente la visuale mentre è intento a cambiare stazione radio. Attendo qualche secondo prima di salire effettivamente, perché nonostante tutto ancora fatico a credere che tutto questo sia reale. Mi sembra così naturale e normale essere qui con lui da ricordare a stento quando lo allontanavo e più chiaramente le volte in cui al contrario lo cercavo, lo volevo vicino o ne sentivo la mancanza.
«Mia madre voleva vederti» esordisco non appena mi accomodo sul sedile. Faccio per afferrare la cintura e sorrido tra me e me prima di terminare la frase. «Di nuovo.»
Riccardo ridacchia e sposta la mano, quella che poco fa stava armeggiando con la radio, sul cambio. Poso la mia sulla sua senza pensarci sopra. «Sarà per la prossima volta» risponde strappandomi una risata leggera e spontanea.
Ingrana la prima e parte; una canzone dal ritmo accattivante ed eccessivamente orecchiabile riempie l'abitacolo facendomi considerare il fatto che, conoscendomi, ce l'avrò in testa per le prossime settimane tanto da canticchiarla mentalmente di continuo.
«Come si chiama?» gli chiedo.
Riccardo tiene gli occhi fissi sulla strada e, per non distogliere l'attenzione dalla guida, mi indica il piccolo schermo con l'indice.
«Joey Burbs, In Demand» mi risponde poi a voce alta. Soltanto adesso mi accorgo che ha inserito nel dispositivo una chiavetta USB.
«Cosa ti devo dire?» aggiunge. «Ho un debole per gli artisti semi-sconosciuti.»
Rido ancora e il viaggio in auto lo trascorriamo così, tra domande e curiosità musicali alle quali replico con piacere per i venti minuti successivi.
*
Stasera, da quanto mi è sembrato di capire, Riccardo ha scelto di accantonare rose rosse e locali eccessivamente romantici. Non ho potuto fare altro che tirare un sospiro di sollievo, tuttavia, dato che l'ultima volta sappiamo tutti com'è andata a finire. Tornare in quel ristorante non avrebbe certo contribuito al mio buonumore o a quello di Riccardo, tenendo conto che mi aveva vista distrutta come mai prima d'allora. Sono piuttosto sicura che sia stato triste e arrabbiato insieme a me, quella sera. Sono anche sicura del fatto che si sia sentito impotente di fronte a quell'intera situazione, consapevole che non ci fosse niente di concreto da fare — se non starmi vicino — per almeno cercare di risollevare un po' il mio umore.
«Come sta andando a casa?» mormora mentre attendiamo l'arrivo di un cameriere.
Alla fine il ragazzo ha infatti optato per una pizzeria abbastanza lontana dal centro città, in cui mi ha assicurato però che preparano una pizza coi fiocchi. "Se te lo dico io che sono italiano, devi fidarti di me!" mi ha detto ridendo non appena siamo scesi dalla macchina. Al che ho annuito, pur senza convinzione dato che non ho granché con cui fare paragoni. In realtà la pizza non mi piace molto.
«Va» gli rispondo facendo spallucce poco dopo. «Mia madre è quasi sempre via, non so né dove né con chi» continuo, «e con Leonard non parlo affatto da quando abbiamo litigato. O, meglio, è lui a non parlare con me.»
«Vorrei poter fare qualcosa...»
Tendo una mano e la poso sul suo braccio appoggiato sulla tovaglia a scacchi bianca e rossa. I miei occhi incontrano i suoi, e per un istante sembra quasi che siano più scuri del normale, la sfumatura accentuata. Accarezzo delicatamente la maglia e la pelle libera del polso quando sto per allontanarmi nuovamente da lui.
«Hai già fatto tanto» lo rassicuro. «Grazie di essermi stato vicino quella sera, e scusa se ti ho evitato in questi giorni. Avevo bisogno di stare un po' da sola.»
«Lo avevo immaginato» mi dice accennando un sorriso sincero. «Ho detto anche a Cecily di stare tranquilla.»
«Cecily?» ripeto confusa, non rammentando di avergli raccontato di lei.
Riccardo sta per ribattere quando un ragazzo, probabilmente più giovane di noi, ci raggiunge per richiedere le nostre ordinazioni. Sono da poco passate le otto. Un paio di minuti dopo torna al bancone reggendo fra le dita il foglietto, sopra il quale ha annotato gli ordini, che porge ad un ragazzo non più grande di lui. Solo quando siamo di nuovo da soli, Riccardo riprende a parlare.
«Non è che ci siano molti Riccardo Ferrari, qui. Ha solo fatto due più due.»
Rido e mi passo una mano tra i capelli, all'improvviso grata che la questione si sia risolta con tale naturalezza, salvandomi dal dire alla ragazza che frequento suo cugino — o forse è lei a non essersi affatto dimenticata della conversazione che abbiamo avuto poco dopo esserci conosciute? Non ero certa di come l'avrebbe presa, ma a quanto pare avere qualcuno dalla propria parte non è un male, soprattutto quando di mezzo ci sono io che sparisco un giorno sì e uno anche nel momento in cui la situazione diventa troppo difficile da sopportare.
«Cosa ti ha detto?» gli chiedo incuriosita.
«Non molto» replica e si sistema più comodamente sulla sedia. «Sapeva che uscivamo assieme da quando le hai fatto il mio nome, quindi è un po' che so che siete amiche. Per il resto, era solo preoccupata per te.»
«Mi dispiace» proferisco di getto. «Sono una frana in queste cose, è scomparire quello che mi riesce bene. È già tanto che io ne stia parlando con te» dico in un soffio. «Dio, perché è così complicato confidarsi con qualcuno?»
«Alcuni preferiscono ascoltare, altri no. Alcuni hanno l'accortezza di starci vicino in silenzio, altri pretendono di farlo. È sempre questo confine labile a fare la differenza.»
Dischiudo le labbra per rispondergli, ma mi rendo conto di essere rimasta a corto di parole perché lui, fra le tante persone che pensavo l'avrebbero fatto, è stato l'unico a comprendermi davvero.
*
Poso entrambe le posate sul piatto vuoto. Durante la cena ho dovuto ricredermi su due cose: uno, sul fatto che Riccardo ha fatto la scelta migliore portandomi qui e due, che la pizza fatta bene non è solo buona, di più. Ho l'impressione che verremo qui spesso d'ora in poi.
Sorrido ampiamente incrociando lo sguardo di Riccardo, il quale mi osserva con un lieve ghigno dipinto sul viso. «Ti è piaciuta?»
«Tantissimo!» esclamo mentre sento l'espressione farsi via via più distesa e spensierata, addirittura felice.
Riccardo mi sfiora una mano con le dita; abbasso il capo per non fargli vedere che, nonostante tutto, c'è ancora un po' di imbarazzo nei miei gesti quando siamo così vicini ed entra in gioco il contatto fisico. Dovrebbe essere una cosa naturale, normale, ma per troppo tempo ho desiderato che fosse la pelle di Sebastian e quella di nessun altro a scontrarsi con la mia. Certe cose non si dimenticano nell'arco di una settimana, certe sensazioni restano impresse per un lungo lasso di tempo prima di assopirsi.
Il telefono che, subito dopo essere arrivati, avevo sistemato accanto al tovagliolo e di cui mi ero dimenticata dell'esistenza, vibra segnalandomi l'arrivo di un messaggio. Gli rifilo un'occhiata veloce, perché se c'è una cosa che odio è uscire con qualcuno e scoprirlo, la maggior parte delle ore trascorse insieme, incollato al cellulare. Non voglio essere quella persona, quindi lascio perdere e i miei occhi ritrovano presto quelli di Riccardo.
Lui, però, con un cenno mi esorta a controllare chi sia. «Potrebbe essere tua madre.»
Da quel poco che sono riuscita a leggere non penso che si tratti di lei, ma non voglio discutere per un nonnulla, quindi lo sblocco e, come previsto, appuro che il messaggio che ho ricevuto non è da parte di mia madre. Il mio sguardo si spegne nel momento in cui trovo il nome di Sebastian ad aspettarmi.
«È Sebastian» dico a voce alta perché anche Riccardo possa capire. «Dice che verrà qui per le vacanze di Natale.»
«Non torna ogni anno?» mi domanda il ragazzo, e il suo tono di voce è talmente calmo che mi sembra di star parlando ancora della pizza di poco fa.
«Sì» gli rispondo. «È una di quelle cose che si sanno, non so se mi spiego.»
Riccardo annuisce. «Magari voleva solo ricordartelo.»
La mia postura tuttavia è più tesa e rigida rispetto a prima, come se d'un colpo fossi stata di nuovo catapultata nella solita spirale di dubbio, sentimenti e delusioni. La mia mano trova subito quella di Riccardo; la stringo forte, perché è questa l'unica verità di cui ho bisogno in questo momento.
«Se mai vorrai parlarne...» inizia, ma lo interrompo all'istante.
«Grazie» mormoro subito, quasi temessi di metterlo al corrente di ciò che penso davvero di lui. «Sei esattamente la differenza di cui parlavamo prima.»
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