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Non faccio neanche in tempo ad aprire la porta di casa che trovo mia madre sulla soglia ad aspettarmi. Mi abbraccia di slancio, impedendomi persino di ricambiare dato che tra le mani tengo le borse della spesa.

«Sono così fiera di te» dice piano sulla mia pelle; il suo respiro la solletica un po', ma queste parole valgono più di mille altre e non riesco a trattenere un sorriso.

Finalmente si fa da parte e mi dirigo svelta in cucina dove appoggio il tutto e osservo distratta la tavola già apparecchiata. La stanza profuma di spezie e sugo, quindi perdo qualche altro istante per capire cosa ci sia ad attendermi per cena.

È tutto così... normale. Come se non avessi preso la macchina per la prima volta dopo due anni, come se in passato non fosse successo niente, come se non mi fossi dovuta fermare dieci volte lungo il tragitto pur di ricominciare a respirare. Forse davvero ero io l'unica ad averlo trasformato in un problema, mentre la mia famiglia non stava aspettando altro che fossi pronta a ripartire da capo.

Probabilmente la strada è ancora lunga, però ce l'ho fatta. Questo è abbastanza.

«Dove sono Leo e papà?» domando mentre tolgo i prodotti acquistati dai sacchetti e li sistemo negli armadi o nelle credenze a loro destinati.

«Leo è a basket, papà non lo so.» La sua voce si spegne quando parla di mio padre, lo fa sempre, e io sono purtroppo consapevole che i miei genitori sono vicini alla fine — dell'amore, della relazione, della famiglia, dei compromessi, della comprensione. Si stanno esaurendo, restano le briciole.

«Lo chiamo io adesso» mi sforzo di dire. Tuttavia la bocca mi si secca non appena premo il tasto di avvio chiamata, perché non so più come iniziare una conversazione con lui. Sono poche le volte in cui parliamo, il nostro rapporto non è mai stato più teso e distante di quanto lo è ora. Ho la sensazione che non sia un padre, che non sappia esserne uno. È stato sempre un papà ad alti e bassi con me, ma adesso i "bassi" durano da anni e non credo che ci sia possibilità di risalita.

«Cosa vuoi?» È questa la prima cosa che mi dice, la voce dura e aspra che riserva a chiunque quando è di cattivo umore. Sempre, correggo mentalmente il tiro.

«A che ora torni a casa?» chiedo in un sussurro. Le parole si spezzano in gola mentre parlo, mi sembra di poterle visualizzare davanti agli occhi e di vederle ridursi in macerie un pezzo dopo l'altro. «La cena è già pronta.»

«Quando finisco di lavorare» ribatte brusco, e dal suo tono capisco che non vuole sentire obiezioni. Ma io ne ho a tonnellate da dire, premono sulla punta della lingua mentre ascolto il rumore di sottofondo proveniente dall'altro capo del telefono: ci sono parole e risate, forse addirittura gli stessi di un televisore acceso che trasmette vecchie sit-com.

«Dove sei?» La sento graffiare in gola questa domanda, la rabbia che riaffiora prepotente quando mente a me per la prima volta.

«A lavorare, sei sorda?» La sua voce inciampa prima di finire di parlare.

«Hai bevuto» affermo delusa, però quello che voleva essere un quesito si trasforma in un'affermazione vera e propria. «Sei ubriaco.»

Mio padre non ha il coraggio di replicare; le mie orecchie vengono invase dai bip che segnano la fine della chiamata.

«Mi è passata la fame» dico a denti stretti quando mia madre mi prega di sedermi a tavola e cenare. «Come cazzo fai a sopportare questa situazione?»

È accaduto altre volte che tornasse a casa ubriaco, ma ogni volta è peggio della precedente. Sta diventando ingestibile per ognuno di noi e, francamente, non mi sorprende che Leonard voglia passare più tempo possibile fuori di casa. Vale lo stesso per me e, lo devo ammettere, ultimamente è stato più facile sopportare per il semplice fatto che non ero presente quando apriva la porta di casa e a stento si trascinava a sedere. Gli ultimi mesi sono stati un inferno per la nostra famiglia.

«Mangia qualcosa almeno» mi supplica spostando la sedia di fronte a me e accomodandosi. Mi prende persino le mani e le stringe, ma a differenza di qualche ora fa il contatto, pelle contro pelle, m'infastidisce. Ritraggo subito le mie e punto il mio sguardo su di lei.

«Devo uscire fra neanche un'ora» mormoro consapevole di ferirla così facendo. «Mi vado a preparare.»

È questo che faccio, ciò in cui sono brava: rovino i bei momenti, le piccole soddisfazioni, le persone. È quello che hanno fatto con me per tutta la vita e, se quando ero più piccola c'era la speranza di poter cambiare ed essere diversa dai miei genitori, Lily mi ha fatto comprendere di non essere poi così differente da loro. Siamo due facce della stessa medaglia.

Salgo in camera e apro l'armadio come prima cosa: guardo attentamente gli indumenti che mi si parano davanti, ma non ho la più pallida idea di cosa mettere. Dopo infinite prove, opto per un semplice paio di jeans chiari e un altrettanto semplice maglione nero.

So che sono in largo anticipo, lo sono eccome, eppure il solo pensiero di dover scendere al piano inferiore e affrontare il discorso "papà" con mia madre mi fa rovesciare lo stomaco e accelerare i battiti. A volte la decisione migliore è quella più difficile da prendere, perché sarebbe facile tenere duro ancora per qualche giorno, mese o anno; quello che è complicato è invece preparare le valigie e uscire dalla porta di casa, senza pensare a nessuno all'infuori di se stessi, per non tornare.

Tuttavia mia madre è buona, è dolce, e ha sempre sacrificato parte di sé per far sentire gli altri al sicuro a dispetto della situazione in cui si trovava. È solo ultimamente che il suo disagio è diventato più evidente, però dubito che sia accaduto così, da un momento all'altro. C'è molto che né io né Leonard conosciamo, e mi spaventa persino immaginare cosa potrebbe essere.

Non c'è mai limite al peggio, e anche questo mi terrorizza.

*

Riccardo ha capito. Quando parcheggia davanti a casa mia sono circa le nove e mezza; mi avvisa inviandomi un messaggio proprio mentre sto dando gli ultimi ritocchi al trucco. Indosso rapidamente la giacca e afferro la borsa, poi scendo le scale quasi di corsa.

Non dico niente a mia madre quando esco, ma la vedo appoggiata allo stipite della porta della cucina con la coda dell'occhio. Mi si stringe il cuore a guardarla, anche se sono sicura di aver bisogno di evadere da qui, di respirare aria buona e serena, di ridere senza pensare neanche un secondo a ciò che troverò quando tornerò.

Attraverso il vialetto con urgenza, come se lasciarmi l'ingresso alle spalle e salire a bordo dell'auto di Riccardo possa essere sufficiente a dimenticare. Spalanco la portiera con un gesto secco e mi accomodo al suo fianco, dopo allaccio la cintura e mi azzardo a guardare il ragazzo negli occhi. Non so quale sia il mio aspetto in questo momento, se il rossore che avverto sulle guance sia una mia impressione o meno, ma aspetto che sia lui a parlare per evitare di tradirmi.

«Tutto bene?» mi domanda inarcando un sopracciglio, però nel complesso immobile e con il busto ruotato di qualche grado per potermi vedere bene. Sento il suo sguardo che mi scandaglia il viso, quasi potesse analizzarlo dettaglio per dettaglio e, solamente dopo, riaprire la bocca.

«Sì» dico annuendo anche con la testa.

Tuttavia Riccardo è uno che sa osservare, e sono sicura che non gli sia sfuggito il lieve tremolio del mio labbro inferiore dopo aver pronunciato quell'unica sillaba.

«Se vuoi parlarne, sono qui» afferma con un sorriso a metà tra il triste e il preoccupato. «Abbiamo tutta la sera a disposizione.»

«Dove vuoi portarmi?» svio il discorso. Anche se lo nota, si limita a ridacchiare leggermente. Ingrana la prima e parte fino ad arrivare allo stop, quando ne approfitto per alzare il volume della radio nella speranza di zittire i pensieri e i ricordi.

*

Anche stavolta il tragitto è piuttosto lungo, ma dubito che mi voglia portare a cena. Sono ormai quasi le dieci e, nonostante io sia a stomaco vuoto, non ho per niente fame.

Con la coda dell'occhio lo guardo guidare con attenzione, lo sguardo fisso sulla strada dinnanzi a noi e le labbra che di tanto in tanto sussurrano il ritornello della canzone trasmessa alla radio. Non mi unisco alla sua voce, comunque; permetto alla sua spensieratezza di riempire l'abitacolo, di contagiarmi come solo lui sa fare, senza parole.

«Se vuoi posso darti una foto» sogghigna qualche istante più tardi, la mano sinistra ancorata saldamente al volante e la destra posata mollemente sul cambio.

«Cosa?» dico riscuotendomi dal torpore delle mie riflessioni.

«Posso darti una mia foto, se ci tieni tanto.»

Non udendo una mia replica, ricomincia a chiacchierare. «Non fai altro che guardarmi stasera» aggiunge, e lo vedo il sorriso che lotta per conquistare il suo viso. «Perché?» A questa parola però il suo tono si spegne, la sua voce si affievolisce fino a diventare aria che non posso afferrare tra le dita.

Gli spiego il motivo prima ancora di decidere se sia giusto o meno nei suoi confronti farglielo sapere. «Mi piace la leggerezza con cui affronti le situazioni, la spensieratezza che anima ogni tua parola e movimento.»

«Non so cosa voglia dire essere leggeri o spensierati» replica spiazzandomi. «Credo che sia la tua compagnia a farmi sentire così.»

«Non penso proprio, Rick.»

«Rick?!» ripete il soprannome che mi è uscito spontaneo, con naturalezza, tanto da averne assaporato il sapore soltanto una volta fuggito dalle labbra.

«Invece sì, Caelie» riprende. «In te c'è la bellezza tipica di chi ha sofferto tanto, ma vuole ricominciare. L'ho capito il giorno in cui ti ho vista la prima volta.»

Incapace di articolare una risposta sensata, lascio che sia la quiete a riempire nuovamente l'abitacolo insieme alla musica che ci fa da sottofondo come un eco distante, ma al contempo rassicurante.

Appoggia brevemente una mano sulla mia coscia, la sfiora con la delicatezza di un fiore smosso da un vento fresco, poi la ritrae.

*

Giungiamo a destinazione mezzora più tardi. Riccardo parcheggia la macchina poco dopo aver svoltato, però non scorgo nulla di interessante nelle vicinanze. Siamo circondati da strade e alberi, e credo che quello alla mia destra sia proprio un parco per bambini. Un brivido freddo percorre la mia spina dorsale quando mi sembra di sentire il cigolio isolato di un'altalena.

Riccardo mi tende una mano con esitazione, ma l'afferro subito. Le nostre dita si incrociano in quello che pare un incastro perfetto, e il mio pensiero vola in quell'angolo remoto della mia mente dove ho cercato di seppellire i miei sentimenti per Sebastian. Permetto a quella sensazione di inghiottirmi e di farmi mancare il respiro per un attimo, eppure la presa di Riccardo che si fa più intensa mi fa ridestare. Percepisco dei cerchi immaginari venire disegnati sul dorso dal suo polpastrello; mi lascio cullare da questo, perché ho davvero bisogno di una via di fuga dalla realtà.

Usare Riccardo per questo scopo mi rende una persona orribile, colei che non avrei mai voluto essere, ma desidero talmente ardentemente divenire la persona che lui pensa che io sia da annullare ogni dubbio riguardo ciò che sto facendo.

Mi avvicino maggiormente a lui e porto il braccio libero attorno al suo; appoggio la testa sulla sua spalla, anche se stiamo camminando e questo rende difficile compiere movimenti fluidi. Sento i suoi muscoli tendersi sotto la pelle del mio viso, il frusciare della sua giacca che mi riempie le orecchie con il suo crepitio.

Si ferma all'improvviso costringendomi ad allontanarmi dal suo corpo.

«Perché?» sussurro soltanto, le labbra che si allargano in un sorriso triste e un po' spaventato. «Ho fatto qualcosa di sbagliato?»

Riccardo nega con la testa e ridacchia, eppure percepisco il sapore amaro e disgustoso della sconfitta nel suo gesto disinteressato.

«So che il tuo cuore appartiene a un'altra persona» mormora. Mi avvicino a lui, tanto da ritrovarmi a pochi centimetri dal suo viso.

«No, non lo sai. E non è vero» mento spudoratamente, mentre la bugia mi fa bruciare gli occhi. Le lacrime si accumulano agli angoli per mostrare anche a lui quanto codarda io sia.

«Lo è» ribatte. «Ma per qualche ragione non mi basta, questo pensiero non è mai riuscito a fermarmi.»

«Meglio così.»

«No, per niente, perché ho voglia di baciarti e non posso farlo. Continuo a chiederti di uscire quando la tua sola presenza mi fa desiderare di averti» sussurra, e la sua voce grave mi solletica la pelle.

«Fallo» lo sfido ignorando il suo malessere e il mio. Il volto di Sebastian si presenta nella mia mente, ma lo scaccio portando le mani ai lati del viso di Riccardo. Scendono poi sul suo collo, sulle sue spalle. «Non fermarti, non stasera.»

«Caelie, non posso» sospira e il suo fiato sbatte contro la mia pelle impedendomi di rimanere lucida. Le mie dita gli accarezzano le guance riprendendo il contorno della mandibola, poi raggiungono le sue labbra. Sono morbide, nonostante siano leggermente screpolate, e riesco solo a pensare a quanto sarebbe bello sentirle, a cosa significherebbe per me poterle sfiorare, poterlo baciare.

Mi avvicino a lui ancora e ora sono banali millimetri quelli che ci dividono. Inclino la testa verso di lui, fino a essere fronte contro fronte. So che sto facendo un torto a entrambi così, ma lo voglio. Voglio rendermi conto che non è troppo tardi per ricominciare, che l'amore ha bisogno di due persone per essere tale.

Non ho mai avuto la certezza che per Sebastian fosse lo stesso, mentre Riccardo me lo sta dimostrando in tutti i modi. Me lo ha detto, come potrei fare finta di niente?

Premo le mie labbra contro le sue; non trovo resistenza, solo le sue mani che si depositano sulla mia nuca e che poi scoprono di non poter stare immobili a lungo nel medesimo posto. Viaggiano sulla mia schiena, sui fianchi.

Malgrado le circostanze e i pensieri che popolano la mia mente, sto bene. Chiudo gli occhi e mi lascio sopraffare da questa sensazione, dalla meraviglia che scorre nelle mie vene e si riversa in lui, come fosse un'aura che da questo momento ha smesso di avvolgere soltanto me.

Le mie dita attraversano i suoi capelli separando le ciocche che tiro, seppur con dolcezza, presa dalla foga del momento.

Ci stacchiamo con uno schiocco poco sonoro, e il mio capo si adagia sul suo petto quando sorrido e non glielo voglio far vedere. Le sue braccia circondano la mia vita, poi la sua presa si intensifica e un altro bacio viene da lui lasciato tra i miei capelli.

«Cosa mi fai...» dice piano, ma non riesco a capire se sia una domanda, un'affermazione o qualcosa diretto puramente a lui, come se avesse parlato a voce alta senza che fosse nelle sue intenzioni.

«Cosa mi fai tu, piuttosto» sorrido nervosa. Adesso non riesco a pensare a Sebastian e all'amore che credevo di provare per lui; è un eco lontano, un ricordo del passato, un rimpianto che ha finalmente trovato pace.

«Il tuo cuore potrà non appartenere a me, ma il mio è già tra le tue mani.»

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