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Le pareti della mia stanza sono bianche e spoglie, non c'è nessuna fotografia appesa alle pareti: niente ricordi di vacanze trascorse all'estero, niente poster di cantanti e band che hanno segnato la mia adolescenza. Niente di niente.
Mi rigiro nel letto; ho gli occhi aperti e il sole filtra dalle finestre che mia madre ha spalancato per farmi alzare in orario. La sento mentre armeggia, in cucina, con la caffettiera e le tazzine preparate per bere il caffè e dare l'impressione della famiglia felice che si trova, insieme, a fare colazione alle sette e un quarto prima dei vari impegni.
Scosto un lembo di coperta e mi alzo, la testa che pulsa perché questa, come tutte le altre notti, non sono riuscita a dormire otto ore di fila.
Il mio riflesso è sempre lo stesso quando mi guardo allo specchio, in bagno: ci sono le occhiaie che neanche il correttore è in grado di nascondere, i capelli scompigliati dato che come al solito mi sono addormentata con uno chignon improvvisato a stringerli, la pelle secca e segnata dall'uso costante di trucco.
Mia madre mi chiama dal piano di sotto. «Caelie!» urla. «Vieni, è pronto!»
Scuoto la testa e non rispondo, però, perché è una gioia sapere di essermi svegliata abbastanza in anticipo da non averla fatta arrabbiare. Mi sciacquo la faccia e corro in camera a vestirmi: indosso un paio di leggins neri e un maglioncino leggero color crema, poi allaccio le scarpe e mi decido finalmente a raggiungerla.
Helena, mia madre, ha il viso teso e la stanchezza che prova è evidente non appena la si guarda. La fa sembrare più vecchia di almeno cinque anni, insita nelle rughe marcate agli angoli degli occhi e intorno alla bocca. Non lo fa a parole, ma versa il caffè nella mia tazzina a mo' di saluto. Una ciocca di capelli biondi le ricade sulla fronte, però non ci fa caso; la lascia lì tanto è concentrata a mantenere viva quest'atmosfera idilliaca.
Mio fratello Leonard ancora dorme, rigorosamente sul divano del salotto — dice che il materasso in camera sua è scomodo, ma noi abbiamo ormai capito perché preferisce la sala — quindi tocca a me l'ingrato compito di farlo alzare. Gli scuoto la spalla una, due, tre volte, eppure fa a malapena attenzione a me. Si gira dall'altra parte portandosi la coperta sopra la testa, ma con un gesto repentino la afferro e la scaglio dalla parte opposta del sofà.
Leonard punta i suoi occhi azzurri nei miei, mi studia con espressione rabbiosa, tuttavia quando sente mia madre che dalla cucina lo prega di prepararsi in fretta tace. Lo osservo quando con i pugni stretti lungo i fianchi si dirige in bagno, impettito, e resto in religioso silenzio anche io. Ogni mattina è la solita storia, e quasi sempre mio padre è il primo ad andarsene. Esce di casa presto, lavora piuttosto lontano da qui, e ormai sono diventati pochi i momenti in cui siamo tutti riuniti nello stesso posto. A volte capita solo a cena, altre neanche quella. Ho dovuto farci l'abitudine, smettere di pensare che questa non è l'idea di famiglia che avevo, adeguarmi ai ritmi di tutti loro anche se non so stare al passo.
Finisco il mio caffè in un paio di sorsi. Nel frattempo mia madre trangugia un bicchiere d'acqua —lei odia quella bevanda amara che noi invece adoriamo tanto — e con un cenno l'avviso che vado su a finire di prepararmi prima che l'orologio segni le otto meno un quarto. Non voglio realizzare di essere in ritardo, nonostante ultimamente succeda più spesso di quanto mi piace ammettere.
Gli ingranaggi dell'esistenza cominciano a mettersi in moto fuori da queste mura: sento le macchine che transitano sulla strada, ognuna di esse occupata da persone così distanti da me che fatico persino a immaginarle. Penso a dove stiano andando, a chi ci sia a bordo, a quale tortura abbiano dovuto sopportare abbandonando il proprio letto. Spero che almeno uno di loro si sia alzato con il sorriso o con accanto qualcuno che lo ama, a differenza nostra.
Sbuffo, comunque, perché quelle vite sono così lontane dalla mia che non vale neanche la pena rimuginarci sopra. Mi lavo i denti e sciacquo il viso ancora, quasi l'acqua fosse in grado di donarmi la vitalità di cui necessito. Dopo afferro, dalla mensola accanto al lavandino, il fondotinta, il mascara, una matita nera e il medesimo rossetto rosso scuro di ogni giorno.
Tra una cosa e l'altra si sono comunque fatte le otto meno un quarto quando saliamo in macchina. Leo davanti, io dietro. La musica riempie l'abitacolo a un volume altissimo, ma non dico nulla, malgrado sia presto e io abbia già voglia di litigare, di lamentarmi, di cercare il negativo dove non c'è. È una canzone reggaeton quella che sono costretta ad ascoltare. Mio fratello ne va matto, e anche io dopotutto.
Tiro un sospiro di sollievo quando invece arrivo a casa di mia nonna cosicché mia madre possa portare Leonard a scuola senza doversi preoccupare di me, e già lungo le scale avverto il profumo della seconda tazzina di caffè della giornata.
Ho tempo fino alle nove prima di cominciare a lavorare, ma questi minuti di pace che mi rimangono mi fanno desiderare soltanto di tornare nel mio letto, al caldo, ad anni luce di distanza dall'inadeguatezza che provo per il semplice fatto di essere qui, viva, e di avere responsabilità che non ho mai voluto avere.
«Buongiorno!» esclamo varcando la soglia, ma buono non lo è affatto. È una delle tante cose che si dicono a prescindere per educazione o circostanza.
Mia nonna sorride, è felice di vedermi, eppure la fulmino con lo sguardo perché non ne posso più di ripeterle che ha bisogno di riposo, che il caffè lo posso preparare tranquillamente io non appena arrivo a casa.
«Come stai?» le domando dopo aver tolto la giacca e appoggiato la borsa.
«Bene» mente. Tiene una mano sulla schiena, finge che sia finita lì per sbaglio. Si muove sulla sedia e si solleva con fatica, cerca e trova il pacchetto di sigarette dalla parte opposta del tavolo. Se ne porta una alla bocca. Lo lascia poi tra di noi in un chiaro invito a me di fare altrettanto. Lei è stata la prima persona a cui ho confidato di aver provato a fumare, una mattina fuori dal cancello della scuola, e l'unica che pur non approvando non ha mai osato giudicarmi.
Lo faccio, infilo la sigaretta tra le labbra e la rotellina dell'accendino scatta, ma la fiammella è un po' troppo alta e per un soffio non mi brucio una ciocca di capelli. Rido perché sono ancora mezza addormentata e i miei gesti sono lenti, incontrollati, come se il tempo stesse scorrendo al rallentatore per me.
«Ombre» esordisco dopo due tiri. «Sembrano tutti delle ombre.»
Nonna Betty inarca un sopracciglio, è chiaramente confusa a causa della mia affermazione, ma attende che sia io stessa a spiegare le mie parole. È la sola con cui posso permettermi di farlo, la sola per cui la mia mente è un libro aperto per mia volontà.
«Mamma, Leo, mio padre» gesticolo. «È tutto così distante, buio. È routine.»
Lei scuote il capo, però sa che ho ragione. Anche lei lo crede, l'avrebbe solamente detto in maniera diversa. Ogni giorno vediamo mamma farsi il mazzo e chiudersi in se stessa e Leonard diventare incapace di portare rispetto, di parlare con calma, di confidarsi, di essere la persona che entrambe ricordiamo.
Prendo la tazzina e il liquido scuro termina dopo altri due sorsi; un po' di cenere si riversa fuori dal posacenere. Sono disattenta, e le cose le guardo solo a fondo, mai in superficie.
«Vado, ora» dico. «Ci vediamo stasera.»
L'orologio segna le otto e venti. Sa che è ancora presto, ma non ribatte.
«Comportati bene» scherza. Le faccio un occhiolino e una linguaccia, poi esco.
Attraverso la strada dopo aver passato cinque minuti buoni a guardare a destra e a sinistra per appurare l'assenza di macchine. Il vento mi accarezza delicato i capelli, siamo in autunno e gran parte degli alberi ai lati delle strade si sono dipinti di giallo e arancione. Per un secondo m'incanto, mi perdo nei loro colori.
Poso finalmente i piedi sul marciapiede e procedo spedita verso la mia destinazione, ossia la biblioteca cittadina in cui ho scelto di impiegare le mie forze. Mi piace leggere, mi piace lasciare un pezzo di me nelle storie di qualcun altro, ma ancora di più mi piace la quiete, la sensazione di serenità che mi pervade non appena apro quella porta. Sono da sola, lì, e anche questo mi piace il più delle volte.
Saluto un'anziana signora quando ci incrociamo. Non la conosco, però ha il viso vispo, allegro, e l'espressione di chi sa esattamente dove sta andando — in un posto felice, a giudicare dal guizzo spensierato delle sue labbra non appena riceve il mio buongiorno. Per lei oggi lo è sicuramente.
Sfilo le chiavi dalla borsa e finalmente entro, l'odore di libri vissuti e non mi riempie le narici e mette a tacere i sensi che mi fanno stare perennemente in allerta.
Sono poche le persone che, di tanto in tanto, passano da me. Se questa non fosse una biblioteca comunale sono sicura che ci sarebbe più giro, ma sappiamo farcelo bastare. Vedere i bambini che sorridono me lo fa apprezzare più che a sufficienza.
Sono le undici e quaranta quando la porta si spalanca, forse per la terza volta da quando ho iniziato a lavorare stamattina, e un ragazzo che non ho mai incontrato né visto prima d'ora fa il suo ingresso. Non è tanto alto, ma lo è sicuramente più di me di almeno una decina di centimetri, e ha i capelli sistemati in un ciuffo sbarazzino, come se ci avesse già passato fin troppe volte le dita in mezzo. È quando però si avvicina che riesco a osservarlo meglio, e quegli occhi chiari sepolti sotto gli occhiali mi parlano, mi dicono che non si sente a suo agio — nonostante il suo aspetto possa ingannare e ostentare una sicurezza che non possiede. Saettano a destra e a manca, chissà alla ricerca di cosa, e per un breve istante si soffermano su di me, sulla mia figura, come se avesse appena scorto qualcosa che non immaginava di trovare.
«Posso aiutarti?» chiedo incapace di distogliere lo sguardo dal suo. Avanza di un metro circa, cammina piano e con le mani affondate nelle tasche della giacca di pelle nera che indossa.
«Mmm...» Sembra rifletterci su, decidere se accettare o meno il mio aiuto, finché non fa spallucce e annuisce. «Sto cercando un libro.»
«Davvero? Pensavo fossi qui per fare aperitivo.»
Il ragazzo ridacchia, non è infastidito dal mio commento. «L'insostenibile leggerezza dell'essere» aggiunge evitando di fare riferimento alle mie parole precedenti.
«Non l'ho mai letto» affermo, ma mi pento subito di averlo fatto. È stato spontaneo e naturale farglielo presente, malgrado io sia convinta che non gli interessa minimamente.
Mi affretto a digitare il titolo sul computer per controllare che sia in elenco. «Ce l'abbiamo. Vado a prendertelo.»
Ho già aggirato il bancone quando lui mi afferra il polso facendomi così arrestare sul posto. «Posso andare io, non è un problema.»
«No, no» insisto. «Aspetta un momento.»
I miei occhi cadono sulle sue dita avvolte attorno al polso; la stretta è delicata, non mi disturba né infastidisce, tuttavia strattono un po' il braccio e mi allontano.
Sono di nuovo da lui in men che non si dica, il libro stretto tra le mani mentre ne osservo la copertina, anche io tentando di scovare qualcosa di ignoto. Non l'ho mai letto, non so di cosa parli, ma il titolo mi affascina, mi fa desiderare di tenerlo. Di leggerlo, di assaporarlo, di farlo un po' mio. È il fatto di non avere la più pallida idea su alcunché che lo riguardi ad avermi fatto venire tanta voglia di averlo sul comodino.
«Grazie» mi sorride il ragazzo dopo qualche istante di silenzio. «Due settimane e lo riporto, promesso.»
Mi posiziono davanti al computer, l'ombra di un sorriso che m'increspa le labbra. «Mi serve il tuo nome, altrimenti non te lo posso lasciare.»
Lui si gratta la nuca, evidentemente preso in contropiede, e porta la mano libera nella tasca.
«Riccardo.»
«E il cognome?» insisto.
«Ferrari, Riccardo Ferrari» ridacchia di nuovo. «Devo farti lo spelling?»
Faccio cenno di sì col capo e Riccardo inizia a dettare. Vorrei essere capace di pronunciare quel nome senza storpiarlo come invece sono sicura che farei. Mi piace il suono che ha, il modo in cui sfila delicato sulla sua bocca. Sono certa che lui, a differenza mia, non ha mai smesso di trattarsi bene.
Inserisco i dati e, dopo averli salvati, gli consegno il libro. Riccardo sorride, anche se lievemente, e per un attimo la mia difesa cede, il muro mostra una crepa di cui non mi ero accorta prima.
Agita una mano in segno di saluto, ma è già di spalle quando mi decido a ricambiare. La porta viene aperta, e lui se ne va senza voltarsi indietro.
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