Capitolo 7 - È la sofferenza a produrre la bellezza
La mattina dopo, a scuola, me ne stetti per tutto il tempo con la testa tra le nuvole. A pranzo le mie amiche non riuscivano a capire che cosa avessi, ma evitarono di punzecchiarmi come facevano di solito.
Mia sorella Margot, invece, rideva e scherzava rivolgendomi la sua dose di battutine quotidiane. Quando le lanciavo occhiatacce eloquenti per farla smettere, le sue frecciate mi facevano saltare sulla sedia dalla sorpresa.
«Ti prego, Sophie, con quella faccia sembri un mostro!» esclamava.
Oppure era ancora più esplicita: «Per favore, non ringhiare come una mannara!»
E ogni volta avvertivo la rabbia fare capolino e grattarmi lo stomaco con unghioni affilati. Se avesse continuato a provocarmi avrei potuto reagire molto male.
«Smettila» le intimai per l'ennesima volta mentre cercavo di finire di mangiare. Eravamo immerse nel chiacchiericcio di Sélène e Louise, per fortuna del tutto indifferenti ai nostri piccoli battibecchi tra sorelle.
Margot puntò le mani sul tavolo, poi si sporse un po' in avanti scoprendo leggermente i denti. «Altrimenti che fai? Mi salti alla gola per squarciarmi la giugulare?»
La guardai un istante sentendo una grande calma dentro di me. Mi parve che intorno al mio corpo d'un tratto tutto tacesse, che il bianco accecante della neve che fuori si stava sciogliendo invadesse la sala come una slavina.
Versipellis.
Con gli occhi che le brillavano, mia madre mi aveva detto che era tale parola a definire la mia natura, diversa da quella di ogni altro lupo.
Una parola latina che conoscevamo bene ma, pur essendo noi discendenti delle razze europee, usavamo poco. Anticamente era stata tra le prime usate nel vecchio continente per identificare gli uomini che si tramutavano in lupi. In seno alle diverse nazioni era stata poi sostituita da lupus hominarius, werewolf, loup-garou... ed era finita nel dimenticatoio, anche se non del tutto.
Con il passare del tempo, per definire i membri della nostra comunità avevamo scelto di usare semplicemente la parola "lupo". In questo modo speravamo di discostarci dalle credenze popolari che ci avevano trasformati, anche grazie agli scritti dei padri della Chiesa S. Agostino e S. Tommaso d'Aquino, in creature demoniache.
Quando era proprio necessario per evitare di generare confusione, utilizzavamo l'espressione lupus hominarius distinguendo i membri della nostra specie dai lupi naturali.
Ma la parola versipellis in qualche modo era sopravvissuta all'oblio dei secoli, finendo per designare ciò che suonava alle mie orecchie come la più spaventosa delle maledizioni: essere una muta-pelle, un'ingannatrice, non una mente umana in un corpo di lupo, ma l'anima di un lupo in un corpo di donna.
Una mannara, come mi aveva chiamato mia sorella. Una di quelle orrende creature ibride tra uomo e canide che si vedevano in certi film di cui spesso avevo riso con Sélène e Louise.
Di fronte alla disperazione che rischiava di travolgermi, mia madre, la dolce ma autorevole Céline Richard, aveva cercato di rassicurarmi. Mi aveva spiegato che i versipellis erano creature in grado di controllare il cambiamento di ogni singola parte del corpo, superando ogni altro essere in forza fisica e in intelligenza. Se la sorte era così generosa da farti nascere con un simile dono, be', allora bisognava custodirlo con cura, celarlo come una perla all'interno dell'ostrica.
«Fa' in modo che nessuno venga mai a sapere chi sei realmente» mi aveva sussurrato, accarezzandomi i capelli.
«Se i versipellis sono creature così piene di doti, perché dovrebbero nascondersi?» era stata la mia replica.
I suoi occhi mi avevano osservata con tenerezza, ma anche con uno scintillio freddo come quello del metallo. «L'ostrica che produce una perla è un'ostrica ferita, lo sapevi? Ciò che agli occhi dell'uomo appare come l'emblema della perfezione è in realtà il risultato del dolore. È la sofferenza a produrre la bellezza.»
Allo stesso modo, il legame tra la bellezza e il dolore che determinava la natura di quelli come me era qualcosa di sconosciuto ai più. E sarebbe dovuto restare tale. Lupi e umani non sarebbero mai riusciti ad andare oltre le apparenze e comprendere chi e cosa fosse davvero un versipellis.
«E tu, mamma? Tu invece perché lo comprendi?»
Quel suo discorso sul dolore e sulla bellezza, oltre a suonarmi terribilmente criptico, mi aveva fatto accapponare la pelle. L'unica cosa che avevo capito era che non avrei dovuto far sapere a nessuno ciò che mi stava succedendo. Celarsi era la parola d'ordine.
«Non preoccuparti, tesoro, riprenderemo presto il discorso» aveva concluso lei, ignorando la mia domanda e dandomi un buffetto sulla guancia. «Per il momento sforzati solo di esercitare un maggiore controllo su te stessa. Poi cercheremo di affrontare insieme questo nuovo cambiamento.»
Un nuovo cambiamento... Doveva capitare proprio a me che faticavo ancora ad accettare il vecchio! Certe notti ancora sognavo la prima volta in cui mi ero trasformata in lupo. Era un vero e proprio incubo.
Malgrado la serenità di mia madre – e quello che avrei potuto addirittura definire entusiasmo – mi ero sentita a pezzi. A cena non avevo avuto il coraggio di guardare mio padre mentre lui restava in silenzio, rispettando il mio. Quando ero andata a letto avevo pianto per ore fino ad addormentarmi, stremata. E la mattina dopo mi sentivo un'ospite in un corpo estraneo.
Era stata una fortuna che Marie fosse rimasta a casa per un raffreddore: non sarei riuscita a spiegarle perché stavo così male.
Mia sorella, che aveva sentito parola per parola il discorso di mia madre sui versipellis e sapeva bene quanto ne fossi rimasta turbata, avrebbe dovuto capire ciò che provavo, eppure continuava a provocarmi.
In quell'istante di calma accecante che provai mentre Margot ripeteva, come al rallentatore: «Mi... salti... alla gola... per... squarciarmi... la... giugulare» scorsi di nuovo in un angolo della mente mio fratello Jonathan. Mi rivolgeva uno sguardo privo di ogni speranza, prima di girarsi e uscire per sempre dalla porta di casa e dal branco.
Non diventare ciò che loro vogliono che tu sia.
La sua voce mi rimbombò nella testa, e io volevo solo metterla a tacere. In qualsiasi modo possibile.
Così scattai.
Fui troppo rapida perché chiunque potesse intervenire. Saltai sul tavolo con movimenti fluidi e sinuosi che non erano dell'essere umano né del lupo. E un secondo dopo mia sorella era a terra con tutta la sedia, mentre io le stavo sopra ringhiando con voce non mia: «Ti. Ho. Detto. Di. Smetterla.»
Vidi la paura riflettersi nei suoi occhi, insieme all'immagine del mio viso che, per fortuna, non sembrava essere cambiato. Eppure, esattamente come diceva la parola "versipellis", avvertivo sotto la pelle il mio più oscuro lato ferino che chiedeva con insistenza di venire alla luce. Come se mi fossi potuta liberare della mia parte umana con la stessa facilità con cui mi toglievo i vestiti prima di trasformarmi. Eppure, la natura animale che premeva per emergere non era nemmeno quella del lupo, no... era qualcosa di diverso.
Ripresi il controllo di me stessa quando mi resi conto che Margot aveva cominciato a tremare. Avrebbe potuto reagire alla mia aggressione, ma ne era rimasta troppo scioccata anche solo per provarci.
E il suo tremito si era trasmesso a me.
Mi scansai subito, tendendole una mano. «Scusa, mi dispiace» dissi, con voce spezzata. «Non so cosa mi sia preso...»
Mentre aiutavo Margot a rimettersi in piedi, le mie amiche sistemarono la sedia al suo posto sotto gli sguardi sgomenti degli altri studenti; in genere gli umani non interferivano con le questioni dei lupi: si limitavano a guardare.
Intorno a noi si era fatto un silenzio asfissiante in cui a un certo punto spiccò la voce di Cédric. «Va tutto bene qui?»
Quando mi girai a guardarlo mi parve più imponente del solito. E minaccioso.
Mi infastidì il fatto che si fosse avvicinato. Provai la prepotente sensazione che stesse in modo deliberato violando il mio spazio.
«C'è qualche problema, agente?» replicai stizzita, usando l'arma del sarcasmo. Il suo modo di presentarsi e le parole che ci aveva rivolto mi erano parsi proprio come quelli del poliziotto di un film d'azione. Uno di quei personaggi secondari che fiutano il pericolo ma fanno finta di non vederlo, finendo poi uccisi dal serial killer di turno.
Ma naturalmente la sua intelligenza non era abbastanza acuta per cogliere la citazione e mi fissò come se fossi impazzita di colpo.
«Che vuoi?» tradussi allora subito dopo, a brutto muso.
«Hai appena buttato a terra tua sorella o sbaglio?» mi domandò il ragazzo, incrociando le braccia sul petto. Le grandi vetrate della sala-mensa, alle sue spalle, riversavano una luce abbagliante su di lui, ombreggiandogli però il viso. Il suo sguardo mi parve più cupo del solito.
Sentii il respiro accelerare all'improvviso. Mentre cominciavo a sudare mi girai per cercare il viso di Margot che, mano nella mano di Louise, mi guardava ancora con gli occhi sbarrati.
«Non è successo niente» farfugliò lei per porre fine a tutto. «Stavamo scherzando tra noi e la cosa ci è sfuggita di mano.»
Ma la voce le tremava come se stesse per piangere e questo tolse ogni credibilità alle sue parole.
Ci fu qualche secondo di silenzio, poi Cédric si strinse nelle spalle. «In effetti non me ne frega un granché delle vostre discussioni tra sorelle. Però cercate di non attirare troppo l'attenzione. Su noi lupi, intendo.»
«Certo, tranquillo» intervenne Sélène, posandomi una mano sulla spalla mentre, fissando un punto nel vuoto, avevo quasi cominciato ad ansimare come per la mancanza d'aria.
Alzando di nuovo lo sguardo sul ragazzo mi sentii febbricitante. Non appena incrociai i suoi occhi mi parve di vederlo leggermente impallidire. Le sue narici fremettero e il labbro superiore si arricciò un poco scoprendo i denti. «Sarà meglio che te ne vada a casa, Sophie» ringhiò in tono di comando. «È evidente che non stai bene.»
«Vacci tu, a casa» ribattei, raddrizzando le spalle. «È evidente che non sai proprio farti i fatti tuoi.»
Mi stavo sforzando di non perdere di nuovo il controllo, ma lui era troppo vicino e nel suo corpo vibrava un'insolita tensione alla quale temetti di poter reagire.
Sentivo che, dopo che c'eravamo praticamente ignorati per anni, qualcosa tra noi era cambiato in quella baita sul monte Saint Jacques. Anche se non sapevo cosa.
Il ragazzo strinse i pugni così forte che le braccia gli tremarono. «Sophie» soffiò con voce quasi metallica, come se stesse lottando contro l'impulso di attaccarmi.
Nell'aria c'era tanta di quell'elettricità che pensai che saremmo potuti andare a fuoco entrambi. E non era un pensiero piacevole.
Margot si scostò da Louise per stringersi al mio braccio. «Per favore, non rispondergli» sussurrò, preoccupata.
«E cosa potrebbe succedermi?» chiesi, cercando di scacciare il senso di pericolo che mi faceva pulsare lo stomaco. «Non esistono gradi più bassi di quello degli immaturi.»
Cédric strinse gli occhi, come se intendesse usare su di me la vista a raggi X di Superman. «Essere retrocessi non è l'unica punizione per chi manca di rispetto a un lupo di rango superiore.»
Lo aveva detto in un modo che mi sembrò sottintendere un invito a replicare. Lo percepii come una vera e propria provocazione alla quale, proprio come aveva detto Margot, non avrei dovuto rispondere. Ma il formicolio che aveva iniziato a scivolarmi sotto la pelle divenne quasi un fremito, facendomi drizzare la lieve peluria che avevo sulle braccia e sulla nuca.
Mentre la mano di Sélène sulla mia spalla stringeva di più, quasi a volermi dissuadere dall'ingaggiare una vera e propria prova di forza con il lieutenant, piegai le labbra in un sorrisino obliquo. Il senso di pericolo avvertito si era trasformato in una sorta di eccitazione che faticavo a contenere. «Spiegami che cos'è che rischio.»
Il volto di Cédric parve trasfigurarsi. Qualcosa della furia che lo aveva animato sul monte Saint Jacques riemerse negli occhi iniettati di sangue, nelle gengive scoperte e nei muscoli che sul petto e sulle braccia avevano teso la stoffa della sua maglia aderente. Tanto che pensai che si sarebbe strappata come in certe scene dei miei manga d'azione.
Con uno scatto portò una mano dietro la mia testa, affondandomela tra i capelli per impedirmi di muovermi, poi spalancò la bocca sul mio collo, stringendolo un secondo dopo tra i denti. Benché fossero denti umani, non zanne affilate, avrebbero potuto comunque lasciarmi segni dolorosi.
Invece premettero sulla mia pelle senza scalfirla. Mentre restavo immobile con gli occhi spalancati, mi resi conto che anche lui si era paralizzato.
Se ci avessero detto che avevamo messo i piedi su una mina non saremmo stati più fermi.
L'altra mano del ragazzo mi premette sulla schiena. Mi parve enorme, tanto da potermi avvolgere.
Schiacciata contro il suo torace, respirai il suo odore. Da quando era così dolce?
Le mie dita esitarono, poi gli toccarono le braccia, scivolando sulla sua pelle. I muscoli in tensione sembrarono irrigidirsi.
Quando capii cosa stavo facendo sobbalzai, facendo ricadere le braccia lungo i fianchi.
«C-Cédric?» provai a chiamarlo in un sussurro, girando gli occhi all'impazzata senza guardare nulla in particolare.
Lui si scostò un poco, chiudendo lentamente le labbra, mentre col fiato rendeva fresche le tracce di saliva che mi aveva lasciato sulla pelle. Tuttavia non si raddrizzò, tenendo la bocca ancora a contatto con il mio collo. Erano davvero morbide come apparivano.
«Dannazione, Sophie...» imprecò sottovoce. «Io ti devo parlare di quello che è successo nella baita o rischio di diventare matto.»
Non immaginavo che glielo avrei sentito dire. Ero convinta che avesse agito per un impulso dovuto alla gelosia di maschio nei confronti delle femmine del branco, ma forse c'era di più.
«Quando? Dove?» mormorai con voce rauca, sentendo un rivolo di sudore scorrermi sulla schiena.
«Dopo gli allenamenti di hockey, stasera. All'arena del ghiaccio.» Le sue dita tra i miei capelli affondarono maggiormente prima che togliesse la mano e me la mettesse su un fianco, insieme all'altra. «Scusa.»
Mi toccai il collo per poi guardare confusa le sue dita, agganciate ai passanti dei miei jeans. «Per...?»
C'erano un mucchio di motivi per cui avrebbe potuto chiedermi scusa: scusa per essersi rivolto a me in modo tanto autoritario. Scusa per avermi provocato. Scusa per avermi stretto il collo tra i denti come se non fossimo nella nostra forma umana. Scusa per quel contatto troppo ravvicinato sotto gli occhi di tutti...
«Per quello che sto per dire.»
Lui si staccò indietreggiando di un passo, poi scosse la testa e si passò il polso sulla bocca. «Da quando siamo stati in quella baita non faccio che pensare a noi due, uno sopra all'altra» esclamò con voce abbastanza alta da poter essere sentita in fondo alla sala, dal suo gruppetto di amici. «Anche quando mi fai uscire fuori di testa, non riesco a capire se è perché non ti sopporto o se è perché vorrei entrare nell'Alcova con te!»
Parecchi studenti sghignazzarono e l'atmosfera tornò a essere rilassata come prima che mandassi mia sorella a gambe all'aria.
Solo al mio tavolo non rideva nessuno. Margot era ancora chiaramente sconvolta, mentre le mie amiche si scambiavano sguardi significativi.
«Che cos'è capitato a Cédric, tutto d'un tratto?» mi sussurrò Sélène, rimettendosi a sedere.
Io la imitai, la grinta che avevo sfoderato fino a pochi secondi fa diventata già un lontano ricordo.
Lanciando un'occhiata colpevole a mia sorella, mi stupii che la mia amica non avesse capito che la vera domanda era un'altra: che cosa stava capitando a me?
Quel pomeriggio, trascorrere il mio tempo con i ragazzini del Rendez-vous Nero fu più insopportabile del solito.
Mia sorella era tornata a casa prima dicendo di non sentirsi bene e Clarisse non aveva fatto obiezioni. In effetti Margot era ancora tanto scossa per quello che era successo a scuola che le si era alzata addirittura la temperatura corporea. E io mi sentivo in colpa come non mi era mai successo.
Mia madre aveva descritto i versipellis con parole decisamente lusinghiere, aveva solo accennato al rischio di perdere il controllo e di cedere a comportamenti aggressivi. Mi venne il dubbio che non immaginasse neppure che cosa stavo sperimentando sulla mia pelle.
Seduta a un tavolino sbilenco, in una delle stanze degli immaturi, avevo il libro di biologia davanti, ma non riuscivo a concentrarmi sul ripasso della lezione. Pensavo solo a Margot, allo screzio avuto con Cédric... e alle sue labbra sulla mia pelle. Non avevo mai avuto con nessuno quel tipo di contatto.
Avevo difficoltà a indovinare cosa volesse dirmi il lieutenant. O meglio, l'impressione che avevo avuto nella baita era che fosse stato vittima di un esagerato impeto di possessività nei confronti di una femmina del branco. Forse la presenza di un lupo straniero aveva scatenato in lui quell'istinto... Ma allora perché prendersela con me, oltre che con Jean? Avrebbe dovuto proteggermi, non attaccarmi.
La storia dell'odore che lo aveva mandato in confusione doveva per forza nascondere altro.
Mi misi le mani tra i capelli soffocando un grido di esasperazione e finsi di non accorgermi dello sguardo perplesso di Marc.
Trascorsi il tempo successivo cercando di ignorare le urla dei bambini più piccoli e guardando l'orologio: l'allenamento di Cédric terminava alle sei, poi il ragazzo sarebbe passato dagli spogliatoi e dalle docce.
Fortuna volle che quel pomeriggio Clarisse mi lasciasse andare via un po' prima, pensando che fossi in pena per mia sorella. O forse era stata meno rigida perché avevo anch'io la stessa aria febbricitante di Margot e non voleva tenermi a contatto con i ragazzini del gruppo.
Da parte mia, ero talmente agitata all'idea di ascoltare le spiegazioni di Cédric che decisi di recarmi subito al piccolo stadio di ghiaccio indoor annesso all'edificio scolastico, anche se l'allenamento non era ancora finito.
Trovai i membri della squadra della scuola impegnati in attività diverse: alcuni erano sulla pista a esercitarsi sui tiri in porta o a zigzagare sui pattini tra i puck disposti come ostacoli di un percorso. Altri facevano esercizi sulle gradinate.
Non andavo quasi mai a guardare gli allenamenti, ma a volte accompagnavo le mie amiche e mia sorella ad assistere alle partite. In fondo non potevi davvero definirti canadese se non dimostravi di essere amante dello sport nazionale. Anche a Forteresse, come in molte città del Paese, l'hockey su ghiaccio si respirava in ogni dove, benché si praticasse solo per alcuni mesi all'anno. I negozi che vendevano l'equipaggiamento per giocare non si contavano, gli slogan e i cartelloni pubblicitari che sfruttavano l'immagine dei giocatori – non necessariamente famosissimi – erano quasi a ogni angolo di strada. Per non parlare delle piste di pattinaggio all'aperto che proliferavano durante l'inverno, la maggior parte delle quali gratuite.
La Forteresse Junior Hockey Club era la squadra giovanile più prestigiosa della città, l'unica che partecipasse alla Québec Major Junior Hockey League. Era così popolare che i suoi colori, il rosso e il blu, erano presenti su una cheese-cake a base di frutti di bosco, lanciata anni prima da una rinomata pasticceria.
Quella squadra era stata il sogno di mio fratello, ma non era mai riuscito a farne parte. Come altri della mia razza, era stato considerato troppo forte e troppo istintivo... insomma, troppo poco gestibile per poter aspirare a qualcosa di più dell'attività sportiva scolastica.
Mentre sedevo su uno dei sedili di plastica blu delle gradinate, cercai con lo sguardo Cédric al di là delle protezioni di plexiglass che sormontavano la balaustra, separando gli spettatori dai giocatori.
Ma lui non c'era. Stavo cominciando a pensare che mi avesse fatto l'ennesimo brutto scherzo quando incrociai il suo sguardo dalla parte opposta della gradinata. Con alcuni suoi compagni stava eseguendo dei salti a piedi uniti sulle scale. Mi guardò per un istante di troppo e inciampò rovinosamente, finendo lungo disteso in avanti mentre quelli dietro di lui rischiavano di fare la stessa fine.
Sotto i miei occhi stupiti si rialzò rapido massaggiandosi un gomito, poi si avviò a grandi passi verso di me, lungo la fila di sedili blu.
«Si può sapere che ci fai qui?!» sibilò, avvampando.
Dopo un attimo di smarrimento sbattei gli occhi per riprendermi. «Non mi hai detto tu di venire, stasera?»
«Quale parte di "dopo gli allenamenti" non ti è chiara? Dopo vuol dire dopo, Sophie!»
«Sì, però...»
«Tu mi deconcentri.» Il suo tono d'improvviso si addolcì un poco. «Per favore...»
Mi toccai a disagio il collare di cuoio che César mi aveva costretto ancora a indossare, malgrado la retrocessione. Mi alzai dal sedile annuendo con la testa e, senza dire una parola, gli passai accanto per raggiungere di nuovo l'uscita.
Una volta all'esterno, mi fermai di fronte alla porta dell'arena sbuffando. Strinsi le mani guantate l'una nell'altra osservando la gente passarmi davanti. Erano quasi tutti studenti, per la verità: tornavano a casa dopo le attività pomeridiane e chiacchieravano ridendo tra loro.
Il mio sguardo si soffermò su una coppietta che procedeva con un passo cadenzato. Quando la ragazza, che conoscevo perché era in classe con mia sorella, mi salutò con un po' di incertezza, mi domandai se mi avesse visto mentre buttavo a terra Margot, in sala-mensa. Mentre ricambiavo il suo saluto, lei continuò a camminare fianco a fianco con il suo ragazzo.
I due ridevano e scherzavano; sembravano privi di preoccupazioni e di sicuro senza tutti gli obblighi ai quali noi lupi dovevamo sottostare. Li invidiavo.
«Anche se ti allontanassi dal branco, per esempio andando a studiare a Montréal,» mi aveva chiesto una volta Marie, un giorno in cui c'eravamo reciprocamente sfogate dei generali divieti imposti dai genitori, «potrai davvero vivere come una semplice universitaria? Se dovessi innamorarti di un essere umano potresti stare con lui, anche senza l'approvazione del capobranco e senza il rito dell'Alcova?»
Lì per lì non avevo saputo che dire e alla fine avevo catalizzato la sua attenzione su altro, sviando il discorso.
Per rispondere alla domanda di Marie... no, non credevo che il branco mi avrebbe mai concesso di stare con un essere umano. Non in modo ufficiale, almeno.
Se mi avessero assegnato un compagno sarei stata relativamente libera fino all'ingresso nell'Alcova, ma poi avrei dovuto lasciare l'eventuale fidanzato umano e dedicarmi al mio "vero" partner. Un lupo del branco scelto dagli adulti, ovvio.
Nella comunità di Forteresse c'erano stati casi in cui qualcuno si era rifiutato di entrare nell'Alcova con il partner assegnato, ma erano stati davvero pochissimi: forse due o tre nell'arco dell'ultimo ventennio.
«Allora ti è concesso scegliere» aveva commentato Marie, che era tornata ancora una volta sull'argomento strappandomi quelle informazioni.
Le avevo mostrato un sorrisetto nervoso.
Andare contro il branco significava essere tagliati fuori dal branco. Significava essere ostracizzati, ignorati, umiliati, finché poi non si capitolava e si tornava sulle proprie decisioni letteralmente con la coda tra le gambe.
Piuttosto che piegarmi a un simile destino, mi sarei costruita una vita altrove. A Montréal o in qualsiasi altro posto in cui poter essere Sophie Richard e non un lupo tra tanti, pronto a sacrificare la propria felicità per il benessere collettivo.
Sebbene in modo egoistico, se fossi stata costretta a scegliere avrei scelto me.
Quello che al momento non sono ancora riuscita a fare, pensai, facendo scendere la zip della giacca per passarmi due dita tra la gola e il collare di cuoio. Anche se era abbastanza largo, mi dava tanto fastidio che mi pareva di soffocare.
Mossi qualche passo concitato verso il cancello sentendo sotto le dita la dura consistenza delle pietre sciamaniche, poi rallentai. Sulla strada deserta, oltre il marciapiede, qualcuno si muoveva trascinando i piedi. Era lo stesso uomo che avevo visto il giorno prima e sembrava ubriaco o malato, comunque inconsapevole di trovarsi in posizione utile per essere investito dalla prima auto che fosse sopraggiunta.
«Ehi, mi scusi!» gli gridai, cominciando a correre verso di lui. «Mi scusi, signore!»
Quando si voltò, restai per un attimo senza respirare: i suoi occhi erano bianchi, così come le labbra. No, stavolta non potevo sbagliarmi.
Un'... Un'Ombra?!
Buongiorno a tutti!
Spero che questo capitolo di "Wolf Lineage – Stirpe di Lupo" vi sia piaciuto e che non siate troppo frastornati dall'incalzante ritmo di aggiornamento ^.^'.
Adesso è più chiaro che cosa sia Sophie e cosa intendano i lupi di Forteresse per "versipellis"? Fra qualche capitolo ci saranno informazioni in più, ma mi sembra che qualche spiegazione oggi l'abbiate avuta, no? 😉
E presto ci sarà un incontro chiarificatore tra Cédric e Sophie, che in mensa sono quasi giunti allo scontro fisico, finendo per trovarsi vicini vicini... XD
Lo so che siete curiosi di saperne di più!
Allora vi aspetto per il prossimo aggiornamento <3
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