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Capitolo 1 - Niente di eccitante

Non c'era niente di eccitante né di affascinante nel cambiamento.

Quando sopraggiungeva la necessità di mutare, era tutto il corpo che lo chiedeva: lo urlavano ogni singola fibra, ogni muscolo o tendine, ogni centimetro quadrato di pelle. Ed era strano percepire con quanta bramosia e avidità l'istinto conducesse al dolore.

«Alla sublimazione del dolore» mi avrebbe corretto mia madre con enfasi, se solo fosse stata presente.

Ma quel giorno, in quel momento, non c'era nessuno con me. E io lottavo ostinatamente contro l'impulso di trasformarmi, opponendomi al dolore che tentava di prendere il sopravvento.

Una fitta nevicata mi aveva sorpresa mentre ero impegnata nel mio turno settimanale di vigilanza. Controllavo quella parte di bosco che copriva le pendici del monte Saint Jacques, a diversi chilometri da Forteresse, insieme a un paio di altri membri del mio branco.

Malgrado la loro insistenza, non avevo mutato la mia forma. In genere il ruolo che ricoprivo non lo richiedeva: mi limitavo a fare da spalla ai compagni che battevano il territorio per sincerarmi che nessun altro branco sconfinasse. A volte il mio compito consisteva solo nel tenere lontani eventuali umani – turisti, amanti del trekking o cacciatori. Più raramente, nel caso in cui ci fossimo imbattuti nelle Ombre, spiriti della foresta che a volte si spingevano inquieti fin quasi a valle, ero incaricata di disperderle. Un lavoro seccante ma, come diceva mio padre quando me ne lamentavo, qualcuno doveva pur farlo!

Infilai la mano sotto la sciarpa, dove mi ballava il collare di cuoio su cui erano incastonate le pietre sciamaniche che servivano allo scopo. Detestavo quel collare: mi faceva sentire un cane e puzzava. In più non credevo affatto al potere protettivo di quelle pietruzze che sembravano biglie colorate, proprio identiche a quelle che i bambini vendevano nei mercatini di giocattoli usati, ai lati delle strade.

Ma una volta che si riceveva il compito – anzi, no, il grandissimo onore, come diceva mia madre – di indossare il collare, bisognava portarlo quasi giorno e notte. A quanto pareva, serviva a colui che lo portava ad abituarsi a esso e alle sensazioni che trasmetteva in presenza degli spiriti. Le Ombre non potevano essere viste, tranne quando si manifestavano durante il breve lasso di tempo di una possessione, tuttavia potevano essere percepite anche da lontano e le pietre sciamaniche, si diceva, aiutavano in questo.

Sembrerò un cane, avevo pianto dentro di me quando Mastro Joseph, il nostro consulente spirituale, me lo aveva consegnato.

E le battute ironiche su cani e guinzagli si sprecavano nella comunità di lupi di Forteresse.

Per fortuna, però, non ero l'unica a dover subire quel triste destino.

Come altri ragazzi della mia età, o più giovani, nella gerarchia del branco dei Neri ero quasi l'ultima ruota del carro. Una semplice gregaria che supportava i membri di grado intermedio, come Cédric Landry e Florent Mercier. I miei due compagni di squadra, giovanissimi entrambi ma già lieutenant, aspiravano a bruciare le tappe per far parte del gruppo dei dominanti, controllato con polso fermo dal nostro capobranco, César Delacroix.

Era infatti in quel gruppo che il leader indiscusso dei Neri avrebbe scelto il suo successore, anche se, a quanto pareva, c'era già un favorito: un ragazzo, diventato dominante molto giovane, di nome Luc Donovan.

Sbuffai pensando alle ambizioni dei miei compagni. A me non importava nulla di salire nella scala gerarchica. Stavo bene anche come gregaria.

Più in basso di me c'erano solo i piccoli, o immaturi: i bambini e i ragazzi non ancora adolescenti.

Ero uscita da quel gruppo quando, un paio di anni prima – piuttosto tardi, devo riconoscerlo – ero diventata fisiologicamente una donna. O, per dirla con le parole di mia madre, ero stata baciata dalla Luna.

Lei rendeva sempre ogni cosa poetica fino alla nausea, soprattutto quando non lo era affatto.

Era un lato del suo carattere che non mi faceva impazzire, ma in quel giorno tempestoso avrei tanto voluto che mi tirasse su il morale con il suo ottimismo. Avrei desiderato che mi facesse vedere, come solo lei sapeva fare, il bicchiere mezzo pieno anche quando era del tutto vuoto.

Detestavo le tormente di neve. Le temevo anche più delle tempeste di pioggia e vento che negli anni precedenti avevano flagellato Forteresse, facendo alzare spaventosamente il livello del San Lorenzo.

In più di un'occasione l'acqua aveva invaso le strade, costringendo i vigili del fuoco e le forze di polizia a intervenire per mettere in salvo gli automobilisti bloccati nelle proprie auto. O gli anziani che non erano stati in grado di raggiungere i piani più alti e sicuri delle loro abitazioni.

«Accidenti...» mormorai quando, mentre cercavo di procedere con i piedi nella neve senza affondare, una raffica farinosa mi finì negli occhi. Avevo già le ciglia congelate.

Mi domandai dove fossero spariti i miei compagni e se stessero bene.

Ma sì, mi dissi subito dopo, loro dovevano stare bene per forza perché erano già cambiati. Io, invece, nella mia debole forma umana, rischiavo grosso.

Ma come diavolo mi ero ritrovata in quella situazione? Mia madre mi aveva sempre raccomandato di non restare mai isolata durante un turno di vigilanza. Soprattutto se non ero mutata.

«Sta' sempre vicino a Florent» si era raccomandata anche quella mattina, quando mi aveva svegliata all'alba e io mi ero nascosta con la testa sotto le coperte, sperando che tanto bastasse a rendermi invisibile.

Aveva una smaccata simpatia per Florent Mercier, mentre sembrava tollerare a stento Cédric Landry. Non me lo aveva mai detto, ma quando ero stata assegnata alla squadra, aveva protestato con forza per la scelta di abbinarmi al giovane Landry. Me lo aveva rivelato mia sorella dopo aver origliato una conversazione tra i miei genitori.

Non capivo la posizione di mia madre, e faticavo a dirle che mi sentivo a disagio con entrambi i miei compagni. Era così da quando avevamo cominciato a fare gli stessi turni di vigilanza, più o meno dieci mesi prima.

Una volta avevo provato a parlargliene, ma lei sembrava avesse preso piuttosto alla leggera la mancanza di feeling tra me e i lieutenant.

«Non dovrai sopportarli per sempre» mi aveva rassicurata con un ampio sorriso. «Per tua fortuna i gruppi per la vigilanza cambiano ogni anno. Altri due mesi e potrai avere altri compagni. Anche se, ti dirò, per Florent un po' mi dispiace.»

Durante il viaggio sul fuoristrada io e i restanti membri della mia squadra ci parlavamo di rado; una volta arrivati sul posto i ragazzi si trasformavano subito, ma non prima di aver tentato in ogni modo di farmi arrossire davanti alla loro nudità.

Gli adulti del branco ci abituavano fin da bambini a convivere in modo sereno con il nostro corpo: per passare dalla forma umana a quella animale dovevamo necessariamente essere nudi ed era più che normale vederci l'un l'altro senza i vestiti addosso.

Cédric e Florent non erano cattivi ragazzi, avevano però capito presto che non ero ancora riuscita a superare del tutto il mio imbarazzo nel mostrarmi nuda, così non perdevano occasione per divertirsi a spese della mia timidezza.

Di solito era Florent a cominciare: mi si avvicinava mettendo in mostra la muscolatura ben modellata e mi proponeva di entrare nell'Alcova con lui. Poi Cédric gli faceva eco spostandolo con una spallata e dichiarando che le cose a tre non gli piacevano.

«Nell'Alcova con uno di voi due?» replicavo con una smorfia. L'Alcova era il luogo in cui venivano consacrate le nuove unioni tra partner. Entrarvi con qualcuno equivaleva a consumare quell'unione, che poi sarebbe durata per tutta la vita. «Ma neanche morta!»

Per i miei compagni quella risposta ormai era diventata una sorta di squillo di tromba: aspettavano di sentirla per trasformarsi, mentre io restavo con tutti i vestiti addosso a sgambettargli dietro.

E meno mi trasformavo, meno possibilità avevo di buttarmi alle spalle il disagio che provavo a farlo davanti agli altri membri del branco.

In ogni caso, adesso stavo pagando la quasi completa assenza di empatia tra me e i miei compagni: ero rimasta troppo indietro rispetto a loro e mi ero ritrovata sola in mezzo alla tormenta. Nessuno dei due sembrava essersene accorto.

Una volta, quando ero al primo anno di scuola superiore, la mia professoressa di letteratura – un'umana – mi aveva chiamato in disparte per chiedermi se i membri di un branco comunicassero davvero tramite la telepatia.

Mi ero stretta nelle spalle, scuotendo un po' la testa. Non avrei voluto deluderla, ma la storia della telepatia era un'invenzione dell'uomo. In forma animale comunicavamo proprio allo stesso modo dei lupi naturali: ululando, ringhiando, abbassando le orecchie o arruffando il pelo... cose così.

Però, cavoli, come vorrei sentire le loro voci!

Al momento, gli unici suoni che udivo erano il grido del vento e i miei respiri affannosi. La neve aveva coperto di colpo ogni traccia olfattiva, impedendomi di avvertire l'odore dei miei compagni. Sforzandomi, avrei potuto tentare di scovare qualche debole scia odorosa, ma non in quella forma. O, almeno, non con quelle condizioni meteorologiche avverse. Malgrado i sensi più sviluppati, in mezzo alla tormenta come essere umano avrei fallito.

Strinsi i pugni, rendendomi conto che non sarei stata in grado di resistere ancora a lungo.

Dovevo mutare, anche se non volevo.

Alzai gli occhi per guardare il cielo, diventato bianco come la coltre che si estendeva ai miei piedi. Non era affatto rassicurante.

Continuai a camminare, sovrastata dagli altissimi larici i cui rami cominciavano a piegarsi sotto il peso della neve, mentre il freddo penetrava l'imbottitura della mia giacca da montagna e mi serpeggiava lungo la pelle tiepida.

Anche per chi, come quelli della mia specie, aveva una temperatura corporea superiore alla norma, affrontare il gelo della tormenta troppo a lungo poteva essere letale.

Mi tirai su lo sciarpone di lana che avevo stretto intorno a collo e bocca, cercando di coprire anche il naso, ma subito dopo mi dissi che sarebbe stato inutile.

Arrancai ancora per qualche metro, lottando contro le potenti raffiche di vento che tentavano di respingermi, poi raggiunsi il tronco di un albero e mi appoggiai alla corteccia rugosa per riprendere fiato. Sotto i guanti di velluto di lana riuscivo a sentire le irregolarità del legno rossiccio. In primavera e in estate mi piaceva inspirare l'odore della resina dei larici e toccare la consistenza della manna che trasudavano le foglie.

I larici del monte Saint Jacques erano, diceva mia nonna, diversi da tutti gli altri. Solitamente crescevano a quote elevate, ma, benché il rilievo fosse di altezza modesta, disponeva di un suolo umido e ben drenato, ideale per alberi di quel genere.

Premetti la fronte contro il tronco, accarezzandolo come se volessi consolarlo, ma era in realtà a me stessa che volevo dare conforto.

«Dai, Sophie, forza!» mi dissi ad alta voce, percependo il calore del mio fiato che impregnava lo sciarpone e si disperdeva poi nel vento gelido.

Ormai cominciavo a sentire le dita delle mani e dei piedi intorpidite e il cuore che batteva sempre più lentamente.

Mi sfilai i guanti per ficcarli alla meno peggio nelle tasche della giacca, poi, con una certa fatica, abbassai la zip e lottai con il torpore che permeava ormai tutto il mio corpo. Mi feci cadere l'indumento dalle spalle, restando con il maglione di lana che mia madre mi aveva regalato a Natale dell'anno prima.

Era identico a quello che Mark Darcy indossa durante il suo primo incontro con Bridget Jones, ma, a differenza dell'eroina dell'omonimo Diario, io lo adoravo. Avevo sempre amato le renne e gli alberelli di Natale stilizzati sulle maglie, sul pigiama, persino sulle pantofole.

«Sei terribilmente nerd, lo sai, Sophie?» mi prendevano in giro le mie amiche, e io di solito mi limitavo a sorridere senza replicare.

Muoviti, Sophie, sbrigati! Incitai di nuovo me stessa, sfilandomi il maglione e facendolo cadere accanto alla giacca. Con i pantaloni fui più determinata: maledicendo la neve fresca sedetti a terra con un tonfo; dopo essermi liberata degli stivali da sci, li tolsi come se avessi voluto strapparli.

Cédric Landry mi prendeva sempre in giro per come mi imbacuccavo in vista del turno settimanale di vigilanza. Lui indossava indumenti pratici e troppo leggeri per la stagione. Mentre li toglieva, prima di ogni cambiamento, mi ricordava che, se non fossi stata così restia a mutare, non avrei avuto bisogno di indossare capi tanto imbottiti e pesanti da farmi camminare sbilenca come un'oca sulle zampe palmate.

Sì. Diceva esattamente come un'oca sulle zampe palmate.

Non capivo perché, ogni volta che mi parlava, doveva rivolgermi certe stupide battute.

Mezza nuda nella tempesta, cercai di nuovo con gli occhi il cielo attraverso i rami dei larici, invocando dentro di me la forza per cambiare. Prima che il dolore dilagasse, provai a slacciare i gancetti del reggiseno ma, non riuscendoci, tirai forte. Lacerai la stoffa mentre un ringhio basso e sommesso si sprigionava dalla mia gola.

Quando mi guardai le dita, scoprii che le unghie erano già diventate lunghe e forti; sul palmo delle mani stava emergendo il morbido cuscinetto centrale della zampa di un lupo.

Trattenendo un urlo mi tolsi di dosso gli slip, piegandomi subito dopo su me stessa. Chinai il viso per prendere in bocca una generosa quantità di neve e impedirmi così di gridare. La temperatura del mio corpo era ormai tanto alta che mi ritrovai ben presto nelle guance solo acqua tiepida, che sputai con un gemito di disgusto.

Avvertii la mia struttura ossea modificarsi velocemente, i muscoli allungarsi e contrarsi per adattarsi al mutamento mentre pregavo che quel supplizio finisse al più presto. I canini si allungarono; sul collo, diventato tanto muscoloso da tendere il collare di cuoio, il pelo si arruffò in una sorta di cresta. Alla fine, fui costretta a liberare l'acuto ululato che premeva per diffondersi nell'etere.

I miei compagni lo avrebbero senz'altro sentito e di certo mi avrebbero risposto.

La solidarietà tra lupi era decisamente superiore a quella che c'era tra noi quando eravamo in forma umana. Una bella fortuna.

Mentre mi scrollavo via la neve dalla pelliccia, pensai che avrei dovuto trovare un riparo e aspettare almeno che smettesse di nevicare con tutta quella forza. Il collare che portavo mi rendeva esposta alla brama degli spiriti; se, da una parte, dubitavo del potere di protezione delle pietre laterali, ero sicurissima che quella centrale svolgesse fin troppo bene il suo lavoro: attirare le Ombre come il suono del flauto del pifferaio magico. E quando ero in quella forma ero troppo concentrata sul mio corpo per potermi occupare di loro e disperderle. A causa di un assurdo paradosso, usare il collare era molto più semplice se si avevano sembianze umane. La ragione per cui un simile oggetto aveva la foggia di un accessorio per animali era solo una: potevamo continuare a indossarlo in entrambe le nostre forme. Era una soluzione pratica per chi, come noi, mutava aspetto di continuo durante i turni di vigilanza o le cacce sul monte Saint Jacques, dovevo riconoscerlo.

Eppure, avevo paura.

Se fossi stata meno inesperta sarei riuscita a tenere testa alle Ombre sia come umana che come lupo, quindi anche senza disperderle, ma mi trasformavo davvero troppo poco. Nel mio sembiante animale mi sentivo ancora a disagio, come quando ero mutata per la prima volta.

Mi avviai verso ovest, dove sapevo esserci una piccola baita in cui a volte gli esploratori del branco si riposavano durante le perlustrazioni. Dal punto in cui mi trovavo doveva distare circa un chilometro e mezzo: il mio corpo di lupo mi avrebbe consentito di raggiungerla in una manciata di minuti, malgrado la tormenta.

Iniziai a trotterellare con la neve che per il momento non mi arrivava ancora al garrese, domandandomi se avessi preso la decisione giusta. I miei compagni non si sarebbero mai fermati, neppure a causa di una tempesta di neve.

Il collare cominciò a prudere. Avrei voluto toglierlo, ma se lo avessi fatto avrei violato una delle regole del branco e, come effetto collaterale, mi avrebbe esposta alla pubblica derisione da parte dei membri più giovani dei Neri.

Sophie la Fifona, mi avrebbero soprannominata. E a nessuno sarebbe sfuggito il paragone con Leone, il cane fifone dell'omonima serie animata degli anni Novanta. Più che l'essere considerata una fifona mi avrebbe dato fastidio la similitudine con un cane, visto che già grazie al collare che indossavo dovevo sopportarne di simili.

Se solo i miei due compagni si fossero preoccupati di cercarmi e raggiungermi!

Come a voler esaudire la mia preghiera, un ululato si levò forte e potente.

Riconobbi subito la voce di Cédric. Oltre a essere il più vigoroso tra i giovani lieutenant, era quello dall'ululato più penetrante.

Gli fece eco Florent, di qualche anno più vecchio: la sua voce era leggermente più acuta ma meno potente.

Mi arrestai di colpo, levando il muso per fiutare l'aria. Sia Cédric che Florent avevano marcato il territorio già prima che ci separassimo. Il mio olfatto finissimo di lupo riuscì a percepire l'odore di Cédric, ma era molto lontano.

Ho fatto la scelta giusta, mi dissi per rincuorarmi. Accelerai il passo, poi cominciai a correre, sollevando spruzzi di fiocchi farinosi.

Quando giunsi in vista della baita mi fermai di colpo. Avevo colto un odore penetrante di selvatico, un afrore familiare anche se diverso da ogni altro: quello di un lupo che non faceva parte del mio branco.

Guardai in basso per cercare delle impronte in mezzo alla neve, ma ne era caduta troppa e, a meno che le tracce non fossero state freschissime, sarebbero state cancellate dalla tempesta, com'era evidentemente accaduto.

L'odore però no, quello restava.

Mi girai verso gli alberi che mi circondavano senza poter credere che un lupo straniero avesse marcato un territorio non suo.

Il mio branco lo avrebbe considerato un affronto.

Per un attimo fui tentata di tornare indietro. Strizzai gli occhi, poi contai nella mente fino a cinque riflettendo sul da farsi.

Cédric e Florent avrebbero di certo seguito le mie tracce. I membri di un branco soccorrevano sempre i più deboli in difficoltà.

Anche se sospettavo che già godessero al pensiero di fare rapporto agli anziani e di denunciare la mia innata capacità di mettermi nei guai.

Stupidi!

Se non mi distinguevo tra i giovani membri del mio branco non era certo perché fossi inferiore a loro! Solo che emergere come lupo non era il mio obiettivo. Non mi ero mai impegnata in quel senso.

Era tra gli esseri umani che volevo conquistarmi rispetto e stima, io. Avrei fatto carte false per lasciare il branco e non sottostare più alle sue leggi.

Anche se mi guardavano con sospetto, anche se giravano alla larga quando io provavo ad avvicinarmi, era la compagnia degli umani che volevo.

Mentre riflettevo sulla mia avversione per il rigore della comunità a cui appartenevo, mi accorsi che la neve si era accumulata rapida sul mio corpo e scrollai la testa. Stavo esitando troppo.

Al diavolo Cédric e Florent!

Mi feci coraggio, prendendo ad avanzare sottovento verso la baita. Forse se fossi stata fortunata mi sarei potuta avvicinare senza essere fiutata.

Il tetto della baita era già del tutto innevato. Costruita quasi interamente di legno, la piccola casa aveva una zoccolatura fatta di pietre naturali e un grazioso comignolo in muratura.

Procedetti con lentezza, e con cautela, spingendomi fin sotto una delle finestre. La persiana di legno di pino era vecchia e sconnessa; attraverso le lamelle riuscii a scorgere una sagoma rannicchiata a terra. Come avevo immaginato, si trattava di un lupo, un lupus hominarius come me, non uno naturale – come chiamavamo i nostri cugini animali.

Sembrava addormentato, con il muso poggiato sulle zampe anteriori. Era un maschio giovane decisamente grosso, anche se non quanto Cédric, che superava per stazza persino César Delacroix, il nostro capobranco. Ma, cosa più importante, aveva il pelo grigio.

Quella constatazione mi fece sobbalzare: un Grigio nel nostro territorio!

A quanto ne sapevo, i branchi di Grigi gestivano un'area di foresta a nord-ovest, confinante con la regione di Saguenay-Lac-Saint-Jean. Tra loro e noi Neri intercorrevano rapporti piuttosto buoni, ma uno sconfinamento avrebbe potuto causare guai seri. Soprattutto se lo avessero scoperto due attaccabrighe come Cédric e Florent.

Passai rapidamente in rassegna tutti gli studenti della mia scuola, a Forteresse, che appartenessero a quel branco. Non li conoscevo se non nella loro forma umana, ma non ce n'era nessuno che fosse tanto robusto.

Un nuovo acquisto?

Be', in ogni caso avrei dovuto dirgli di andarsene subito, prima che lo sorprendessero i miei due compagni. Ero certa che il ragazzo non rappresentasse un pericolo. A volte capitava di attraversare territori dominati da altri branchi: se lo si faceva in forma umana non era considerata una sfida.

Forse il giovane Grigio era stato colto alla sprovvista dalla tormenta e si era dovuto trasformare per poter affrontare il gelo, proprio com'era accaduto a me.

Provai a spingere la porta con il muso aiutandomi anche con le zampe, ma la trovai bloccata: ciò significava che il ragazzo era umano quando era arrivato. Doveva essersi trasformato solo in seguito, dopo essersi preoccupato di chiudere dall'interno. E questo avvalorava la mia ipotesi.

Mi avvicinai di nuovo alla finestra, poi cominciai a uggiolare e a grattare con le zampe.

Che stupida! Perché sto uggiolando? Penserà che abbia bisogno di aiuto!

E avrebbe avuto in parte ragione, ma il discorso era un altro: io ero la padrona di casa e lui l'ospite non invitato. Mi sarei dovuta mostrare sicura di me. Come quando, nell'ora di ginnastica, provavo a scalare il quadro svedese nonostante la mia antipatia per le altezze.

Finalmente lui alzò il muso e fissò la finestra: aveva profondi occhi azzurri. Dato che il colore degli occhi è l'unica cosa che non muta durante una trasformazione, mi chiesi se avessi già visto quell'azzurro intenso, ma dovetti darmi una risposta negativa.

Il lupo si rizzò sulle zampe, poi fece qualche passo avanti e si immobilizzò, mentre cercavo di infilare il muso tra le lamelle sconnesse della persiana. Dopo essermi graffiata il naso, guaii leccandomi subito dopo le narici per far passare il dolore.

A quel punto lui abbassò la testa e cominciò a trasformarsi per riassumere le sue fattezze umane. A differenza di quanto accadeva a me, non emise un solo gemito. Mutò in modo silenzioso e pulito, senza sbavature. Non avevo mai visto un cambiamento tanto esemplare.

I maschi giovani del mio branco, anche se sopportavano il dolore meglio di me, davano spettacolo digrignando i denti, gonfiando i muscoli e poi urlando come dei posseduti quando tornavano ad avere corde vocali umane.

Patetici.

Lo sconosciuto aprì la porta, aspettando con pazienza che mi decidessi a entrare. Una volta dentro, lo fissai mentre recuperava gli indumenti stesi su una rastrelliera che sosteneva diversi attrezzi da lavoro. Solo in quel momento distolsi lo sguardo, certa che avrebbe gradito un po' di riservatezza mentre si vestiva.

«E così mi hai trovato» disse lui all'improvviso, attirando di nuovo la mia attenzione. «Oppure la tua presenza qui è solo un caso?»

Arricciai un po' le labbra, saggiando l'aria in un gesto istintivo. Guardai bene il suo viso, stavolta: un viso affilato, incorniciato da morbidi capelli castani tendenti al biondo. Avremmo potuto essere coetanei.

Indicai la porta con la testa, emettendo un breve ringhio mentre alzavo un po' la coda.

«Vuoi che vada via? Con una tormenta in corso? Non è molto ospitale, da parte tua.»

Ma hai sconfinato! gli gridai nella mia testa.

Adesso che ci pensavo, se si era perso in forma umana, come aveva potuto lasciare una traccia olfattiva sugli alberi intorno alla baita?

Mi diedi dell'idiota. Per una cosa del genere Florent e Cédric avrebbero potuto prendermi in giro per il resto dei miei giorni... Notare delle tracce e poi dimenticarmene! Mi sfiorò il dubbio che i miei compagni avessero ragione a considerarmi un'incapace, ma subito dopo respinsi con forza quell'idea. Avrei solo dovuto impegnarmi un po' di più, tutto qui.

«Mi chiamo Jean Martel» si presentò il ragazzo, finendo di abbottonarsi i pantaloni. Mi mostrò un sorriso bonario che mi fece sentire confusa.

Sbattei le palpebre, poi indicai di nuovo la porta con il muso.

Jean ignorò il mio ordine e sedette sul pavimento di legno incrociando le gambe. «E tu sei...?»

Avrei voluto sospirare. Di impazienza e di irritazione.

Be', non avevo molte opzioni. Non potevo convincerlo a fare alcunché senza il dono della parola.

Seppure con riluttanza piegai la testa, toccando il pavimento con il muso mentre infilavo la coda tra le zampe posteriori. Il fuoco divampò dentro di me, mi sollevò la gabbia toracica, atrofizzò la mia coda, rese tondeggianti le mie orecchie a punta.

Quando smisi di bruciare dall'interno guardai a terra con gli occhi velati di lacrime. I lunghi capelli castani toccavano il pavimento di legno, segnato da graffi profondi dove le mie mani poggiavano, strette a pugno.

Alzai la testa per fissare il ragazzo. «Mi chiamo Sophie» dissi, ansante. «Sophie Richard. E adesso faresti bene ad andartene.»

Il sorriso di lui si allargò, eppure le sue labbra si storsero leggermente, come se stessero celando un sarcasmo che non sarebbe dovuto venire fuori. Si protese un po' in avanti, poi strinse il mio collare tra le dita e mi attirò a sé. «Molto piacere, Sophie Richard» sussurrò. Mentre lo fissavo pietrificata mi leccò i graffi che mi ero fatta sulla punta del naso e spostò lo sguardo sulla mia gola, adesso vicinissima alle sue labbra. «Sono davvero, davvero felice di conoscerti.»

Benvenuti!

Questa è la mia prima storia sui lupi (al momento non dirò né lupi mannari né licantropi).

Non so che cosa cerchiate leggendo storie di questo genere, ma vorrei avvisarvi che, pur non potendo discostarmi da molti degli stereotipi che ci sono di solito in libri simili, molte altre cose che forse vi aspettereste non le troverete 😊. Ciò non significa che scriverò delle "robe" che non stanno né in cielo né in terra (o almeno spero), ma che semplicemente parlerò degli uomini-lupo secondo la mia personale interpretazione, a volte anche basandomi sulle leggende legate al genere, perché no 😉.

Alcuni dei luoghi menzionati sono realmente esistenti, altri, come la città di Forteresse e il monte Saint Jacques, sono inventati per esigenze narrative.

Vi pregherei di esprimermi il vostro parere, soprattutto se siete appassionati di storie sui lupi, o anche se non lo siete. Il parere su una storia appena agli inizi è sempre molto importante <3

Vi ringrazio moltissimo per i commenti che mi lascerete e per le eventuali stelline.

Un abbraccio e... spero di ritrovarvi per continuare insieme questo viaggio nella comunità dei lupi di Forteresse ;*

Krisha Skies 

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