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CAPITOLO XIII

L'IRA IN ME


~Skarlet

Colori…colori ovunque sulla tavolozza.

Azzurro, bianco, giallo, marrone, nero.

ROSSO.

Un bellissimo sfondo rosso che contornava una figura femminile in primo piano sulla tela, dipinta con colori ad olio.

Il corpo celato da un velo dello stesso colore del cielo in primavera. I piedi…e le mani rosee, il volto basso e coperto dai capelli castani.

Priva di viso.

Mi sarebbe piaciuto davvero in quel momento poterle sollevare il volto con le dita per poter contemplare i suoi tratti liberi da qualsiasi oscurazione, sprovvisti di una folta chioma e dalla presenza di maschere che potessero occultare le meraviglie della sua bellezza.

Mi sarebbe piaciuto davvero poter essere libera, da tutto, ogni cosa.

Al di fuori di ogni schema.

Lasciare, per una volta, che il dolce calore del sole venga sospinto nel fulcro del mio cuore.

Sono sempre stata fatta di fuoco, imperterrita, inarrestabile, indomabile.

Eppure… con un cuore di ghiaccio che di calore non ha mai posseduto niente.

Le mani imbrattate di sfumature…

I jeans vecchi e logori pieni di chiazze, così il pavimento, così le mura.

Intorno solo il silenzio totale. Il nulla completo, quasi tombale.

Se non fosse stato per il canticchiare del cucù in lontananza quel vuoto vacuo mi avrebbe resa pazza, mi avrebbe distrutta senza alcuna chance di ritorno.

Non si torna mai indietro. È proprio vero che la vita è un libro di cui si ha l'opportunità di leggere ogni pagina esclusivamente per una volta.

Se non lo si sfoglia e lo si comprende attentamente si finisce per perdere passi fondamentali, che non si ripresenteranno in futuro.

E si ha una mancanza.

“Ma ehi…! Oggi è la festa del papà, no? Sarà più buono, sarà gentile stavolta vedrai. Gli faremo una bella sorpresa!” pensai osservando il quadro con soddisfazione.

Già… peccato che pensai male però.

Tuttavia, con occhi sognanti e speranzosi, un sorriso carico di entusiasmo, mani tremolanti per il timore e la smania di affetto che tanto disperatamente attendevo da parte sua, con un balzo mi posi in piedi e presi la tela in mano facendo attenzione a non urtare contro la pittura ancora fresca.

“Vedrai….gli piacerà…” ancora una volta.

Solo un’altra illusione autoinflitta.

Un'altra inesorabile discesa verso l’inferno.

Sgambettando allegramente, con l’umore di chi vive circondato di sole rose e fiori, quando tutto ciò che mi accerchiava era solo putrido e marcio.

Ma io mi ostinavo a provarci e riprovarci più duramente di prima e, pur se la mia mente fosse ancora talmente ingenua, aveva già iniziato il suo appassimento, ed il cuore, diveniva nel suo angosciante progresso, più raffermo ed immobile nel petto.

Canticchiando gioconda contavo di poter scovare quel briciolo di bontà in lui che non avevo mai potuto avere il piacere di assaporare.

Ci contavo davvero.

Calorie vuote per riempire l’inesistente cosmico del buco nero nel mio petto.

Zucchero, zucchero dolce di una torta d’amore, come quelle che preparava la mamma con le mele del nostro giardino.

Mi soffermai di fronte allo specchio esibendo uno di quei sorrisi smaglianti che volevano infondere coraggio.

“Vedrai…” continuava a dirsi, però la speranza un po’ scemava.

E non si sa in che modo, riprendendo la sua marcia verso il piano di sotto quella piccola fiamma fiduciosa, quella minuscola rosa ancora non sbocciata e acerba ritrovò la sua piccola serenità.

Fece un piccolo balzo saltando l’ultimo gradino della scala e sporgendosi verso la cucina notò la figura di lui e quella della madre.

Mamma con i suoi splendidi capelli marroni e mossi che ricadevano oltre le spalle, occhi verdi e il viso solitamente grazioso, ora livido e gonfio per le percosse.

“Vorrei poterle dire che anche se guardandosi allo specchio al mattino e alla sera piange perché si sente brutta, lei per me rimarrà in ogni caso la donna migliore e più bella al mondo”.

Così, con sospiro ansante e nervoso mi accostai a mio padre e, toccandogli la spalla richiamami la sua attenzione.

I suoi occhi apatici e spenti puntarono prima me e poi il dipinto. Le sue iridi adesso nelle mie.

Oh…quello sguardo, come dimenticarlo. Tutta quella delusione nei confronti del mio essere che tanto amava definire “inutile” o “nullità” oppure “fallimento”.

Nuovamente, una spinta forte di coraggio fluì dal mio corpo spingendomi a dire le fatidiche paroline.

Non so dove tirassi fuori tutta quella forza, so solo quanto ogni volta fosse tremendamente umiliante sopportare quello strazio.

«Tanti auguri per la festa del papà, ti ho fatto questo!» dissi con voce che un po’ sfarfallava come il bagliore vacillante di una lampadina quasi fulminata.

Mi aspettavo il peggio.

“E allora…perché continuavi a mancare di rispetto a te stessa in questo modo? Hai avuto molti segnali chiari da parte sua…perché Skarlet…perché ancora? È così difficile per una bambina realizzare che un padre non la ami e che anzi, la odi a morte e avrebbe preferito che, addirittura, non fosse mai nata?

Si…perché così le aveva detto un giorno mentre erano a tavola. E lei, non aveva mai dimenticato quelle parole vibranti e sonore come uno schiaffo in pieno volto”.

«È orrendo…non mi piace», disse noncurante distogliendo il volto dal disegno allo stesso modo in cui si guarderebbe un obbrobrio, uno scherzo della natura.

«Ma…perché? È bellissimo…» domandai mortificata e anche un po’ rotta interiormente per la rudezza delle sue parole.

«È brutta, disegni solo cose inutili, non le si vede neanche il viso. Cosa dovrebbe rappresentare questo schifo? Sei sempre una delusione, non importa cosa tu cerca di fare, non sarai mai all'altezza. Non sarai mai in grado di farti apprezzare da me», mormorò calmo e con una quiete sconvolgente nel suo tono crudele.

Qualcosa si era ridotto in mille pezzi.

Era come regalare un vaso di cristallo a qualcuno che poi in un modo o nell’altro finiva per romperlo.

Allo stesso modo, la piccola Skar donava alla persona sbagliata il suo piccolo cuoricino pieno di cicatrici.

E raccogliere i pezzi per rimetterli insieme diventava man mano più complicato.

In che modo poteva concepire, anche lontanamente, il fatto che suo padre fosse una persona sbagliata a cui affidare se stessi?

Una figlia dovrebbe potersi sentire protetta tra le braccia dei suoi genitori, non dovrebbe avere bisogno di comprendere tutto questo schifo e dover imparare a farsi forza ogni dannata volta.

Nonostante la solidità del suo essere minacciava certe volte di svanire in maniera assoluta e definitiva.

Pure se ormai non poteva contare su nessuno.

«Puoi andartene a fanculo? Sto guardando la TV, non sopporto i tuoi lamenti».

Sbatte un pugno sul tavolo, palesemente urtato e innervosito dalla mia presenza in questo mondo.

«Ti sembra questo il modo di trattarla? Ti ha fatto un regalo… almeno fai finta che ti piaccia o che ti interessi. Sei serio?» la voce di mia madre piena di furore incombeva dalla cucina.

A questo punto, ogni suono si faceva man mano ovattato.

Le uniche parole che rimbombavano violentemente contro le pareti del mio cranio erano quelle di mio padre.

Altre frasi da aggiungere all’enciclopedia intitolata ‘mille modi per svalutare Skarlet Krov’.

«Dovrei esserle grato per questo scarabocchio? Vedi di chiudere quella fogna e di muoverti a fare la serva, se nostra figlia è un incompetente è solo grazie ad una troia come te» Alza la voce alterato afferrando un piatto e scaraventandolo contro un mobile poco distante dalla caviglia della mamma.

Mi sentivo profondamente arrabbiata per quel gesto, per come l'aveva trattato e per come mi aveva ferita nell’orgoglio a tal punto da sentire l’esigenza di difendermi e di intervenire.

«Non sai apprezzare manco il cazzo, sei vuoto e privo di valori. Avresti dovuto avere una figlia che non ti calcolasse minimamente. Avrebbe ottenuto reazioni migliori da parte tua, stupido idiota di merda. Non osare rivolgerti più in questo modo a tua moglie, quando parli di lei dovresti solo sciacquarti la bocca», inveisco furente.

“Spero tu ti strozzi con il cibo mentre guardi la tua fottutissima TV. Spero che possa scivolarti, per errore, quel dannato coltello nel tuo petto freddo e perito ed io, giuro, che resterei ad osservarti morente ed esanime”.

Non so da dove fuoriuscissero questi pensieri intrusivi, mi spaventavano.

Ma ero stanca.

Stanca di tutto, stufa di lui.

Eppure non potevo fare a meno di chiedermi se anche lui pensasse le stesse cose di me, perché saremmo potuti essere molto simili se così fosse stato.

«Cos’hai detto brutta puttana?», la sua voce  irrompe da lontano nel mentre che afferro il barattolo del sale per poterne aggiungere un po’ al mio piatto.

Mia madre con occhi supplichevoli mi incoraggiava a farla finita e a non ribattere alle sue provocazioni.

Tuttavia, se c’è una cosa su cui siamo identici io e mio padre, è il temperamento aggressivo e impulsivo.

L'orgoglio bruciava in me e non avrei rinunciato a farlo divampare ed esplodere.

Nessuno può farmi tacere, nessuno può sopperirmi.

Se qualcuno intende spegnermi io  ardo maggiormente.

Con lui mi sentivo incoraggiata ad essere il doppio più ribelle, con lui non potevo fare a meno di essere in questo modo.

Lui cacciava il peggio di me.

«Avresti dovuto avere una cazzo di figlia che ti ficcasse un pugnale nel cuore mettendoti a tacere per l'eternità, senz’altro ti avrebbe soddisfatto maggiormente di un ingrata figlia come me, no?» Urlai strafottente infrangendo il barattolo di ceramica sul lavandino.

Appena udii il rumore dei cocci infrangersi in mille pezzi, mi pentii ufficialmente delle mie scelte.

Guardai il barattolo ormai senza forma, mia madre con gli occhi sbarrati e le mani a coppa portate sulla bocca.

Persino Alexander che era da poco apparso sulla scena del delitto si preparava all'inesorabile esplosione di un campo minato.

Ed infatti il peggio non tardò a giungere neanche questa volta.

Un rumore di passi pesanti e rabbiosi che arrancano verso di me in maniera minacciosa, degni di una belva infernale.

Scappo via verso il piano di sopra cercando di trovare rifugio e nascondiglio nella mia stanza.

Ingenua.

Perché lui entrò nella mia stanza subito dopo di me e mi agguantò per i capelli cominciando a darmi pugni in testa che mi stordirono.

Vedevo offuscato, confuso.

Alexander da dietro provava a bloccarlo ma non ci riusciva beccandosi di rimando un pugno sul naso che lo rispedisce al suo posto.

Di mamma neanche l’ombra…

probabilmente stanca di assistere a questi scempi e fin troppo debole, incapace di poterci difendere e contrattaccare contro suo marito.

Non mi importa.

“Lo merito, no? Sono una delusione”.

Schiaffi, pugni, calci, artigli nella carne e tentativi vani di proteggermi con le braccia a scudo davanti al mio corpo.

Tornò in salotto appena terminò di infierire sul mio corpo, prese il quadro e sentii una frase uscirgli dalla bocca che mi fece perdere totalmente qualsiasi lume della ragione, una frase che mi fece comprendere che per lui non vi fosse più possibilità di recupero o riscatto.

Lì cominciava ufficialmente l’odio verso mio padre, il momento in cui finalmente smisi di credere in lui, di perdere la dignità per lui, di cercare amore da colui che nel suo animo non ne ha mai avuto nemmeno un briciolo.

Decisi di rinunciare a costringermi forzatamente di vedere qualcosa di buono in lui, qualcosa che mi permettesse di definirlo padre e non aguzzino, non boia, non violento.

Collocai un punto.

Niente più tentativi di vedere in noi una famiglia.

Quella non era famiglia, non era casa e non lo sarebbe mai stata. Mai.

Quella frase…

«Adesso questa merda te la butto nella spazzatura dove merita di stare insieme a te. Sei un errore, mi fa ribrezzo pure definirti figlia! Tu saresti mia figlia? Per me puoi pure morire adesso», lo vidi allontanarsi.

Tra le mani quelle che furono ore, fatica e sudore impressi su tela, minuti durante i quali per un po' avevo il diritto di sperimentare la libertà, di esprimere me stessa, ciò che provo e ciò che penso attraverso la forma dell’arte, la tecnica e i colori….l’immaginazione.

Adesso tutto stava per finire buttato nel cesso. Letteralmente.

Non potevo accettarlo.

«NO!» urlo straziata da un dolore insopportabile all’altezza del petto.

Un patema che non può essere compreso.

Strillavo con tutto il fiato che possedevo e facendolo mi piego in due e, assieme al mio corpo si spezzano anche il mio animo e la mia psiche.

Come un angelo caduto dal paradiso, privato delle proprie ali, della sua vera libertà.

Oppresso, schiacciato sotto i piedi.

Come quando ad una persona che non le rimane un bel niente, le si sottrae persino l’unico motivo che la spinga a sopravvivere.

Toglierle la possibilità di scappare con la mente, di potersi esprimere anche in maniera impercettibile, vaga e del tutto insignificante.

Rinchiusa in una prigione, senza più nulla.

“Cosa ti lega ancora a questo mondo?”

Fu questa la questione principale che mi si piazzò davanti.

Non potevo permettere che, addirittura l’ultima cosa che mi ancorava al mondo, che mi mantenesse in vita e mi facesse essere diversa da tutti i comuni automi esistenti, venisse spazzata via.

Urlai…perché la rabbia repressa che portavo dentro era destinata a comunicare al mondo quanto tutto quello fosse ingiusto e privo di senso.

Stava dicendo che nessuno fosse dotato del diritto, del potere o della prerogativa necessari per riservarmi un trattamento del genere.

L'ira in me, diffondeva un messaggio importante, una specie di vangelo secondo cui la propria vita e la propria identità non può essere riservata e custodita nelle mani di nessuno altra persona al di fuori di sé stessi.

La mia voce veniva cacciata al di fuori, percorrendo l'intero tratto della gola, ghermendo le corde vocali, graffiando le mie interiora.

Una potenza che non si affievoliva forse per poco, ma non svaniva.

Lasciai che tutto si infrangesse dentro di me, che il corpo venisse trafitto e squarciato da quel ruggito di odio e di collera, di tribolazioni e di sfinimento.

Il ruggito trapassante di una pantera, che crepa il terreno e fa sussultare l’aria, che frana i monti e oscura il cielo, che conduce distruzione ovunque e al tempo stesso si fa avvertire, sancisce la propria grinta per rivendicare il proprio posto in questo mondo, per poter affermare il mio essere, di annunciare la venuta di  Skarlet Krov e rivolgere a tutti e a me stessa una promessa.

La promessa di non mettere mai a tacere quel grido di guerra.

Mia madre mi tratteneva da dietro stringendomi e cullandomi fra le sue braccia.

Lamenti laceranti e dilanianti percuotevano le pareti della casa, tutto era scosso e frenetico.

Questo mi faceva sentire viva.

Faceva così male. Ma mi dava la dimostrazione di esserci ancora su questa terra e di non essere soltanto uno spettro di me stessa.

“Sei ancora viva…non temere, sei ancora qui. Non sei il nulla, sei il tutto, non sei comune, sei diversa, sei te. Fa paura, ma sei te”.

E preferivo di gran lunga vivere nel terrore verso ciò che sono, piuttosto che vivere in un involucro vuoto, fatto di carne, sangue ed ossa.

“In questo momento sei tutto”.

«Shh…ci sono qui io con te…ci sono io, bambina mia», la voce gentile di mia madre mi solleticava le orecchie e i suoi capelli coccolavano il mio viso.

Ora le mani e i jeans vecchi erano imbrattati della mia linfa vitale che si mescolava con la pittura secca, così il pavimento e le mura…

Intorno non più il silenzio tombale, solo il fracasso di un terremoto, di una lotta.

«Ci sono io…ci sono io, stellina mia».

Mi sveglio di soprassalto udendo queste parole.

~Anthony

Un sospiro forte, uno scatto in avanti, i suoi occhi sbarrati dal terrore.

Si mette in posizione eretta poggiando i piedi sul pavimento e cominciando a camminare convulsamente a destra e sinistra.

Sembra fuori di sé…ancora una volta.

Non capisco proprio cosa le prende ultimamente.

Nel sonno prima stringeva i denti forsennatamente, le ossa stridevano fastidiosamente tra di loro, ho provato brividi veri e propri udendo quel suono disturbante.

Riuscivo a percepire il modo in cui la mandibola contraendosi emanava dei crack.

“Chissà quanto le dolgono le gengive”, riesco ad immaginarlo così bene da provare dolore a mia volta.

Il suo intero corpo era impazzito nel sonno, si dimenava come una lucertola in fuga.

Ripeteva la stessa frase in maniera maniacale:

“mamma…mamma…sono viva, sono viva, non lasciarmi”.

Così, non sapendo cosa fare, mi sono avvicinato a lei e ho cercato di calmarla, di donarle un po’ del mio calore, volevo farle sentire la presenza di qualcuno al suo fianco.

Si blocca….in mezzo alla stanza, barcolla leggermente presa da un capogiro e, con uno sguardo e un espressione che non aveva mai avuto sul suo viso, indecifrabile e terrificante al tempo stesso, si poggia una mano sul petto sopraffatta da una forza superiore che la opprime proprio in quel punto.

«Ehi…che succede, vieni qua!» cerco di invitarla ad avvicinarsi a me.

«Lascia stare, è solo un incubo…solo uno stupido…incubo, già», inspira tornando indifferente e fredda.

«Devo andare», parla poi cercando di fuggire via.

«No…non andare, è chiaro che stai male. Fidati di me, resta», insisto ulteriormente.

«Di che cazzo stai parlando? Ma ti senti? Ho detto che era un fottutissimo incubo, puoi anche smetterla di agitarti. Voglio stare da sola, lasciami in pace», dicendo queste parole fugge via, non prima di aver sbattuto la porta.

Rimango paralizzato al centro della stanza, scioccato dallo strano risveglio e preoccupato per lo stato mentale ed emotivo della ragazza.

“Certo che non la capisco proprio, è un mistero quella donna.
È evidente che c’è qualcosa che la turba, qualcosa non va per il verso giusto”.

Ripenso a quella volta che l’ho spiata mentre combatteva selvaggiamente contro il sacco da box in palestra, quando l'ho vista divorare quella carne allo stesso modo in cui farebbe un cannibale o anche un animale feroce.

Ripenso al suo sguardo sempre eccessivamente spento, al suo fare strafottente, alla sua arroganza, all’ego che mostra sempre agli altri, alla sua necessità di occupare più spazio possibile in questo mondo, di farsi sentire in modo chiaro e di urlare al mondo chi è davvero e di che pasta è fatta.

Quasi come se temesse di poter essere zittita da qualcuno, messa a tacere, annullata.

E poi rifletto sul modo in cui a volte si acchiocciola insicura e spaventata su se stessa.

Ci sono momenti in cui vorrebbe chiedere aiuto, esplodere o semplicemente svanire dal mondo, momenti in cui non la riconosco.

Ma infondo io non l'ho mai conosciuta davvero.

È solo che, a volte, mi da l’impressione di una piccola bimba in cerca di amore e di affetto.

“Io vorrei solo poterla aiutare, ma non me lo concede in nessun modo.
Oh... se solo aprisse il suo cuore a me… forse lo ha già fatto più del previsto e non me ne rendo conto. Lasciale il suo tempo Anthony… se si sentirà a suo agio te lo dirà personalmente cosa le passa per la mente”.

«Ti aspetterò, principessa. Non importa quanto, attenderò giorni, mesi, anni, ma sarò sempre accanto a te, spero che tu lo abbia compreso almeno un po’», mi rivolgo al profumo che ha lasciato nell’aria, perché di lei non c’è più ombra, rimane solo la sua fragranza di rose speziate.

Ogni cosa di lei mi fa mettere in dubbio tutto ciò che so.

Persino il suo esserci e il solo pensiero che esiste è sufficiente per farmi impazzire e mettermi a disagio.

Emana un aurea di potere e di oscurità, infonde sensazioni di inquietudine, come se ti trovassi in un posto giusto e sicuro e al tempo stesso non sicuro.

Mi fa paura e mi dà pace, mi rende irrequieto e mi fa raggiungere la pace dei sensi.

Mi porta a toccare il paradiso e poi mi scaraventa verso il basso, sprofondo all’inferno e mi fa patire le peggiori pene.

Quando credi di essere ad un piccolo tratto da lei, ti si para un muro davanti. Ti schianti e svieni sul cemento duro.

Irraggiungibile.

Io non so chi sei, Skarlet Krov, ma abbiamo avuto già a che fare in passato noi due, solo che non lo ricordi, non mi hai riconosciuto, sono io l’angelo custode che ti ha salvata.

Ricordo, come eri diversa, piccola, gracile e sofferente.

Cosa hai vissuto di così orrendo nel tuo passato?

Nessuno mi dice niente, mio padre nemmeno.

Eppure lui sa qualcosa, io ne sono certo.

Ho il sentore che qualcosa di grande sia nasconda dietro a tutto questo.

Non mi piace, però mi affascina.

“Ma io ti aspetterò”, ripeto e, detto questo, decido di prepararmi per la giornata di oggi.

“Chissà, magari più tardi la incontrerò”, spero.

Per il momento devo fare cose noiose con mio padre, ha detto che deve parlarmi, non so bene riguardo cosa, ma confido nel fatto che non sia niente di brutto o grave.

Una volta pronto e sistemato, mi reco verso l’ufficio di mio padre al settimo piano.

Prima di entrare busso e solo dopo il suo austero “avanti”, mi faccio largo per entrare e richiudo la porta alle mie spalle.

«Allora? Cosa volevi dirmi?» Gli domando facendogli cenno per incoraggiarlo a parlare.

«Riguarda la tua cara amichetta, sai, quella a cui ultimamente sei attaccato peggio di una cozza», fa lui con lo stesso sarcasmo di un pollo spennato.

“Non ha per niente senso…ma fa ridere”, rifletto.

E chissà per quale motivo la mia mente bacata si ritrova a creare una versione di mio padre con le sembianze di un pollo spelacchiato.

Mi esce una smorfia involontaria e lui mi guarda stranito, dunque, prima di scoppiargli a ridere in faccia, prendo in mano la situazione evitando che tutto degeneri.

«Già, ho presente. E quindi?»

Faccio io disinteressato e fingendo disinvoltura.

«E quindi, ci sono molte cose che non sai riguardo lei. Ha avuto un passato tremendo, ed è ancora più terrificante il fatto che di queste cose se ne sia venuti a conoscenza solo dopo la cattura e il recupero della ragazza. In un certo senso dobbiamo a lei tutte le informazioni di cui siamo dotati ora. Non posso dirti molto Anthony, ma il padre di Skarlet era una persona crudele e pericolosissima, dotato di facoltà e di intelligenza sconfinate, proprio come la figlia», fa una breve pausa per poi riprendere il suo discorso con tono greve e autoritario.

«Lui sarebbe dovuto essere morto... il suo cadavere è stato ritrovato in pessime condizioni.
Immagina che, non si riconosceva all’apparenza per quanto fosse irriconoscibile e ridotto in poltiglia. Abbiamo dovuto fare vari esami e test del DNA, ricomporre i pezzi... nel vero senso della parola. Tutto questo insieme di cose che ci hanno fatto giungere alla conclusione che fosse effettivamente Artyom Krov», conclude gesticolando con alcuni fascicoli in mano riguardanti il caso.

Mi sporgo per scorgere cosa vi sia scritto sopra e, noto la foto di un uomo dai capelli neri e occhi scuri molto simile a Skarlet.
Giovane, probabilmente sulla trentina di anni o, perlomeno quella è l'età che aveva nel momento in cui è stata scattata la foto.

Ha un viso inquietante e ogni parte di lui fa sentire fuori posto, più lo osservo, più uno stato d'ansia accresce in me.

Accanto a lui vi sono tutta una serie di informazioni scritte che non riesco a decifrare visto che mio padre mi sfila le carte da sotto il naso.

«Aspetta, come sarebbe a dire… “sarebbe dovuto essere morto”?»

È abbastanza strano da parte sua essersi espresso con incertezza riguardo ad un uomo morto che è un dato oggettivo e incontestabile, quindi ho colto particolarmente subito l'antifona.

«Il suo corpo con il tempo, non ha seguito il suo processo di degenerazione, bensì ha iniziato a tornare allo stato originale, i tessuti si sono rigenerati lentamente nell’arco di questi ultimi quattro anni.
Nelle prime ore forse i cambiamenti non si captavano in maniera così esplicita. Con il passare dei giorni il personale della S.P.L. ha iniziato a riscontrare delle cose fuori posto, anomalie.
Segni mancanti, lividi man mano sempre meno evidenti, persino la parvenza di un calore umano.
Abbiamo tenuto quell’essere rinchiuso in una stanza isolata e protetta dal resto della struttura con alti livelli di sicurezza, abbiamo tenuto il peggio, figliolo…»

Si prende una piccola pausa stringendomi le spalle e guardandomi dritto nelle iridi.

«Ed infatti il peggio è accaduto. Il corpo è scomparso e non è stato più ritrovato. Qualcosa non va bene, è impossibile che un corpo possa sparire in un modo del genere, crediamo in qualche cospirazione o cose cosi…»

«Mio Dio…»

«Al suo posto sono stati ritrovati centinaia di cadaveri tra personale, medici e scienziati. Quindi possiamo affermare senza alcun dubbio che si è fatto spazio con la violenza e con il sangue.
Ma non è solo questo il problema Anthony, ascolta!» Il suo tono diviene più brusco, come se stesse tentando di risvegliarmi, per assicurarsi di farmi assimilare attentamente ciò che ha da dirmi.

«Devi proteggerla soprattutto ora che il padre è scomparso e c'è una buona possibilità che se dovesse ritornare a piede libero, andrà alla ricerca della figlia e non si darà mai pace fin quando non l'avrà scovata, fin quando non avrà ottenuto vendetta. E devi tenerla d’occhio anche perché pare che alcuni potenti, associazioni segrete politiche e militari siano…» abbassa la voce come se temesse che persino le mura possano assimilare quelle parole.

“Vendetta? Perché Artyom dovrebbe avercela a tal punto con la ragazzina? Quali azioni aberranti deve aver compiuto per suscitare la cosiddetta reazione a catena che porterà ad un esplosione catastrofica? Cos'è che non mi stai dicendo, pestifera?”

«Pare che siano venute a conoscenza di Skarlet e del suo potere immenso. Sai cosa vuol dire questo? Mh? Che non siamo poi tanto al sicuro qui, la brama di potere e di voler possedere ad ogni costo un arma talmente potente in forma umana… hai idea delle golosità e mire che possa suscitare una preda del genere per gli Stati e le forze?» Si volta verso il muro sostenendosi con una mano sulla scrivania.

Picchietta le dita sul legno scuro nervosamente, prendendo a fissare la piccola piantina vigorosa che trova dimora in un vaso abbandonato nell’angolo più anonimo di queste quattro pareti.

“È abbastanza nervoso, in tutti questi anni, non ha mai perso le staffe nemmeno una volta. Questo significa che qualsiasi sia il nostro avversario non è qualcosa da sottovalutare”.

«Lei non è solo un arma, noi sappiamo più di chiunque altro cosa ha passato e non merita un ulteriore condanna, ha bisogno di vivere tranquillamente, distante da questi mali che possano rovinarle la vita. Noi proteggiamo i ragazzi come lei, figliolo… perciò, qualsiasi cosa dovessi notare, ti prego di riportarmela immediatamente. Non voglio questo per lei, conoscevo sua madre… glielo devo», il suo tono aveva un che di supplichevole.

Non è affatto un gioco e sta cercando di inculcarmelo in ogni modo possibile.

«Prometto che ti spiegherò un giorno se non lo farà prima lei, dopotutto noto che siete molto affiatati», mi fa un occhiolino malizioso ed io volgo gli occhi al cielo.

«Ed io giuro che qualsiasi cosa dovesse capitare, anche quella più banale, sarai il primo a venirne a conoscenza», sorrido soddisfatto.

«Grazie, figliolo. Sai... non sarei affatto sorpreso se cominciassero a mandarmi minacce o proposte di scambi. La S.P.L. sta facendo tutto il possibile per tutelarla e proteggerla dalle minacce, farla entrare in questa scuola era solo una piccola parte del nostro piano. Sapevamo sin dall'inizio che qui sarebbe stata più al sicuro che a casa sua con Norah. A proposito, dovrei farle una chiamata per rassicurarla, è da un po' che non mi faccio sentire», afferma con espressione di chi si è appena ricordato qualcosa di importante.

«La zia di Skar?» chiedo ricordandomi vagamente della buffa chiamata che la pestifera ebbe con quella donna ansiosa.

«Già... lei immaginava che sarebbe accaduto prima o poi, ed era d’accordo. Vuole solo che stia in un luogo protetto e dotato delle giuste precauzioni», spiega.

« Ripeto quanto ribadito poco fa, se dovessi accorgermi di movimenti sospetti, infiltrati e cose così, te lo riferirò. Però…»

«Però?» Mi incita incuriosito.

«Riflettendoci su... l' altra volta si è sentita male perché ha visto qualcuno alla festa, in mezzo alla folla. Non sono riuscito a capire chi fosse».

Dei brividi di inquietudine strisciano come vermi lungo la schiena.

Un senso di scomodità, turbamento e agitazione si rivela irruento.

Il comportamento di ieri sera della corvina, tutto d'un tratto, non mi pare solo una sciocchezza o una cosa da poco, ha chiaramente visto qualcosa che l’ha fatta stare male.

“Se fosse Artyom? No… sarebbe poco saggio per un uomo astuto come lui, stando a quanto mi ha riferito mio padre. Perché correre un rischio del genere? E soprattutto, se non è lui, chi poteva essere?”

«Cosa…? Lei ti ha riferito qualcosa di importante?» Si affretta a chiedermi.

«No…niente, tremava solo, era gelata. Questo mi è parso molto strano, è sempre molto calda. È disturbante da dire, lo so… ma era gelida quanto un cadavere e anche peggio, un cadavere ibernato nel ghiaccio».

«Freddo…ghiaccio…no, non può essere suo padre, chi potrebbe avere un influenza del genere su di lei? Le uniche persone che un tempo avrebbero potuto… sono morte», si strofina la barba, un gesto apparentemente semplice e inutile che, tuttavia infonde calma e quiete opportuni per trovare la soluzione per ogni enigma impossibile.

«E se non fosse così? Se non fossero morte?» Propongo io.

«Il corpo di Kristel, nonché la madre di Skarlet, è stato ritrovato morto, hanno confermato il suo decesso e attualmente si trova sepolta nel suo paese d’origine. Eppure…»

«Mh?» lo invoglio a proseguire il suo discorso.

«Il corpo del fratello non è mai stato ritrovato, non si sa che fine abbia fatto. Nessuna traccia di lui, solo qualche chiazza di sangue che abbiamo scoperto appartengano a lui».

Mi porto una mano a strofinarmi il viso scioccato dalla rivelazione.

«Dici che…»

«Ha senso, no? Non è un eventualità da scartare del tutto, lo shock della ragazza dev’essere stato per il fatto che lo ha riconosciuto e si è sentita crollare il mondo addosso, insomma, l’avrà visto morire oppure avrà creduto che fosse morto per tutto questo tempo, è una reazione più che plausibile. Forse addirittura avrà creduto di avere allucinazioni», ipotizza.

«Ma cosa ci faceva lì? Chi lo ha fatto entrare?»

«Hai invitato conoscenti da altre scuole o persone a caso dalla città?»

«Ho solo invitato… alcune vecchie conoscenze e ho detto loro che se avessero voluto invitare una persona fidata…»

«Ohh…qui cambiano le cose allora», mi interrompe bruscamente.

«Quindi?»

Allargo le braccia indeciso sul da farsi.

«Quindi niente, ormai possiamo solo sperare di trovare un riscontro tra i nomi riportati nella lista degli invitati, interrogare le guardie, non so… ti farò sapere se abbiamo risultati».

Annuisco debolmente.

Sono piuttosto scosso, ma il mio pensiero va a lei.

Mi sento ancora più in dovere di starle accanto, soprattutto in questa situazione catastrofica. Non voglio che le accada niente, nessuno può portarmela via, se dovessero provare anche solo a sfiorarla scatenerò l’apocalisse.

Saluto frettolosamente mio padre e, in preda all’ansia che qualcuno possa già averla rapita, corro per i corridoi nel tentativo di trovare anche la minima traccia o sfumatura che mi guidi a lei.

Il suo effluvio, la sua voce, qualsiasi cosa che mi faccia capire che stia bene.

La sua essenza è ovunque, è passata da qui, ne ho la certezza.

La cerco in lungo ed in largo, basandomi sull’uso dei miei sensi da lupo, ed e in questo modo che mi ritrovo all’ultimo piano, sulle scale che conducono al tetto della scuola.

Il sole filtra dolcemente dai vetri delle finestre, dolci note riempiono l'aria e colpiscono dritte alle mie orecchie.

Un suono avvolgente, sonoro e soave.

La sua voce…

Sta cantando e sembra un angelo sceso in terra, una creatura venuta direttamente dal cielo per portare miracolo e salvezza.

Mi affaccio di poco dalla porta lasciata spalancata.

È proprio un usignolo incarnato nel corpo di una donna celestiale e ammaliante.

La pelle pallida che risplende alla luce del mattino, i suoi capelli corti e color pece svolazzano al vento, le labbra carnose vibrano gioiose di emanare quella melodia stupefacente e mozzafiato.

Indossa un jeans largo ed una felpa con zip sul davanti.

Non presto tanto attenzione al suo aspetto, non so nemmeno dirvi di che colore siano effettivamente i vestiti che indossa.

Sono totalmente stordito, catturato e trasportato dal suo stregante e avvincente vocalizzare:

«Crudeli e marci,
il suo cuore e i suoi vuoti occhi privi di pietà come la morte in persona.

Lui assimila la mia essenza.

Così fredda, glaciale e deceduta è l’anima di colui che ho accanto.

Ascolta, ti supplico,
la mia voce ormai fievole e disconnessa,
le mie urla ormai lontane.

Dimmelo,
riuscirò mai a tornare tra le tue braccia, mio dolce impavido soldato?

È solo un ricordo lontano, mio amato,
mi resta solo l’agghiacciante morsa in
cui mi tiene stretta,
lui, la mia lenta morte.

Non resta più nulla se non la tua rosa ormai sfiorita e appassita da tempo», si volta indietro e con un ultimo sospiro, riempie il suo petto di aria e guardandomi negli occhi impavida, termina la canzone gravemente e in maniera suggestiva.

«ma il mio amore per te non appassirà mai».

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