Capitolo 19
Il cioccolatiere rimase immobile, senza reazione, come una statua spezzata dal tempo. Theresa notò una lacrima scivolargli lentamente lungo il viso, tracciando una linea lucida sulla pelle pallida, fino a dissolversi nel colletto sgualcito della sua camicia. La sua mano tremante si posò sulla guancia colpita, come se volesse contenere un dolore più profondo di quello fisico.
Nei suoi occhi, Theresa lesse tutta la tristezza che lo stava consumando, uno sguardo svuotato, quasi rassegnato, intriso di un fallimento che non gli aveva mai visto prima. Era come se il suo intero mondo, fatto di sogni zuccherini e visioni colorate, si fosse incrinato irrimediabilmente.
Theresa aprì bocca, tentando di dire qualcosa, forse scusarsi, ma le parole le si spezzarono in gola come vetro sottile. La sua mano, a metà strada tra un gesto di conforto e una ritirata, rimase sospesa nell'aria prima di cadere inerte lungo il fianco. Sentiva il cuore battere forte, quasi doloroso, mentre il senso di colpa le scavava un buco nell'anima.
Ravveduta, si coprì il viso con le mani, soffocando i singhiozzi che le risalivano in gola come un torrente incontenibile. Una morsa le serrò il petto, stringendola con la forza di ricordi che credeva ormai sepolti. Come in un flashback vivido, tornò con la mente a quel giorno fatidico: il cielo plumbeo, il vento che le sferzava il viso mentre fuggiva lontano da lui, dalla fabbrica, da tutto ciò che conosceva. La stessa rabbia ribollente le aveva infiammato le vene, unita alla sensazione devastante di essere fuori posto, un ingranaggio stonato in un meccanismo perfetto. Aveva subito un'accusa che non meritava, e quel vuoto nello stomaco -freddo e acuminato- era rimasto lì, a ricordarle che le ferite più profonde non guariscono mai del tutto.
Si riscosse dai suoi pensieri quando i loro sguardi si incrociarono. C'era un abisso tra loro, un silenzio denso e carico di cose non dette, interrotto solo dal canto insistente dei grilli che risuonava nel buio della notte. La soffitta era fiocamente illuminata dalla luce tremolante di una candela ormai consumata, e l'odore dolciastro del cioccolato che egli emanava, mescolato al legno umido, saturava l'aria.
Il cioccolatiere, come risvegliato da una forza invisibile, fece un passo verso di lei, poi un altro. Ogni movimento sembrava esitante, come se temesse che avvicinarsi troppo potesse infrangere un equilibrio già precario.
Theresa si irrigidì, preparando il cuore a ricevere una nuova ferita. Ma invece di un rimbrotto, di una parola tagliente, accadde qualcosa di inaspettato: Willy Wonka le afferrò le spalle con delicatezza e la tirò a sé, stringendola in un abbraccio. Era un gesto silenzioso, eppure pieno di significati che le parole non potevano contenere.
«Mi dispiace», mormorò, la sua voce poco più di un sussurro che si perse tra i capelli di lei.
Theresa rimase immobile, sorpresa, con il volto premuto contro il tessuto della giacca di lui che sapeva di cacao e di qualcosa di indefinibilmente triste. Non riuscì a rispondere, ma chiuse gli occhi, lasciando che quel momento si sedimentasse dentro di lei come polvere su un vecchio ricordo.
Poi, senza aggiungere altro, il cioccolatiere si staccò da lei e si voltò verso la porta della soffitta. Theresa lo osservò in silenzio mentre si allontanava, i passi lenti che scricchiolavano sul legno consumato. Quando il suono si dissolse nel nulla, rimase sola, avvolta da un silenzio che sembrava amplificare il vuoto che aveva dentro.
Le tornò alla mente un'immagine sbiadita: i due, giovani e spensierati, che ridevano insieme mentre un fiume di cioccolato scorreva intorno a loro. Il ricordo la trafisse, lasciandola a fissare il punto in cui lui era scomparso, con gli occhi gonfi di lacrime e il cuore intrappolato tra passato e presente.
***
Era alla cassa del negozio Wonka, situato a Cherry Street, dove le vetrine scintillavano sotto i raggi del sole pomeridiano, esibendo file ordinate di cioccolatini avvolti in carte dorate e dolci di ogni forma e colore. Il profumo di cacao e zucchero a velo permeava l'aria, attirando i passanti che si fermavano ad ammirare la magia che traspariva da ogni dettaglio del negozio.
Quel giorno Theresa si sentiva particolarmente felice. L'energia del mattino sembrava riflettersi nel suo sorriso, che illuminava il volto di una radiosità che raramente si concedeva. Indossava il grembiule con il logo "Wonka" ricamato sopra, e con passo leggero, quasi danzante, si diresse verso l'ufficio del signor Wonka.
All'interno, l'atmosfera era sempre un po' caotica: pile di carte, scatole di campioni di dolci e schizzi di nuove invenzioni riempivano ogni superficie disponibile. Willy Wonka era già lì, chino su un quaderno di appunti, con il cappello appoggiato maldestramente sul lato della scrivania. Quando Theresa entrò, lui alzò lo sguardo, la solita scintilla nei suoi occhi sembrava annebbiata dalla fretta.
«Theresa, cara, devi prendere per un po' il mio posto: ho un appuntamento importante, non posso rinunciare!» disse con tono deciso ma gentile, agitando una mano come per sottolineare l'urgenza. «Qualsiasi cosa, chiamami.»
Non ci fu tempo per domande, spiegazioni o proteste. Willy Wonka si affrettò a prendere il cappello e infilarsi il cappotto. Con un ultimo sguardo -qualcosa che Theresa non riuscì a decifrare- si avviò verso la porta. Il cigolio delle cerniere segnò la sua uscita, e poi il rumore secco della porta che si chiudeva lasciò la stanza in un silenzio irreale.
Theresa rimase lì, immobile, con una mano appoggiata al bordo della scrivania. Si sentì persa, come se il mondo fosse diventato troppo grande e lei troppo piccola per affrontarlo da sola. Mille pensieri iniziarono a turbinare nella sua mente, come foglie trascinate da un vento impetuoso. La parola appuntamento si fissò nella sua testa, pulsando come un tamburo. Non poteva fare a meno di immaginare una donna: forse una cliente ricca e sofisticata, forse qualcuno che stava lentamente conquistando il cuore del suo cioccolatiere.
Era una ferita che non voleva affrontare, ma che non poteva più ignorare.
In segreto, Theresa lo amava. Non era una semplice infatuazione, ma un sentimento che si era insinuato in lei lentamente, crescendo come una pianta rampicante che aveva trovato terreno fertile nel suo cuore. Ricordava il momento in cui se n'era resa conto: un giorno qualunque, mentre lo osservava al lavoro, con quella dedizione e quella creatività che lo rendevano unico. Pensava fosse solo affetto, un senso di gratitudine per il modo in cui lui l'aveva accolta nella sua vita, ma era diverso. Ogni volta che le parlava, sentiva un brivido lungo la schiena: i suoi gesti, i sorrisi e la risata contagiosa rimanevano impressi nella sua mente, come se lui fosse il sole intorno al quale orbitava il suo universo.
Quando tornò a casa quella sera, dopo una lunga giornata trascorsa senza di lui, si sentiva esausta. Ogni minuto era stato un eterno rimpianto della sua assenza, un vuoto che non riusciva a riempire. Aprì la porta del suo appartamento e si lasciò cadere sulla poltrona accanto alla finestra, fissando il cielo che si tingeva di sfumature di blu e arancio.
Ma Willy Wonka non era ancora tornato.
L'assenza del suo cappello in'ufficio, la sua voce che riempiva il negozio, il rumore inconfondibile dei suoi passi, tutto ciò le mancava con una forza devastante. Era come se la sua stessa esistenza fosse sospesa, bloccata in una stasi dolorosa. Le sue certezze, fragili come cristallo, si sgretolarono una dopo l'altra, lasciandola con il cuore pesante e un unico pensiero: dove fosse lui e, soprattutto, con chi.
Theresa si lasciò andare alla disperazione. Seduta sul pavimento del bagno, si stringeva le ginocchia al petto, il respiro corto e spezzato dai singhiozzi. Il mondo intorno a lei sembrava dissolversi in un silenzio assordante, rotto solo dal suono del suo cuore che batteva furiosamente nel petto. Lo specchio sopra il lavandino rifletteva il suo volto sconvolto: occhi rossi e gonfi, guance rigate dalle lacrime.
Nella confusione della mente, il suo sguardo si posò su un rasoio lasciato lì, accanto a un piccolo barattolo di schiuma da barba. La sua mano tremante lo afferrò. Il freddo metallo della lama contro la pelle sembrava un richiamo, una promessa di qualcosa che non riusciva a mettere a fuoco. Senza pensarci troppo, premette la lama contro il braccio e tracciò un taglio netto. La pelle si aprì, pizzicando appena, e un rivolo sottile di sangue iniziò a scendere lungo l'avambraccio, come una lacrima scarlatta.
Per un attimo, provò una strana sensazione: dolore, sì, ma anche un piacere perverso che la fece sentire viva, presente in un modo che non provava da tempo. Incise un altro taglio, poi un altro ancora, ogni linea una sorta di macabro tributo alla fine di un giorno che le aveva portato solo tormento.
Quando Willy Wonka rincasò, la trovò riversa a terra, il braccio sporco di sangue e il rasoio ancora stretto nella mano. La scena lo colpì come un pugno allo stomaco. Un'onda di rabbia e frustrazione gli montò dentro, sopraffacendolo.
«Theresa!» urlò, la voce che riecheggiava nel piccolo spazio. Si chinò accanto a lei, strappandole il rasoio dalle mani con un gesto brusco e gettandolo lontano, come se fosse un serpente velenoso. «Cosa ti è saltato per la testa? Credevo lo avessi superato!»
Le sue parole tagliarono l'aria con durezza, ma dietro la rabbia c'era paura, un terrore primordiale che si rifletteva nei suoi occhi spalancati. Theresa lo guardò, il volto contorto da una furia disperata.
«IO TI DETESTO!» gridò, spingendolo via con tutta la forza che aveva. La sua voce tremava, ma ogni sillaba era un urlo di dolore che si infrangeva contro di lui.
Per un istante, il cioccolatiere rimase immobile, sconvolto. Poi, senza dire una parola, la tirò a sé, stringendola tra le sue braccia con fermezza. Theresa lottò, colpendolo debolmente con i pugni sul petto, ma lui non la lasciò andare.
«Basta, Theresa... basta», mormorò con una dolcezza che sembrava fuori posto nella sua voce solitamente eccentrica e piena di energia. Mentre lei crollava in un pianto disperato, lui prese il suo fazzoletto -un pezzo di stoffa viola con le sue iniziali ricamate- e le avvolse con delicatezza il braccio ferito.
«Non lasciarmi andare», sussurrò Theresa tra i singhiozzi, stringendosi al collo di lui con forza, come se temesse che il mondo potesse crollare se lo avesse fatto. Wonka rimase in silenzio, lasciandola aggrapparsi a lui, sentendo il peso della sua sofferenza come un macigno sul petto.
In quel momento, qualcosa cambiò in lui. Guardandola, comprese la profondità del suo dolore e il significato dei suoi gesti. Quella reazione non era nata dal nulla: era stata scatenata dalla paura di perderlo, dal pensiero che lui potesse appartenere a qualcun altro. Si rese conto che per Theresa non era solo il "cioccolatiere eccentrico" che tutti conoscevano... Era molto di più.
Da quel giorno, Willy Wonka prese una decisione. Iniziò a coinvolgere Theresa in ogni aspetto della sua vita lavorativa, portandola con sé agli appuntamenti e condividendo con lei anche i dettagli più banali. Non voleva più che si sentisse esclusa o inutile, perché ora sapeva quanto lei lo amasse e quanto lui fosse importante per il suo fragile equilibrio.
Theresa, da parte sua, gli promise fermamente che non avrebbe mai più fatto del male a se stessa.
«Cercherò di trovare un modo migliore», disse, con il viso ancora rigato di lacrime ma una nuova determinazione nello sguardo.
Il cioccolatiere le strinse la mano, e in quel gesto c'era la promessa silenziosa che lui le sarebbe rimasto accanto.
***
Sentendosi vuota, Theresa si rifugiò in bagno, cercando disperatamente di sfuggire al vortice di brutti ricordi che le affollavano la mente, ma nemmeno quell'atmosfera intima riusciva a scacciare la nausea che le stringeva lo stomaco come un pugno.
Nel frattempo, il cioccolatiere aveva raggiunto Baltus Van Tassel e i suoi amici. La stanza in cui si trovavano era un luogo carico di antichità e segreti. Illuminata da una miriade di candele tremolanti e dal bagliore del fuoco scoppiettante nel camino, emanava un calore quasi soffocante. Le pareti verdi erano decorate con cimeli antichi, ma ciò che catturava lo sguardo era un imponente ritratto di Katrina Van Tassel, il viso dipinto con una perfezione che sembrava quasi inquietante. Vecchie poltrone imbottite erano disposte in cerchio attorno a un tavolino di legno instabile, che sembrava pronto a cedere sotto il peso delle tazzine di tè e dei bicchieri di liquore.
«Oh, eccellente!» esclamò il signor Van Tassel, alzandosi dal suo posto quando il cioccolatiere irruppe nella stanza, facendo scricchiolare il pavimento di legno sotto i suoi passi. «Entrate! Ehm... lasciateci, mia cara.»
Lady Van Tassel, elegantemente vestita e con uno sguardo enigmatico, si inchinò e uscì dalla stanza.
Baltus presentò i suoi ospiti con un gesto teatrale: «Si sono uniti a noi il dottor Thomas Lancaster, il reverendo Steenwyck, il nostro abile magistrato Samuel Philipse e infine questo brav'uomo è James Hardenbrook, il nostro notaio.»
Ogni uomo presente aveva un aspetto unico che rifletteva il proprio carattere. Il dottor Thomas Lancaster era il ritratto dell'età avanzata: il volto scavato da profonde rughe, i capelli radi e bianchi come neve e un portamento fragile. Accanto a lui, il reverendo Steenwyck, alto e severo, dominava la stanza con la sua presenza austera. La sua parrucca bianca, sistemata in modo impeccabile, contrastava con la veste nera che lo avvolgeva come un'ombra. Il magistrato Samuel Philipse, invece, aveva una corporatura imponente, quasi priva di collo, ma un'espressione che lasciava intendere una cordialità che sembrava fuori posto in un ambiente tanto cupo. E infine il notaio Hardenbrook, il più trasandato del gruppo, con uno sguardo nervoso e l'occhio sinistro che pareva vedere poco o nulla, si stringeva nel suo cappotto logoro come se volesse scomparire.
«E voi, signore?» domandò il cioccolatiere al signor Van Tassel.
«Un semplice agricoltore che ha avuto successo», rise egli. «La gente si rivolge a me come amico e consigliere.»
«E possidente e banchiere, procediamo?» li interruppe il magistrato Philipse. «Grazie!» assentì il cioccolatiere. «Allora, tre persone assassinate... Prima, Peter Van Garrett e suo figlio, Dirk Van Garrett. Erano entrambi uomini forti e capaci; trovati insieme... decapitati! Una settimana dopo, la vedova Winship... anch'essa decapitata.»
Mentre esprimeva le proprie ragioni, il signor Wonka girò intorno al reverendo Steenwyck, che era sul punto di strangolarlo; il cioccolatiere gli arrivava sotto l'ascella.
«Ora avrò bisogno di farvi molte domande, ma prima lasciate che vi chieda: qualcuno è sospettato?»
Il signor Van Tassel e i suoi amici si guardarono confusi, addirittura il magistrato Philipse stava per strozzarsi con il suo the corretto dall'alcol.
«Cosa vi hanno spiegato i vostri superiori, agente?» gli chiese il signor Van Tassel.
«Solo che i tre sono stati uccisi in piena campagna, le teste trovate separate dai loro corpi», rispose il cioccolatiere.
«Mmh, non sono state trovate separate... non sono state trovate affatto!» esclamò il reverendo Steenwyck.
«Le teste sono sp- sp-sparite?» biascicò il signor Wonka, cupo.
Ora il gioco prendeva un'altra piega, uscendo dagli schemi previsti.
«Prese!» esclamò il notaio Hardenbrook. «Prese dal cavaliere senza testa, riportate all'Inferno!»
«Perdonate, io... io non...»
«Forse è meglio che vi sediate», disse Baltus Van Tassel.
«Sì...», obbedì il cioccolatiere, sedendosi su una poltrona libera accanto al tavolo e servendosi una tazzina di the.
«Il cavaliere era un mercenario dell'Assia, inviato qui da una principessa tedesca per tenere gli americani sotto il giogo dell'Inghilterra. Ma a differenza dei suoi patrioti, che giunsero per danaro, il cavaliere giunse per l'amore della carneficina. Quando si attaccava battaglia lo trovavate lì. Cavalcava un gigantesco destriero di nome Temerario. Aveva la scelleratezza di spronare il cavallo in battaglia, mozzando teste al galoppo. Si era limato i denti fino a renderli appuntiti per aumentare la ferocia della sua apparizione.
«Questo macellaio trovò la sua fine nell'inverno del '79, non lontano da qui, nei boschi a Ovest.»
***
Il cavaliere fuggiva a tutta velocità, spronando il suo gigantesco destriero attraverso la neve fresca e i tronchi contorti della foresta. Il rumore degli zoccoli rimbombava come tamburi di guerra, ma all'improvviso un colpo secco squarciò l'aria gelida. La freccia colpì il destriero al fianco, e l'animale, con un grido di dolore, barcollò prima di crollare pesantemente a terra.
Il cavaliere rotolò nella neve, rialzandosi con un movimento fluido e disperato. Con il respiro affannoso che si condensava in nuvole bianche davanti al volto, si addentrò nel fitto del bosco, cercando un rifugio. I rami nudi e scheletrici si intrecciavano sopra di lui come artigli pronti a ghermirlo. I suoi passi affondavano nel manto nevoso, lasciando tracce profonde.
Improvvisamente, dietro un vecchio tronco contorto, scorse due ragazzine dai lunghi capelli biondi, che lo fissavano con occhi spalancati, pieni di terrore. Il cavaliere intimò loro di fare silenzio con in gesto della mano.
Una delle due bambine fece un passo indietro, mentre l'altra spezzò un ramoscello secco. Il suono eccheggiò come un colpo di frusta nella quiete del bosco.
Le guardie, che erano sulle sue tracce, si fermarono di colpo, avendo udito il rumore. Una grida di comando squarciò l'aria, e i soldati si fecero avanti.
Non ci fu alcuna possibilità di fuga. Il cavaliere estrasse la sua spada con un movimento rapido, la lama scintillante contro il pallido bagliore del sole. Lottò con una furia disperata, la sua figura imponente che sembrava un'ombra demoniaca contro i soldati in arrivo. Colpi veloci, fendenti precisi; il cavaliere ferì un uomo e costrinse un altro a indietreggiare, ma poi venne colpito al fianco da una lancia.
Un grido soffocato gli sfuggì dalle labbra, e cadde in ginocchio. Il suo respiro era pesante, quasi animalesco, mentre gli occhi febbricitanti scrutavano i volti dei suoi assalitori.
Una delle guardie si avvicinò lentamente, sguainando una spada lunga e lucente, e con un colpo netto la testa del cavaliere rotolò via, macchiando di rosso il candore della neve.
***
«Gli mozzarono la testa con la sua spada. Ancora oggi quello è un luogo infestato dagli spiriti, dove i coraggiosi non s'avventurano, perché quel giorno fu piantato nel terreno il seme del male. E così è stato per vent'anni. Ma ora si è risvegliato e nella furia della vendetta mozzerà teste dove le troverà», concluse il signor Van Tassel.
Il cioccolatiere tremò di terrore, facendo tamburellare la tazzina di the contro il piattino. «State dicendo... che è questo che voi credete?» chiese loro, mettendo via la tazzina.
«Vedere è appunto credere», rispose il notaio Hardenbrook.
Silenzio.
«Mi hanno detto che avete portato libri e apparecchiature per le indagini scientifiche... Questo è l'unico libro che vi raccomando di leggere», disse il reverendo Steenwyck, gettando sul tavolo, alle spalle del cioccolatiere, un tomo enorme dalla copertina scura e rigida.
«Albero genealogico dei Van Tassel», lesse egli sulla prima pagina. «Capisco! Reverendo Steenwyck, signori...», si alzò, recitando il suo copione seppur quello non sembrasse più un gioco. «L'omicidio non necessita di fantasmi sorti dalla tomba. Abbiamo omicidi a New York senza il beneficio di folletti e spiritelli...»
«Siete molto lontano da New York, agente», lo incalzò Baltus.
«L'assassino è un uomo in carne e ossa e io, di certo, lo scoverò.»
Non avendo altro da aggiungere, il cioccolatiere si congedò, il cigolio della porta che si chiudeva alle sue spalle sembrava spezzare il silenzio teso della stanza. Uscì nel corridoio fiocamente illuminato e si diresse verso la soffitta. La testa gli ribolliva di pensieri, un vortice di domande senza risposte. Ma per ora aveva in mente una sola cosa: chiarire con Theresa.
Quando aprì la porta della soffitta, la luce tremolante di una candela gettava ombre lunghe sui muri. Theresa era stesa al letto, avvolta nelle coperte come per proteggersi dal mondo. I suoi capelli cadevano disordinati sul cuscino, e il respiro lento tradiva un'attenzione vigile.
Il cioccolatiere rimase sulla soglia per qualche istante, incerto, il desiderio di parlare combattuto dal timore di dire le parole sbagliate. Alla fine, decise di lasciarla in pace.
Con movimenti lenti e silenziosi, si preparò per la notte. Posò la giacca sulla sedia accanto al piccolo scrittoio, poi si sfilò le scarpe. Quando finalmente si infilò sotto le coperte, il letto scricchiolò leggermente. Si avvicinò a Theresa e, con delicatezza, le cinse la vita con un braccio. Il suo corpo era rigido, ma non si ritrasse. Rimase in silenzio, la guancia appoggiata ai suoi capelli. Sapeva che era sveglia. Lo sentiva dal ritmo del suo respiro, troppo irregolare per essere quello di qualcuno che dorme.
Ma le parole non vennero. Ogni frase che formulava nella sua mente sembrava inadeguata, troppo fragile per colmare la distanza che sentiva tra loro. Mentre il sonno iniziava a scivolare lentamente su di lui, il peso del suo corpo rilassato contro di lei, una voce sottile, quasi spezzata, lo strappò al torpore.
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