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Capitolo 12

Scese, evitando di guardarla a lungo,

come si fa col sole, ma vedeva lei,

come si vede il sole, anche senza guardare.

//Anna Karenina

"Devi sistemare la cravatta in questo modo, figliolo" Papà mi annoda il nastro rosso al collo per poi abbottonarmi la camicia bianca. È la prima volta che metto uno smocking, come lo chiama papà, la camicia mi va un po lunga di maniche, ma viene nascosta dalla giacca nera.

Oggi è un giorno importante, mamma mi ha ripetuto queste parole più volte durante la settimana. È bello il fatto che mi consideri, in quest'ultimi anni si è allontanata tantissimo da me, si limita a guardarmi mentre mangiamo, oppure ad accompagnarmi in silenzio a scuola.

Prima di uscire dalla stanza, Papà mi porta davanti ad uno specchio a muro enorme. Mi godo, soave, della mia immagine allo specchio,vestito così sembro un bambino grande. I pantaloni mi stanno a pennello, così come la giacca e la cravatta. I miei occhi azzurri è come se brillassero davanti allo specchio, a contrasto con le lentigini sul viso.

Papà mi sistema dei ciuffi ribelli con del liquido bianco strano.

"Sai cosa vedo io?" mi chiede Papà indicando lo specchio.

Scuoto la testa confuso.

"Vedo un uomo, e un bambino, pronto a vivere" sorride nostalgico.

Poi Papà mi da una pacca sulla spalla e, mano per la mano, mi porta giù dalle familiari scale di casa mia.

Scendiamo lentamente gradino per gradino. La prima cosa che noto è la sala da pranzo addobbata per bene, con nastri argentei ovunque.

Mamma è sull'uscio delle scale. È bellissima. I suoi lunghi capelli castani sono raccolti in uno chignogn di quelli eleganti però, non di quelli con cui vengono le maestre alle elementari. Ha un vestito color argenteo, che ricade morbido sulle spalle.

I miei occhi si posano sul braccio della Mamma intrecciato a quello di Nate, provo una fitta di gelosia. I lucidi capelli biondi di Nate sono tirati indietro da qualcosa di viscido, la sua viscida faccia da ratto si tira in un sorriso.

"Ti è esploso qualcosa in faccia?" mi stuzzica Nate,non c'è momento in cui mi ricordi delle mie lentigini, come se lui fosse perfetto.

"Quando ti lanciavano da piccolo, ti riprendevano?" rispondo con tono deciso.

"Almeno a me lanciavano" sento una fitta al cuore, sa sempre toccare il mio nervo scoperto. Persino all'asilo trovava il modo di farmi sentire inadatto per i miei coetanei. Ha continuamente usato la mia debolezza in suo favore.

"Non rovinare tutto" mi sussurra fredda mia madre, avvicinandosi. Cerco uno sguardo di conforto in Papà ma fissa altrove, sconcertato abbasso la testa.

Il campanello suona, ma stranamente mia madre non corre immediatamente a rispondere.

Cece chiude gli occhi e inspira rumorosamente rima di dare un ultimo sguardo a mio padre, Patrick annuisce, complice. Papà si avvicina alla Mamma e le stampa un piccolo bacio sulla guancia. Le sussurra qualcosa nell'orecchio per poi tornare al suo posto.

Cece assume il suo sorriso idiomatico e si avvia nell'altra stanza.

Papà ha un aria così combattuta, sembra sul punto di esplodere. La sua carotide pulsa in una maniera incredibile, mi hanno spiegato che la pulsazione accellerata deriva anche dall'umore di una persona. Papà deve essere arrabbiato. Ma non era una giornata importante?

Nate si sta mordendo il labbro, mentre si tortura i polsi con le unghia. Cerco lo sguardo di mio padre. Papà mi guarda negli occhi e mi fa un sorriso stanco.

Sento i passi di mia madre avvicinarsi alla porta, seguiti da altri passi decisi. La porta del salone si apre e ne riemerge Cece seguita da due figure imponenti. Immediatamente rizzo la schiena e alzo il capo.

Sono due uomini sulla trentina all'incirca. Il primo ha una carnagione chiarissima, capelli neri e occhiali neri che nascondono le sue pupille. Indossa una lunga veste grigia, con il collo alto e una miriade di bottoni. Il secondo è la sua esatta fotocopia, solo che ha un aria più vissuta. Sul suo volto non ci sono tracce di rughe, ma è come se percepissi la sua età. È lui che comanda, fra i due.

I due uomini osservano l'ambiente intorno, squadrandoci da capo a piedi. Mi fanno paura.

"Come trovate la casa, monsignori?" esclama mia madre, drizzando la schiena.

Le labbra del secondo si muovono impercettibilmente: "Carina"

Mio padre fa un sorriso imbarazzato, poi stende il braccio destro per stringere la mano ai nostri ospiti. Ma vedendo che i due rimangono immobili, la ritira con le guance arrossate dalla vergogna.

"Bene andiamo al dunque? Chi è il minore?" la voce tonante del più giovane risuona nella sala.

Mio padre annuisce per spronarmi a rispondere.

"Io" esclamo, facendo un passo avanti verso i tizi, che sembrano appena usciti da un film di Matrix

"Interessante" il più vecchio piega la testa verso sinistra e mi squadra, mettendomi a disagio.

"Perchè non ci sediamo e beviamo un whisky?" suggerisce mio padre, con voce tonante.

"Noi non beviamo" sentenzia serio il primo, declinando la gentil offerta di mio padre. I due uomini spiegano che per quel genere di lavoro preferirebbero restare in piedi, per valutare meglio le offerte. Ma di che genere di offerte parlano?

"Parliamo di Nate" esclama mia madre, avvicinandosi al biondo, circondandogli le spalle con il braccio libero.

"Ha quasi 11 anni, e sa parlare già fluentemente cinque lingue,inglese, francese, tedesco, russo e italiano. Ha ottimi voti a scuola, ha padronanza in tiro con l'arco, lancio del giavellotto e tennis. Siamo molti fieri di lui" esclama radiosa. Abbasso la testa, più per la delusione che per l'invidia.

"Quando è nato?" esclama il più vecchio indicandomi. Vengo sorpreso dalla sua considerazione.

"Jared è nato il 5 luglio, Nate il 4 luglio, solo tre anni prima" risponde coincisa, i due uomini diventano impassibili, continuando a spostare lo sguardo da me e Nate.

Mi aggrappo al braccio di papà, i due uomini mi mettono una tale tensione addosso. Vorrei solo andare a letto abbracciato a mia madre, non sono sicuro che me lo permetterebbe.

"A qualcuno è gia comparso il marchio?" la voce tetra dell'uomo mi provoca un brivido sulla spina dorsale.

Marchio? Di cosa parla? Perchè non mi dicono mai nulla?

"Sono troppo giovani, Filubur" il tono di voce di mio padre è estramamente serio, stento a riconoscere l'uomo che giocava a baseball con me la domenica.

"Registreremo entrambi" esclama Filubur, gettando un ultimo sguardo a Nate.

"No" gli occhi di tutti i presenti si posano su mia madre, che sempre calma e controllata, lascia trapelare uno sguardo impaurito "Non è necessario registrare entrambi, Filibur. Il test su Jared è risultato negativo, non ha il gene"

"Possiamo parlarne nell'altra stanza?" ribatte mio padre, lanciandomi sguardi indiscreti.

Indisposto, li guardo entrare nella cucina, fino a che una porta non oscura il mio raggio visivo. Parole del quale non mai sentito parlare mi rimbombano nella testa, test, gene, negativo, registrare.

Mi hanno insegnato a non chiedere nulla, a non dire nulla, a non parlare quando non è necessario, ma nonostante ciò il mio subconscio mi ordina di accostarmi alla porta, ad origliare. So che è sbagliato ma la curiosità mi spinge a piazzare l'orecchio sul legno di betulla.

"Sentirai cose che non vuoi sentire" la voce di Nate risuona alle mie spalle. "Fossi in te preferirei restare al buio piuttosto che essere accecato dalla luce"

Accosto di più l'orecchio alla porta e scorgo la voce di mia madre.

"Jared non ha nessun pregio, è lento a leggere,a scrivere, a comprendere. Non serve che lo registriate, il test con lui è risultato negativo. Non ha nulla di speciale. Spesso mi vergogno ad andare in giro con lui per le strade, fissa tutto e tutti, senza alcun ritegno. Si fidi, Filibur. Non sarà di alcun aiuto a noi, sarà solo un peso"

" Avere lui, è stato uno dei miei ennesimi sbagli"

"Cece potrebbe sentirti, abbassa la voce"

"Che sentisse pure, conoscerebbe finalmente la verità"

Non ricordo in quale maniera, ma le mie gambe si muovono da sole, alimentate dal dolore, e dalla consapevolezza di essere indesiderato. Mi ritrovo con le spalle contro al muro, in un vicolo buio. Sento l'asflalto duro sotto le mie gianocchia, poi sul palmo delle mani e infine contro la guancia, ma purtroppo non perdo conoscienza. Le ondate di dolore, da cui prima sono stato appena sfiorato, ora si innalzano di fronte a me e mi si infrangono addosso.

"Hei amico. Vuoi giocare?" una voce flebile interrompe la mia discesa verso l'oblio. Mi volto verso la fonte del suono.

È un ragazzino, della mia età, all'incirca, indossa una maglietta verde ingiallita, e dei bermuda color cachi. Ha capelli corti, castani, un sorriso gentile, caldo.

"Si" esclamo con tono serio, è straordinario come io sia riuscito a passare da una crisi di pianto ad una risposta calma e decisa. Sto imparando a nascondere le mie emozioni, dovrò solo capire se sia un bene o un male.

"Mi chiamo Kyle" esclama il ragazzo porgendomi la mano, la stringo e mi sollevo dalla parete ruvida del vicolo. Il mio completo è tutto sgualcito,il fatto che questo provocherà irritazione nei confronti di mia madre, mi riempe di una gioia improvvisa.

"Giochi con quella?" dice scettico indicando la mia cravatta.

Scuoto la testa, e con mani tremolanti,sciolgo il nodo sul mio collo. L'osservo per qualche istante, nelle mie mani piccole. Per poi lasciarla cadere sull'asflalto grigio. In un remoto angolo del mio cuore, metto via anche la mia infanzia con questo gesto.




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