Il crisantemo reciso
Titolo: "Il crisantemo reciso"
Genere: Storie d'amore.
Autrice: laurachesilaurea
Un saluto per questa ennesima recensione.
Oggi ho l'onore di parlare di Il crisantemo reciso, una delicata storia d'amore che vede ancora solo i primi sette capitoli, prologo compreso. Sulla storia vera e propria potrò dire poco, ma qualcosa la trovo, tranquilli. Per ora partiamo con la copertina.
Beh, a primo impatto non dice tantissimo, per essere sincera, ma non è male. Nel suo piccolo è molto delicata, dolce. Leggendo poi la trama descritta sotto possiamo collegare il trucco di questo viso, con l'ombretto rosso e i capelli neri, al classico viso asiatico di una ragazza giapponese. Ricorda vagamente il trucco delle Geishe, dove veniva messo in evidenza gli occhi e la bocca rossa, colorando l'intera faccia totalmente di bianco.
La trama parla di questa giovane ragazza, Mia, che, di punto in bianco, decide di voler andare a fare la ragazza alla pari in Giappone. In poche e concentrate righe spiega che in questa avventura Mia cercherà di ritrovare sé stessa attraverso una realtà a volte dolce e delicata e altre volte estremamente crudele. Un po' come la cultura stessa del luogo in cui si trova.
È esauriente, a un primo impatto dà un veloce sguardo d'insieme di ciò che incontrerà il lettore, ed è quello che deve fare la trama, o quarta di copertina. A mio modesto parere è scritta molto bene.
Dai nomi presenti nel prologo capiamo che la scena si svolge avanti nella storia, un classico flashforward in cui si scopre il motivo che dà il titolo al libro e, forse, svela qualcosa di particolare sulla protagonista. Lo fa in modo velato, delicato, non ce lo spiattella sotto il naso e questo dà al lettore la possibilità di dare la sua personale soluzione e innescare il desiderio di verificare che sia quella giusta. Inoltre, è scritto in un italiano quasi perfetto, senza sbavatura. La cura che ci ha messo è evidente e mi piace parecchio.
Passiamo al primo capitolo: L'ennesimo capriccio di Mia. Anche qui, come nella recensione precedente, tra le prime righe, un bel quasi che mi fa inorridire.
"«Dimmi che stai scherzando, Mia...» proseguì con una voce che si era fatta quasi minacciosa."
Se era quasi minacciosa vuol dire che non era minacciosa. Quindi com'era? E se non era minacciosa perché inserire il termine minacciosa?
Il quasi in narrativa non dà assolutamente niente di concreto al lettore da immaginarsi o intendere, come dico io è il vuoto cosmico. Sempre meglio evitare di inserirlo.
La scena iniziale si ricollega in modo armonioso alla trama descritta prima. Mia, la protagonista, ha appena annunciato al suo gruppo di amici di avere intenzione di partire per il Giappone come ragazza alla pari. I suoi amici dapprima pensano che stia scherzando ma, una volta capito che non è così, la guardano increduli. Persino il suo fidanzato, Marco, ancora non crede che riuscirà a fare questo viaggio; conoscendola, non la vede una cosa fattibile.
Tutto molto bello finché non entra in scena l'amica Giulia che, indovinate un po', viene presentata con una voce fuori campo.
"[...]Nell'aria, ovattate, le voci allegre dei nostri amici stridevano contro di noi.
«Che sta succedendo qui?»
Il un attimo il tono acuto di Giulia squarciò quel silenzio che ci aveva avvolti come un guanto troppo stretto."
Anche se lo spiega subito dopo, nel momento in cui il lettore legge quella battuta di dialogo inconsciamente la assocerà a uno dei personaggi già presentati. Come il quasi, non dà modo al lettore di immaginare la scena nel giusto modo e, come in questo caso, assocerà quella voce a un personaggio errato. È un meccanismo automatico del cervello umano. Ora, qualcuno potrebbe farmi presente che il capitolo stesso esordisce con una voce fuori campo. È vero, ma c'è da considerare che ancora nessun personaggio è stato presentato, quindi il lettore non può attribuire quella voce a un personaggio sbagliato. A quale personaggio può attribuirla se non ha nessun personaggio con cui farlo? Mentre, a scena già avviata, una voce che arriva all'improvviso è automatico che il lettore la attribuisca a uno dei personaggi presenti. Non sarebbe più sensato introdurre prima il personaggio e poi la voce? Credetemi che l'effetto sorpresa si ottiene lo stesso. Anzi, meglio!
In questo capitolo l'autrice passa in media res dal presente a una scena che appartiene a un passato della protagonista di poche ore prima, ma se devo essere sincera questo salto temporale l'ho trovato piuttosto brusco. Un conto è dire "i miei amici hanno avuto la stessa reazione dei miei genitori" e un conto è, da questa frase, partire con la scena in cui Mia rende noto ai suoi genitori la sua intenzione di partire per il Giappone per poi tornare al presente senza un motivo, senza un punto fermo. Senza una frase o un'azione che la faccia tornare al qui e ora.
In questo modo non si capisce se la protagonista stia semplicemente rivivendo la scena coi suoi genitori in un momento di sovrappensiero, o piuttosto se non sia un escamotage dell'autrice per rendere noto al lettore la reazione dei genitori con la tecnica del narratore invadente, soprattutto quando la scena finisce e Mia torna al presente.
Se non sapete cosa sia il narratore invadente, in pratica è il narratore che inserisce delle nozioni, delle informazioni, che non appartengono al punto di vista. In pratica è lui stesso che lo fa. Vi sembra che un caso simile possa andare bene?
Il secondo capitolo, A metà, Mia si trova già in Giappone e la troviamo intenta a pulire e lucidare un pavimento del tempio in cui è finita a fare da babysitter.
E la sua partenza che fine ha fatto? Come l'hanno presa i suoi genitori alla fine la sua decisione? Come si è preparata per partire per un paese così diverso dal nostro?
Ci sono rimasta un po' male per non aver scoperto questi particolari, è come se alla storia manchi qualcosa.
Ad un certo punto la protagonista dice: "Fino a qualche settimana prima tendevo a perdermi, là dentro. Non era grande, soprattutto se lo si paragonava agli altri santuari della zona..." Mi viene spontaneo pensare che abbia visitato tutti, o la maggior parte, dei santuari della zona, altrimenti come fa a sapere che gli altri santuari erano più grandi? Però mi viene difficile pensare che al suo arrivo le abbiano fatto fare un giro turistico di tutti i santuari.
Sarebbe stato interessante vivere il suo arrivo in Giappone, scoprire assieme a lei il luogo in cui avrebbe vissuto, conoscere le sue reazioni alla sua nuova vita, o anche vedere come ha conosciuto la cassiera del supermercato, perché la descrive molto aperta e socievole ma i giapponesi, a regola, sono molto chiusi quando conoscono una persona nuova. Ma, come per la partenza, l'autrice ha deciso di non renderci partecipi di questa cosa. È davvero un gran peccato, perché sarebbe stata un'opportunità in più per aiutare il lettore a empatizzare con Mia.
Nel capitolo 5 cm al secondo, Mia ricorda di aver letto una frase sulla porta del bagno della scuola e l'amica Giulia osserva: "Che bella calligrafia."
Da notare però che il termine calligrafia è l'arte che insegna a scrivere in modo elegante. Per indicare la scrittura vera e propria, ovvero i segni che formano le parole scritte, si chiama solo grafia.
"Hai una bella grafia" è una frase corretta.
"Hai una bella calligrafia" non proprio.
Non è del tutto scorretta, perché ormai la parola calligrafia ha preso il sinonimo di grafia, ma a regola sarebbe una ripetizione perché già nella parola stessa esiste il termine bello, ovvero Calli, (Calòs). Magari nel parlato non ci si fa caso ma nello scritto potrebbero farvelo notare come errore. Meglio tagliare la testa al toro.
Non mi torna la frase: "Eppure qualcosa di impercettibile, piccolissima aveva squarciato l'aria." Ma cosa sarebbe questo qualcosa? Sembra una frase a metà, manca il soggetto della frase.
La protagonista, una volta in Giappone, prende l'abitudine di masticare di tanto in tanto degli orsacchiotti gommosi, caramelle che in Italia le era stato proibito di mangiare perché considerate cibo spazzatura. Però non sono sicura che in Giappone li vendano. So che in Giappone hanno tutta una serie di snack salati e dolci che in Italia e nel resto del mondo non vendono, tranne che per alcuni di loro. In realtà la dieta e lo stile dei giapponesi è completamente diversa dalla nostra, credo che risulterebbero strane certe caramelle. Se poi l'autrice sa per certo che là vi esistono allora chiedo scusa. Altrimenti potrebbe essere uno spunto per migliorare la storia.
Lungo la narrazione non sempre le virgole sono al loro posto nel modo giusto. Voglio fare due esempi per far capire all'autrice qual è il suo punto debole e poterlo correggere:
"All'agenzia me l'avevano detto, che la famiglia che mi avrebbe accolto era "speciale"."
Qui a virgola divide il soggetto dal predicato verbale... (senza contare il tempo verbale di "era speciale" invece che "sarebbe stata speciale".)
All'agenzia me l'avevano detto che la famiglia era speciale.
"Ci ero rimasta particolarmente male, per quei quattro fili fuori posto."
Ci ero rimasta male per quei quattro fili. Che senso ha la virgola?
Virgole a parte, c'è una frase in particolare che mi ha fatto accigliare:
"Era buffa e dannatamente, irrimediabilmente, sconvenientemente l'unica cosa che in quel momento ero in grado di provare."
Boh, sinceramente non ho capito che cosa sarebbe questa unica cosa che sarebbe in grado di provare. Ho paura che tutti questi avverbi in -mente distraggano dal senso della frase. Se si prova a toglierli cosa succede?
"Era buffa e l'unica cosa che in quel momento era in grado di provare."
Mm, no, ancora sembra che ci manchi un pezzo. Cosa sarebbe questa cosa?
Nel suo contesto questa frase appare subito dopo che l'autrice parla di una particolare tristezza, ma il fatto che vada a un nuovo capoverso per poi inserire questa frase la stacca dal suo soggetto, la tristezza, perciò perde il suo significato. Unita poi a tutti questi avverbi in -mente rendono la frase solo fuffa, allungano il brodo ma non danno niente di concreto da comprendere.
Isaak Babel, un grande autore russo, sosteneva che non metteva mai due aggettivi assieme. La regola che dovremmo seguire, infatti, recita che si deve usare un solo aggettivo per sostantivo. Due o più di due sono quel troppo che stroppia, non danno niente di concreto e preciso al lettore, ma solo indecisione e rendono vano anche l'uso di quell'aggettivo giusto.
Vediamo come potrebbe essere questa frase corretta e inserita senza troppa fuffa.
"Ci ero rimasta particolarmente male per quei quattro fili fuori posto. Ed era buffa e inopportuna quella tristezza impressa nel mio sguardo mentre, testarda come lo ero sempre stata...[...] Era buffa ma era l'unica cosa che in quel momento ero in grado di provare."
Potrebbe essere una versione migliorata. Ovviamente è solo un consiglio, non è detto che sia la migliore che può andare.
Sembra che all'autrice piaccia, ogni tanto, inserire termini in modo improprio. Per esempio, come fa un sorriso ad arricciare le labbra quando per sorridere si devono distendere?
Inoltre dovrebbe capire che esistono capoversi di battuta e capoversi descrittivi, che c'è una netta differenza tra loro e che due battute di dialogo di due personaggi diversi non dovrebbero stare in un unico capoverso.
Dovrebbe stare attenta anche ai vari quasi, disseminati qua e là, e anche alle varie voci che precedono il personaggio, come ho spiegato nell'esempio.
Oltre a questi errori più o meno gravi, la cosa che veramente mi ha fatto dispiacere è il suo modo di raccontare la storia. Ora mi spiego meglio:
L'autrice è molto brava a scrivere, riesce in maniera molto naturale a far trasmettere dalla protagonista i propri stati d'animo e il proprio modo di pensare. Il lettore si sente in parte coinvolto, se non fosse che, mentre è intento a leggere i pensieri e gli stati d'animo della protagonista, la storia avanza, le scene si susseguono e in pratica la storia prosegue senza venire mostrata. Alla fine di queste riflessioni della protagonista si ritrova in una scena totalmente diversa da quella iniziale e ha la sensazione che gli manchi un pezzo. È un'empatia a metà, perché non può venire coinvolto se le scene sono tagliate o del tutto saltate per fare spazio ai monologhi e ai pensieri della protagonista. In questo modo il lettore non può vivere la storia insieme a lei, ne è uno spettatore passivo e ne viene meno il coinvolgimento emotivo.
Fortunatamente siamo ancora ai primissimi capitoli e l'autrice ha tutto il tempo e l'agio possibile per approfondire il vissuto della protagonista e, se vuole far vivere al meglio la storia, inserire anche quelle scene che rendono la storia un'esperienza a metà. Dipende tutto da lei.
Un saluto e alla prossima!
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