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8. The person you love is the one who hurts you the most

(Vi anticipo, quello nell'immagine insieme a Cora non è Ash, bensì John. 🙂✋🏼)

— Toxic is when they can't let you go,
but can't treat you right either.



C O R A  H O L T
🌸

«Il nuovo proprietario non è affatto come speravo.» mormorai triste, rigirandomi un filo d'erba fra le dita. 

La mia positività mi aveva delusa. Avevo innondato la mente di pensieri ottimisti, immaginandomi il futuro proprietario come la figura più simile a quella di mio padre. Ma alla realizzazione che, invece, non si poteva trattare di persona più diversa, tutto ciò che mi rimase fu l'amaro in bocca.

«Probabilmente lo conosci. Ashton Kane, ti dice niente? Un metro e novanta di soli muscoli ed arroganza. Un uomo snervante e dispotico, cattivo ed intimidatorio. Se la descrizione non ti è familiare significa che da bambino aveva un cuore.»

Il vento fresco di quella mattina mi accarezzò il viso, provocandomi brividi piacevoli. Posai lo sguardo sulla lapide, prima di riuscire a formulare dell'altro.

«Ha licenziato tutte le infermiere, papà. Così, senza alcuna ragione apparente. Si è svegliato la mattina e ha pensato bene di rovinare ogni cosa, proseguendo ad un licenziamento di massa per cui l'ospedale dovrà pagare.»

Spezzai il filo d'erba, manifestando quella frustrazione.

Cosa gli era passato per la testa? Ero consapevole io come lo era anche lui che licenziare i dipendenti in quel modo, senza alcun preavviso, significava pagare un'indennità sostitutiva.

Non solo quindi doveva pagare ogni singolo dipendente per un lavoro che non stava svolgendo, ma aveva anche lasciato l'ospedale senza collaboratori.

Mi domandavo perché non avesse agito con più riguardo. Il dott. Collins lo aveva descritto come una persona posata, eppure cominciavo ad avere dei dubbi.

«So che lo conoscevi. So che conoscevi suo padre,» mormorai soprappensiero «Chi sono queste persone, papà? E perché l'ospedale è stato comprato proprio dal figlio di un tuo vecchio amico?»

Fissai l'iscrizione in acciaio in attesa di non sapevo bene neanche io cosa. Desideravo sentire la sua voce. Confidargli i miei problemi, sapendo di poter ricevere una sua risposta. Liberare ogni singola lacrima avessi controllato in quegli ultimi due anni.

Desideravo nascondermi fra le sue braccia un'ultima volta, bearmi del suo profumo dolce e non lasciarlo più andare. Lo desideravo da morire.

Il mio sguardo si perse nel marmo della lapide, quando all'improvviso dei passi riecheggiarono nella mia mente. Mi risollevai da terra e non appena mi voltai, due occhi azzurri incontrarono i miei, rendendomi ad una statuetta.

Sentii il vento soffiare più forte e le foglie a terra liberarsi in volo. L'uomo, che avrà avuto massimo trent'anni, non accennò a muoversi. Mi guardò in completo silenzio.

«Posso aiutarla?» domandai irrequieta.

Questo mi ignorò. Chinò solamente il viso, guardando qualcosa dietro di me all'altezza delle mie ginocchia.

«Jason Holt,» esordì qualche istante dopo «Era tuo padre?»

Strinsi gli occhi vigile. «Chi vuole saperlo?»

Lui tornò su di me, rivolgendomi un sorriso gentile prima di allungare la mano. «Giusto, perdona la maleducazione. Mi chiamo Alan Hale, non ci conosciamo, ma mio padre era un vecchio amico del tuo.»

Sentii il cuore alleggerirsi nel petto nello stesso istante in cui le nostre mani vennero a contatto. Il suo viso si era immediatamente illuminato, regalandomi quel sentore di serenità di cui avevo bisogno.

Tendevo a farmi prendere dall'ansia. Tendevo a temere la vicinanza di uno sconosciuto, soprattutto in luoghi infelici come quello in cui ci trovavamo.

«Cora,» mi presentai di rimando «Triste luogo per fare conoscenza.»

Questo rise, passandosi una mano fra i morbidi capelli castano scuro. «Sappiamo di avere qualcosa in comune almeno.»

Il mio sorriso si affievolì fino a sparire completamente, quando questo proseguì: «Ho perso mio padre due anni fa.»

Le palpebre persero un battito e cercai le parole giuste da dire, consapevole del fatto che, proveniente dalla bocca di una sconosciuta, nessuna parola avrebbe significato molto. Lo sapevo per esperienza.

«Neanche io so mai cosa dire,» esalò ancora liberandomi di un peso «Nessuna parola è in grado di attenuare questo dolore, non è così?»

Annuii tristemente e Alan si mosse, avvicinandosi alla tomba di mio padre. Lo osservai piegarsi sulle ginocchia e strappare una margherita dal suolo, posandola a terra accanto alla lapide.

«Dicono che farà meno male.» soffiò pensieroso.

Lo guardai dall'alto della mia posizione. «Non è così.»

«Perché mentono?»

«Perché hai perso qualcuno e non sanno come consolarti.» pronunciai, attirando la sua attenzione.

Alan mi guardò e lo fece con intensità, senza dire una parola. Passammo i secondi successivi così, finché non si decise a rimettersi in piedi.

Non sapevo cosa fosse, ma qualcosa in quest'uomo mi consigliava di abbassare la guardia. Come fossi fuori da ogni pericolo da un momento all'altro. Era bastato un sorriso e una stretta di mano ad annientare l'ansia che si era accumulata. Due chiacchiere e sentivo di conoscerlo.

«Non volevo spaventarti prima,» Alan si strinse nelle spalle «Volevo solo scambiare due parole e, sai com'è, solitamente non si incontrano persone molto socievoli da queste parti.»

«Oh, lo so bene.»

Lui mi sorrise, muovendosi sul posto, come scosso da della agitazione. «Mi piacerebbe rivederti, Cora.»

Rimasi in silenzio, quando capii avrebbe voluto aggiungere dell'altro. «Pensi ti possa chiedere il numero?»

Non ero abituata a quel tipo di interazioni. Non all'interesse di quel tipo, all'apparenza innocuo e spontaneo.

«Non ho un telefono,» gli feci sapere «E sono fidanzata.»

Questo sgranò gli occhi dello stesso colore del cielo.
«Non hai un telefono?»

Scossi il capo in senso di diniego, incapace di mascherare l'imbarazzo. «L'ho perso.»

«L'hai perso? Sul serio?»

Inspirai profondamente, sputando la risposta in un solo getto d'aria. «Si beh, ero ubriaca, ok? È successo e basta.»

Alan esplose, lasciandosi andare ad una risata fragorosa. Una di quelle contagiose, capaci di strapparti un sorriso senza farlo apposta.

«Sei quel tipo di ragazza, insomma. Non l'avrei mai detto.»

M'imbronciai, incapace di cogliere il messaggio. «Che vuol dire, scusa? Che tipo di ragazza sarei?»

Alan si protese, aggrappandosi al mio braccio per cercare di trattenere le risate e quando con un gesto, questo mi spostò leggermente, fu troppo tardi.
John era ad un passo da me.

Non feci in tempo a metabolizzare la sua presenza che la sua mano afferrò quella di Alan, liberandomi dalla presa.

«Chi cazzo sei?» domandò andandogli in faccia.

La serenità si disintegrò e l'agitazione mi sormontò il petto ad una velocità inspiegabile.

Alan smise di ridere, liberandosi del faccino da bravo ragazzo per tentare di sovrastarlo con la sua alta statura. John però era molto più robusto e decisamente più intimidatorio.

Riuscii a leggergli la paura negli occhi, ma nonostante questo, Alan non mosse un solo muscolo. Sorresse il contatto visivo.

«Che cazzo guardi? Sto parlando con te!» sbraitò John, spintonandolo.

Sentii molteplici campanelli d'allarme frastornarmi tutti in una volta, quando le mie gambe si mossero da sole. Strinsi un braccio a John, invitandolo ad indietreggiare. «John, ti prego.»

«Non so cosa credi di aver visto, ma ti stai sbagliando. Mi ha detto chiaramente di avere un fidanzato.» spiegò Alan, tentando il dialogo.

Sentii i muscoli del braccio ingrossarsi di colpo sotto alle dita. «A maggior ragione. Che cazzo ci fai ancora qui?»

Alan lo guardò disgustato. «Tu non stai bene, amico.»

Cinque parole. Diciotto lettere.
E John sembrò non vederci più.

Il braccio scivolò via dalla mia presa e in men che non si dica, il mio ragazzo gli si fiondò addosso.

«Fermo! Che stai facendo?» tentai di recuperarlo, ma i pugni che avevano iniziato a sferrarsi mi costrinsero ad indietreggiare.

Alan, che inizialmente si trovava in svantaggio, recuperò all'istante grazie ad una ginocchiata in pieno stomaco, che costrinse John ad allontanarsi una volta attutito il colpo.

Approfittai così di quel secondo per intromettermi fra i due. «Ehi! Smettetela!»

Spintonai Alan via, per poi concentrarmi completamente su John.
«Andiamocene, ti prego. John, andiamo via.»

Questo, dapprima voglioso di riprendere la rissa, cercò il viso di Alan, incapace di trattenere la rabbia. Quando poi cominciai a spingerlo via però, John si arrese e si lasciò trascinare.

Riservai uno sguardo di scuse ad Alan che, nel mentre, si stava ripulendo la bocca dal sangue.

«Basta spingere, ho capito!,» disse lui, scacciandomi con uno strattone «Raggiungiamo l'auto.»

M'immobilizzai all'istante e, come neve d'inverno, sentii il sangue gelare nelle vene. I pensieri misero in subbuglio ogni cosa, accrescendo una paura che non avevo mai provato prima.

«Forse è meglio s-»

«Tu sali in auto con me, Cora! E ti conviene farlo in silenzio.» mi bloccò subito, riservandomi un'occhiata furibonda.

Strinsi le labbra, tentando di calmare il battito del mio cuore e quel persistente sentore di pericolo che mi stava attanagliando il petto.

John era il mio fidanzato.
John. Era. Il. Mio. Fidanzato.

Lo ripetei come avessi paura di averlo dimenticato. Lo ripetei come avessi bisogno di certezze, come temessi in qualche modo che quel John, lo stesso con cui avevo avuto a che fare negli ultimi due anni, mi avrebbe fatto del male.

Mi accomodai nel sedile accanto a quello del guidatore e puntai lo sguardo sul vetro che dava sulla strada, troppo a disagio per anche solo guardare nella sua direzione.

Stava andando tutto così male che non riuscivo neanche più a giustificare il malessere che provavo quando lo avevo vicino. Non riuscivo più a fingere di non vederlo, non riuscivo più ad immaginarlo come era una volta.

Il batticuore era reale, lo sentivo sotto la pelle, in ogni centimetro del corpo e non accennava a smettere.

«Era lui? Lo stesso uomo di quella sera?»

Mi ci volle un po' per capire di chi si stesse riferendo e quell'istante insignificante sembrò infastidirlo, al punto che intravidi la mano sollevarsi e battere violentemente contro al volante. Il gran tonfo rimbalzò fra le pareti dell'auto, facendomi sobbalzare.

«John!» gridai sconcertata.

«Era lui?» ripetè piano, ignorandomi completamente.

Sentii il fastidio avvolgermi come una coperta di spine. Non dovevo mostrarmi spaventata. Puntai le iridi grigie nelle sue nocciola, prima di rispondere: «No, non era lui.»

Lui rise sprezzante. «Un'altro ancora, Cora? Sul serio?»

Scossi il viso incapace di mascherare la ferita che mi aveva provocato quell'uscita. Non riuscivo a credere alle mie orecchie.

«Voglio andare a casa,» mormorai fra me e me «Io... voglio andare a casa.»

Le mie dita cercarono la maniglia, ma non appena la sfiorai, una mano si aggrappò alla mia coscia, immobilizzandomi sul sedile.

I miei occhi scattarono. Il mio cuore saltò in gola.
«Che stai facendo?»

John mi accarezzò la gamba fasciata dai jeans ed io sentii l'ansia invadermi i sensi.

«Resta, stiamo solo parlando. Ti ci accompagno io al lavoro.»

«È la seconda volta che cerchi di farmi passare per quella che non sono. È tutto chiaro, non c'è niente di cui parlare.»

Feci per scacciarlo e tentare nuovamente la fuga, ma questo non sembrò d'accordo. Le sue dita affondarono nel tessuto e la presa sulla coscia divenne dolorosa.

Sentii il respiro mancare, del movimento e poi la mano libera afferrarmi il mento, costringendomi a voltarmi per guardarlo.

«Ti ho chiesto di restare, Cora. Non ho intenzione di farti del male, voglio solo una spiegazione.»

«Mollami allora.»

John scosse il viso. «No, tenterai di scappare.»

Le palpebre tremarono e un sorriso d'incredulità mi riempì il volto. «E non ti sembra già abbastanza assurdo così? Non ti sembra assurdo che io voglia scappare da te?»

«Certo che mi sembra assurdo, Cora,» marcò, sporgendosi perché il suo viso sfiorasse il mio «Ma proprio non lo capisco.»

Incollai lo sguardo al suo. Passai a rassegna un'iride e poi l'altra. Una e poi l'altra. Più e più volte, ricercando degli occhi di cui sentivo una mancanza fuori dal normale.

«Che ti è successo, John?» soffiai sul suo viso, posando una mano sulla sua perché smettesse di stringermi in quel modo.

Poteva stare tranquillo. Non sarei andata da nessuna parte in ogni caso.

«Che vuoi dire?»

«C'è qualcosa che non so?,» domandai, speranzosa di riuscire a estorcergli una qualsiasi informazione «Qualcosa di cui non hai voluto parlarmi? È successo forse qualcosa di grave?»

«No, Cora. Mi spieghi come siamo passati a parlare di me?,» sbottò seccato, liberandomi da ogni prigionia «Dovrei farle io certe domande a te.»

Inspirai rassegnata, lasciandomi andare contro al sedile dell'auto. Era tutto inutile e se desideravo uscire da quella situazione dovevo cominciare a parlare.

«Non lo conoscevo prima. Ha detto di chiamarsi Alan e, come me, si trovava lì per il padre. Abbiamo avuto modo di scoprire che i nostri genitori erano amici e questo è tutto. Non avresti mai dovuto aggredirlo in quel modo.»

Scorsi con la coda dell'occhio il suo corpo rilassarsi immediatamente, rivolgendo il capo verso la strada.

«Vedi, è stato forse difficile?»

Sbattei le palpebre perplessa, ignorando l'accensione del motore e la successiva immissione in strada. E quando l'allarme della cintura di sicurezza riempì l'auto, ignorai anche quella.

«È tutto ciò che hai da dire?» domandai, chiaramente infastidita.

«Allacciati la cintura.»

Mi voltai a guardarlo e il fastidio prese a bruciarmi sotto la lingua, vogliosa di dar inizio all'ennesima litigata.

«Ma mi ascolti quando parlo?»
«Si, Cora. Tu non senti l'allarme, invece?»

E a quell'uscita, mi arresi anche all'idea di dar inizio all'ennesima discussione. Mi limitai ad incrociare le braccia al petto, e come risposta agli innumerevoli sguardi che mi rivolse, ignorai la sua richiesta di allacciare la cintura.

Puntai lo sguardo fuori dal finestrino. Si sarebbe sorbito quel suono fastidioso fino all'arrivo in ospedale.

Passarono all'incirca dieci minuti e, una volta parcheggiato, mi fiondai immediatamente fuori dall'auto.

«Cora, aspetta!»

Lo ignorai, quasi corsi per raggiungere l'ingresso, quando una mano mi afferrò il polso, di nuovo.

«Vuoi proprio farmi incazzare stamattina?,» sbraitò, facendomi voltare. «Perché diamine stai correndo?»

I nostri sguardi s'incontrarono per l'ennesima volta e la voragine nel petto si allargò. Com'era possibile non riconoscere il proprio fidanzato?

«Proprio non riesci a capirlo, vero?,» sottolineai con la voce la mia frustrazione «Ti prego, lascia perdere.»

Non feci in tempo a muovere un solo passo, che la presa si fece più potente e in men che non si dica, il mio corpo scontrò il suo.

Mi ghiacciai completamente e quando il suo viso si accostò al mio, le labbra sfiorarono il mio orecchio.

«Viste le tue ultime azioni, sono stato fin troppo gentile con te. Non approfittarne, Cora. Prova a disobbedirmi ancora o a scappare come hai tentato di fare oggi e ti farò passare la voglia di anche solo rivolgere la parola ad un uomo,» fece una pausa, il suo respiro caldo mi accarezzò il lobo. «Tu sei mia. Lo sei da sempre e non permetterò a nessuno di cambiare questa cosa. Mi hai capito, amore?»

Rimasi in silenzio, gli occhi sgranati a fissare un punto imprecisato dell'ambiente che ci circondava.

«Di' che hai capito.»

I pensieri presero a viaggiare talmente lontano che non riuscii neanche a comprendere a pieno la sua richiesta. Mi ci volle qualche istante per metabolizzare e quell'attesa lo infastidì ancora una volta.

La presa aumentò. Le unghie s'infilarono nella carne, agitandomi nel mio stesso corpo. Sopportai il dolore, mordendo l'interno guancia per resistere al bisogno di gridare.

«Dillo!» alzò la voce.

«Sig. Sanders.»

Due parole e la presa allentò all'istante. John mi cinse un fianco ed, il secondo successivo, due occhi dello stesso colore della nocciola si tuffarono nei miei.

Mi sentii destabilizzata. La quantità di cose che stavano accadendo mi ridusse a un corpo vuoto e nient'altro.

«Sig. Kane,» lo salutò di rimando John, fingendo un'aria rilassata. «Tutto bene?»

Questo lo ignorò completamente.

«Si presenti alla sig.na Kim, le saprà dire nel dettaglio orario e mansioni.» ordinò il sig. Kane, senza mai staccarmi gli occhi di dosso.

John s'irrigidì, notando quello scambio di sguardi.
«Mi lasci solo prima-»

«Vada, sig. Sanders. Non giochi con la mia pazienza.»

Il tono di voce parlava chiaro, non ammetteva obiezioni. I suoi occhi abbandonarono i miei, ma fu per un istante soltanto, il tempo di fulminare John che, nel frattempo, non aveva ancora mosso un muscolo.

«D'accordo,» concluse infine «Continueremo più tardi.» aggiunse a bassa voce, prima di liberarmi da quella prigionia e avviarsi verso l'interno dell'ospedale.

Sentii immediatamente il cuore alleggerirsi nel petto. E fu così che notai quanto il mio cuore battesse all'impazzata. Di quanta tensione avessi accumulato in quel breve lasso di tempo.

«Spero di non dover mai più assistere a una scena del genere. Tenga i suoi problemi personali lontano dal posto di lavoro, sig.na Holt.»

Non feci in tempo a sollevare il viso che un'ondata di profumo mi travolse, consigliando dello spostamento. Il sig. Kane, vestito del suo elegante completo nero, proseguì verso l'ingresso dell'ospedale per sparirvi all'interno poco dopo, lasciandomi lì, immobile di fronte ad una scalinata che avevo percorso un'infinità di volte.

Rimasi sola e, per quanto godessi della compagnia altrui, in quel momento ero felice di poter beneficiare di quell'attimo di tranquillità.

Sollevai un braccio, osservandomi il polso che più volte mi era stato afferrato quella mattina e non potei ignorare la tristezza che incombé su di me.

Eravamo davvero arrivati a questo?





Quarto piano. Stanza 136. Mi ci infilai con talmente tanta fretta che sarà sembrato qualcuno mi stesse inseguendo. E lo sguardo che El mi riservò ne fu la prova.

«Da chi stai scappando?»

Era ora di far sì che sembrasse andare tutto bene. Non doveva percepire alcuna traccia di malessere. El non meritava di preoccuparsi per me.

Le rivolsi un sorriso, andandole in contro.
«Ero solo impaziente di vederti.»

La giovane mora assottigliò lo sguardo, scrutandomi come volesse estorcermi qualche informazione a me sconosciuta.

«Il sig. Kane non c'entra, quindi?»

Mi trattenni dal bloccarmi nel mezzo della stanza. Attesi di potermi accomodare al suo fianco per rispondere alla domanda. El era una curiosona e così facendo, le regalai un'attesa, ai suoi occhi, infinita.

Afferrai i manici della poltrona in pelle su cui sedevo ogni volta che la venivo a trovare. Mi assicurai di prendere posto il più lentamente possibile, desiderosa di prenderla in giro.

E soltanto una volta posato il culo, i nostri occhi si incrociarono.

«Sei tremenda,» esalò infine. «Mi rispondi?»

Trattenni una risata, sporgendomi per esserle ancora più vicina. «No, El, non c'entra. Sarà anche un uomo intimidatorio, ma non mi fa paura.»

E come richiamati dalla conversazione, le sue iridi scure pullularono fra i ricordi. Due occhi mandorla talmente affilati da provocarmi un brivido. Col senno di poi, ero quasi tentata a riformulare la mia risposta.

«Davvero? A me si. Sembra una persona terrificante.»

«Dici per i suoi approcci un po'... drastici?»

Fece sì con la testa. «Ho saputo del licenziamento di massa. Perché l'ha fatto? Alcuni di loro lavorano per quest'ospedale da una vita.»

Sbattei le palpebre, tentando di racimolare quelle poche informazioni di cui mi era concesso venire a conoscenza.

In ogni caso erano cose che non la riguardavano. La sua unica preoccupazione doveva essere la sua salute.

«Il sig. Kane sa il fatto suo, non è alle prime armi. Ho avuto modo di capire che qualsiasi sua azione ha un senso, ma per ora sembra ancora essere intenzionato a tenersele per sé e noi dobbiamo rispettarlo.»

El abbassò lo sguardo sulle lenzuola, immacolatamente bianche, che ricoprivano il suo lettino. Proseguì poi a passarvi sopra la mano soprappensiero, annullando le pieghe del tessuto.

La guardai riflettere sul da dire e non potei che essere contenta di essere riuscita a venire a trovarla. L'ultima volta, non vederla, era stato più difficile del previsto. Più difficile per me che per lei. Era come avessi bisogno di una bella dose di El per affrontare al meglio le mie giornate.

Sollevò il viso e due occhi castani riempirono tutto il mio campo visivo. Era di una bellezza sconcertante, sprecata per queste quattro mura. Aveva due pupille talmente grandi che a stento riuscivi a scorgere il colore delle iridi. Un naso piccolo e dritto. Delle labbra carnose spesso troppo pallide, ma capaci di regalare dei sorrisi mozzafiato.  

Era un peccato il mondo non potesse conoscerla. El sarebbe stata in grado di migliorarlo, ne ero sicura.

«Ho fatto una cosa,» mormorò lei, riportandomi nel presente. El si voltò verso sinistra, nel lato opposto al mio, prima di aprire il cassetto del piccolo comodino e estrarne un foglio. «Devo migliorare ancora, ma penso sia venuto bene.»

Sentii la curiosità aumentare secondo per secondo, finché non me lo porse liberandomi da ogni cosa quesito.

Non feci in tempo a realizzare ciò che stavo ammirando, che le mie labbra si spalancarono. Ero sinceramente stupita.

I miei occhi scivolarono sulla precisione del tratto, sulla dolce sfumatura che risaltava perfettamente il disegno in bianco e nero. Si trattava del primo piano di un volto femminile. Un volto molto simile al mio.

«Non c'è mai molto da fare qui dentro,» parlò lei, infilandosi nei miei pensieri «Ho chiesto a John delle tue foto, io non ne avevo neanche una, e questa era l'unica in cui sorridevi.»

Mi focalizzai sulle labbra incurvate all'insù e non potei che sorridere. «È meraviglioso, davvero. Sei stata bravissima.»

Sollevai lo sguardo per mostrarle quanto quel gesto mi avesse migliorato la giornata e lei sembrò percepirlo, quando ricambiò con uno dei suoi sorrisi più belli.

«Ti dispiace se questo lo tengo io? Mi piacerebbe appenderlo. Posso fartene un'altro, se vuoi.»

Annuii subito. «Certo che sì, puoi tenerlo. Che ne dici se questa volta disegnassi entrambe? Ho giusto un pò di polaroid, potresti fare pratica. E così anche io potrò appenderne uno nella mia camera.»

El sembrò da subito molto contenta della proposta. «Sì! Potrei anche farne di colorati. Devo prenderci un po' la mano, ma col tempo sono sicura che migliorerò.»

Sollevai una mano perché potesse battere il cinque e lei mi assecondò subito, facendo scontrare i nostri palmi.
«Questo è lo spirito giusto, poi un giorno mi insegnerai.»

Buttai un occhio sull'orologio appeso nel muro opposto a quello dove poggiava il lettino e quando mi accorsi dell'orario, capii che era giunta l'ora di salutarla.

Tornai a guardarla, stava riponendo il disegno all'interno del comodino. «Ti devo salutare.»

«Come? Di già?»

«I pazienti non guariscono da soli, sai? Sopratutto quelli viziatelli come te.»

El mi fece la linguaccia, fingendosi impermalosita. «Lo capisco.»

Mi alzai, sporgendomi per lasciarle un bacio sulla fronte.
«Lo so,» la guardai dritto negli occhi «Fai la brava mi raccomando. Ascolta i dottori. Ascolta Maya e mangia tutte le porzioni che ti vengono date. Capito?»

Lei annuì e così ci salutammo.
Amavo andare a trovarla. Odiavo, invece, sapere di non poter restare più di quanto avrei potuto.

Camminai per i corridoi poco affollati di quella prima mattinata.

Svoltai l'angolo quando, per poco, non finii contro a qualcuno. La dolce coreana riuscì ad evitare lo scontro giusto in tempo.

«Ho preso un colpo.» esalai con una mano sul petto.

Sena parve confusa. «Sono così brutta?»

«Ah-ah,» scherzai «Da dove arrivi?»

Sena indicò l'ufficio del proprietario, il sig. Kane, a qualche metro da noi.
«Abbiamo selezionato i nuovi infermieri. È stato facile, il sig. Kane ha delle conoscenze un po' dappertutto.»

«Bene dai. Sono un po' di fretta, hai voglia di accompagnarmi? Sto andando al quarto piano.» domandai.

Sena annuì, affiancandomi.

«Dimenticavo, Maya ti ha invitata al suo compleanno,» annunciò prima di continuare: «Mi ha chiesto di parlartene. Ha detto che le farebbe piacere se ci andassi.»

Ci riflettei un attimo. «Tu che farai?»

Sena fece spallucce, segno che non doveva importarle più di tanto, e la frase a venire confermò la mia ipotesi. «Mi fingerò malata.»

Strabuzzai gli occhi, prima di scoppiare a ridere.
«Sul serio?»

«Conosci Maya... che tipo di festa credi organizzerà? Sicuramente nulla alla mia portata. Come minimo si tratterà di una discoteca.»

Respirai profondamente, consapevole del fatto che aveva ragione. Maya era esattamente il tipo di persona da organizzare la propria festa di compleanno in una discoteca. Amava la musica, amava ballare e amava essere al centro dell'attenzione.

«L'anno scorso eri rimasta ad aiutarmi. Se non riuscirò a farti cambiare idea allora non ci andrò neanch'io. Potremmo, non so, fare qualcosa solo noi due. Una cena, magari? Che ne dici?»

Sena sembrò colpita. Socchiuse la labbra per parlare, ma non lo fece, rimase in silenzio per qualche istante prima di formulare un'unica parola: «Certo.»

Le rivolsi un'occhiata veloce e, in men che non si dica, qualcosa venne violentemente a contatto con la mia spalla. Rischiai di sbattere contro Sena, quando questa mi strinse un braccio per evitarmi un ulteriore scontro.

«Ops. Che sbadata, non l'ho proprio vista.»

Quella voce. Mi era bastata una conversazione di dieci minuti per imprimerla nella mente e segnarla nella mia personale black list.
Sarah Kimberly. Maleducate del genere non le si potevano dimenticare tanto facilmente.

Mi voltai per fronteggiarla, sicura l'avesse fatto apposta. Non solo il corridoio era grande abbastanza da contenere tre persone nella stessa linea, in più la violenza di quella spallata parlava da sè.

«Non ci vede forse?»

La donna, dai corti capelli castani, simulò un'espressione triste che non ci azzeccava niente.
«Di che parla? È stato un incidente. Non c'era spazio.»

La squadrai con forte disprezzo. Indossava una camicia di seta beige e un tubino nera. Ai piedi gli stessi tacchi dell'ultima volta. Più la guardavo e più sentivo il nervoso pizzicarmi i palmi delle mani.

«C'è talmente tanto spazio che se anche pesasse cinquanta chili in più sarebbe passata.»

Questa strabuzzò gli occhi. «Fortunatamente non li peso.»

Mi prendeva per il culo? «Qual è il suo problema?»

«Era in mezzo. Dovevo passare e sono passata. Qual è il suo di problema?»

Il mio?

«Basta così. Cora, andiamocene.» Sena tentò di trascinarmi via, facendo pressione con una mano sulla mia schiena, ma io non volevo andarmene. Non ancora.

Avevo una pazienza ferrea, mi ritenevo una persona tranquilla, una di quelle capaci di tenere i nervi saldi, ma a volte anch'io sbagliavo, a volte anch'io volevo di più.

«Lei è il mio problema! Le conviene restare coi piedi per terra. Gliel'ho già detto, ma evidentemente è lenta di comprendonio, perciò glielo ripeto. Il suo titolo in queste mura non la rende superiore a nessuno. La veda di smetterla con queste bambinate e si concentri piuttosto sullo studio del materiale dei suoi futuri pazienti.»

Ero buona, non stupida. Avevo passato anni della mia vita a svolgere quel lavoro, non avrei permesso a nessuno di mancarmi di rispetto in quel modo. Sicuramente non alla nuova arrivata.

Questa sembrò da subito furiosa. Riuscii a scorgere il fumo fuoriuscirle dalle orecchie, quando con passo deciso mi si avvicinò.

Sena infilò le braccia fra le due. «La smettiamo? Se il sig. Kane dovesse venire a sapere di questa situazione, state pur certe che licenzierà tutte e tre.»

«Lei deve imparare le buone maniere cara la mia Cora. Le rode talmente tanto che gioca sulla difensiva.»

Serrai la mascella, assicurandomi che i nostri visi finissero l'uno di fronte all'altro. Era più alta di me a causa del tacco, ma questo non m'intimidiva affatto.

«Se crede quella fosse difensiva, cosa crede che farò quando passerò all'attacco?» sibilai talmente fredda che giurai aver visto Sena irrigidirsi al mio fianco.

«Non vedo l'ora di scoprirlo,» sussurrò lei, sollevando una mano e avvicinandola al mio viso. Le afferrai il polso prima che potesse toccarmi. «Spiega questo ora, mia cara.»

Non feci in tempo a capire cosa intendesse dire che un urlo riempì il corridoio, destabilizzandomi completamente.

Sarah si esibì in un grido dopo l'altro, stringendosi una mano attorno al polso, esattamente dove due secondi fa vi era posata la mia mano. Cominciò a piagnucolare senza più smettere.

Rivolsi uno sguardo confuso a Sena, ma questa guardava qualcosa alle mie spalle, con una espressione che sembrava aver capito qualcosa di a me ancora ignoto.

Feci quindi per voltarmi e seguire la direzione del suo sguardo, ma fu inutile, perché una figura nera mi passò davanti, immobilizzandomi non appena quel profumo mi innondò le narici.

Il sig. Kane si era appena avvicinato a Sarah, intento a capire, nella confusione delle sue urla, cosa fosse successo.

La realizzazione colpì rapida. Sentii la mia mente estraniarsi completamente mentre vedevo le labbra muoversi, pronunciare parole che non udivo, e poi, il suo viso incontrare il mio.

Sarah Kimberly stava fingendo una violenza che non le avevo inflitto, eppure, il sig. Kane guardava me e mi guardava arrabbiato.

Pazzesco.





Fofinhas🦭

Sono le 4 del mattino e io ho appena finito di scrivere il capitolo, così da riuscire a portarvelo per tempo. 🙂‍↕️🙇🏻‍♀️

Sarò sincera, non sono soddisfatta. Ho sicuramente scritto capitoli migliori, ma mi rendo conto che a causa di questo in particolare, sono, in primo luogo, entrata in blocco (la scena in macchina con John, mi ha letteralmente perseguitata per intere settimane👺), in secondo luogo, è capitato in un periodo piuttosto pieno e di conseguenza questo è il mio massimo. Spero lo abbiate comunque apprezzato.🙏🏽

Questo capitolo, tra l'altro, è stato pressoché un disastro, dall'inizio alla fine. John e Sarah vogliono botte, 🥊  ma io non vedo l'ora di farvi scoprire cosa succederà con Ashton nel prossimo capitolo. 👀

Vi aspetto su ig per commentare insieme il capitolo.🖤

Stellina se vi è piaciuto.⭐️

Io vi saluto fofinhas!
Ci vediamo al prossimo aggiornamento.🫂
Grazie mille di seguire WYA♟️

IG: @karinastrs
Tiktok: @karinastrs

Take care of urself, please.🦋✨
Karina🖤

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