3. Freedom. You only appreciate it when they deprive you of it
— She wasn't fragile like a flower,
she was fragile like a bomb.
C O R A H O L T
🌸
Il mal di testa fu il primo a darmi il buongiorno ed a seguire i migliori amici, sensibilità alla luce e nausea, lo raggiunsero. Non avevo ancora aperto occhio e già mi sentivo troppo stanca per affrontare quella giornata.
Tastai la superficie del comodino alla mia sinistra ma del mio cellulare non vi era alcuna traccia, col senno di poi realizzai di trovarmi sotto le coperte della mia camera e la domanda sorse spontanea.
Come diavolo ci ero finita lì?
Non potevo credere di essermi davvero ubriacata di mercoledì sera. L'idea non era esattamente quella quando varcai la soglia del bar la notte precedente, eppure andò a finire così e come sempre, non ricordavo un accidente.
Feci per alzarmi ma la testa girò come un hula hoop, rimandandomi k.o.
Strizzai gli occhi pronta a riprovarci e pregando essere quella, la volta buona, poggiai i piedi sul parquet resistendo alla voglia di tornare a letto e spacciarmi per malata.
Mettermi in piedi e sforzare la bellezza di 172 muscoli per muovere un passo era davvero chiedere troppo ad una persona che a differenza di qualsiasi altro essere umano, aveva bisogno di più delle normali 7 ore perché l'organismo ne smaltisse la sbornia.
Raggiunsi il bagno a piccoli passi rischiando di inciampare uno sì ed uno no ed una volta dentro mi sciacquai il viso bevendo un gran sorso d'acqua.
Alzai il viso e riflesso allo specchio, un pezzo di stoffa attirò la mia attenzione. Me ne accorsi soltanto allora, portavo una fasciatura alla mano sinistra.
Corrugai la fronte e nel patetico tentativo di ricordare cosa fosse successo gli ingranaggi del mio cervello esplosero metallici.
Nella mia testa vigeva il vuoto siderale largo esattamente quanto lo spazio che vi era fra le stelle e le galassie. Non avevo la più pallida idea di come me lo fossi procurata.
Sciolsi il nodo, liberandomi del panno insanguinato e fu il primissimo sguardo a provocarmi dei flashback.
Vodka.
Strada.
Vetri.
Piuttosto sintetico, a tratti confuso, sicuramente non d'aiuto alla mia memoria da pesce ma se c'era una cosa che ricordavo in maniera cristallina, era l'uomo del Whisky.
Bello da sembrare un'allucinazione, un uomo all'apparenza a modo, con forti valori e altrettanti forti muscoli brachiali. Non l'avevo fissato, era semplicemente difficile non notarli. Il suo braccio occupava tre quarti del bancone.
Non avevo idea di come fosse poi andata a finire. Al terzo drink mi trovavo in barbie ed il lago della vodka, speravo soltanto di non rivederlo mai più.
Lavai così viso e denti e mi incamminai verso il piano terra, desiderosa di fare una bella colazione abbondante prima di prendere un farmaco.
Varcai la soglia della cucina sorpassando la miriade di piatti che richiedevano la mia attenzione e mi accomodai a tavola sbirciando l'ora sull'orologio.
Le nove meno un quarto.
Ero in ritardo a lavoro, fantastico.
Serrai le palpebre concedendomi un minuto di tranquillità prima di mettermi all'opera. Preparai rapidamente qualche toast e ci spalmai sopra del burro, una delle mie ricette preferite per la colazione. Sorseggiai del succo all'arancia a cui seguì un'aspirina e pregai perché agisse il più rapidamente possibile.
Una volta aver ripulito, decisi avrei chiamato l'ospedale per avvisare Sena del mio disastroso ritardo ma del mio cellulare non vi era nemmeno l'ombra.
L'avevo davvero perso un'altra volta? Stava diventando un'abitudine.
Mi trattenni dall'urlare e dopo ben dieci minuti di inutili ricerche mi arresi al volere del fato e mi diressi in camera per cambiarmi. Mi vestii rapidamente, recuperai la mia borsa e mi avviai verso l'uscita.
Montai in auto e con una guida degna di chi la patente l'avrebbe dovuta vedere solo con il binocolo, raggiunsi l'ospedale in neanche dieci minuti.
«Le murature sono in pietrame a sacco completamente intonacate e tinteggiate, mentre i pavimenti, come potete vedere, sono in mattonelle di graniglia.»
John si trovava poco più in là rispetto all'ingresso, troppo occupato a parlare per accorgersi della mia presenza. Stava tenendo una conversazione con tre uomini, indossavano lo stesso completo, blazer e pantaloni monocolore mentre alla mano portavano una valigetta.
Sembravano prestare molta attenzione ad ogni dettaglio gli venisse fornito.
«Gli infissi esterni, invece, sono in legno con le finestre dotate di serramento...»
Riprese lui ma smisi di ascoltarlo non appena qualcuno apparve di colpo nel mio campo visivo.
«Ben arrivata.» esclamò Sena.
Le sorrisi con i sensi di colpa alle stelle. «Chi sono quegli uomini?»
Lei si voltò come non si fosse accorta della loro presenza prima. «I segretari del sig. Kane, sono qui da stamattina.»
Aggrottai il viso in attesa continuasse ma la sua bocca non si aprì. «Non ho idea di chi sia, Sena.»
Lei sembrò sorpresa da quella affermazione alchè si schiarì la voce. «John non te l'ha detto?»
«Detto che cosa?»
Il suo viso sembrò realizzare qualcosa a me sconosciuto e quando la sua mano mi afferrò con delicatezza il polso, mi lasciai trascinare.
«Credevo lo sapesse. L'imprenditore più influente del Nord America ha comprato l'ospedale,» esclamò «E non è tutto, ha inoltre raddoppiato la sua offerta iniziale e richiesto che non venisse apportata alcuna modifica.»
Sentii lo shock immobilizzarmi, rendendomi ad una statuetta in marmo. Non avevo idea di chi fosse, come non avevo idea del perché John non mi avesse informata, ma al momento non m'importava.
L'edificio era stato comprato.
L'edificio di papà era stato comprato da un pezzo grosso dell'imprenditoria.
Non sapevo quale emozione avrebbe vinto sull'altra, non sapevo se mettermi ad urlare, se mostrare a Sena le mie abilità nel twerk o semplicemente abbracciarla per la bellissima notizia che mi aveva appena dato.
La mia bocca si aprì per parlare, ma prima che potessi dire qualsiasi cosa la porta dello sgabuzzino in cui mi aveva trascinata Sena, si aprì.
Il viso di un ragazzo comparì sulla soglia e lo spavento fu immediato. Ci scambiammo uno sguardo silenzioso mentre i suoi occhi si guardavano attorno, poi si posarono su di me, su Sena e ancora su di me.
«Bè. Io cercavo il bagno ma se aveste bisogno di un terzo dotato di mazza, potrei voler continuare la mia ricerca più tardi.»
Sena assunse un'espressione schifata mentre a me venne quasi da ridere. Stava davvero alludendo a quello? «Non è come pensi.»
«Ah no?» lui chinò il viso di lato aprendo la porta. «È un peccato, sapete? Credevo di avervi colto in fragrante. Non fraintendetemi a me piacciono le lesbiche, non c'è nulla di cui vergognarsi.»
Persi il filo del discorso non appena capii non sarebbe valsa la mia attenzione.
Era un ragazzo piuttosto alto e robusto. Indossava dei pantaloni della tuta neri e una maglia dello stesso colore. Il che mi portò immediatamente ad escludere possa essere uno dei segretari del sig. Kane.
Portava i capelli legati in un codino disordinato, i ciuffi castani ricadevano sul viso dalla carnagione abbronzata mentre gli occhi affusolati erano di un color ambra molto particolare.
Nel complesso era un bel ragazzo, non esattamente il mio tipo, ma sicuramente quello di moltissime altre.
Dava l'idea di essere un nostro coetaneo ma non ci avrei scommesso nulla, forse avrà avuto qualche anno in più. L'assenza di barba nel suo viso mi confondeva.
«Non sai leggere?» domandò Sena, uscendo dallo sgabuzzino. Lo sconosciuto chiuse la porta alle nostre spalle. «Certo, baby. Per chi mi hai preso?»
Lei sorvolò sul nomignolo che da subito sembrò darle fastidio ed indicò la porta dello sgabuzzino in cui ci eravamo rinchiuse.
«Prego.» lo incitò.
Lui si voltò completamente verso il foglio attaccato alla superficie in legno, scrittura in nero su bianco a caratteri cubitali.
«Vietato l'ingresso al personale non autorizzato,»
Sena rimase in silenzio, in attesa dicesse altro.
«Quando mi assumete?»
Lei sembrò esasperata ed alla domanda del ragazzo non seguì risposta perché una quarta figura si unì alla conversazione. «Che squallore questo posto. Leon, hai fatto? Andiamocene per l'amor di dio.»
Squallore? La parola mi fece accapponare la pelle mentre sentii il fastidio sgorgare nelle vene.
Chi diavolo era questo ora? Come si era permesso di usare quel termine per descrivere l'ospedale di mio padre?
«Come hai detto?» domandai sfidandolo perché lo ripetesse. Lui sembrò accorgersi solo allora della mia presenza. Mi riservò uno sguardo privo di alcuna emozione per poi rivolgersi all'amico. «Hai trovato il bagno?»
Mi stava ignorando?
Il ragazzo che scoprì chiamarsi Leon scrollò le spalle. «Ho trovato di meglio.» fece cenno con il capo in nostra direzione ed io avrei voluto saltare addosso al nuovo arrivato.
«Parlavo con te.» richiamai la sua attenzione, non contenta di non essere riuscita a dirgliene quattro.
Posò i suoi occhi nei miei e sembrò annoiato. Li fece poi scivolare sul mio corpo e sentii il fumo pronto a fuoriuscirmi dalle orecchie.
Mi squadrò con pigrizia e si soffermò su più parti, facendo attenzione a non trapelare alcuna emozione. Non gli interessava che io lo notassi, così feci lo stesso.
Aveva occhi semplici, leggermente a mandorla del colore della nocciola. Carnagione piuttosto chiara, naso dritto e labbra sottili a formare una perfetta linea. Aveva capelli scuri e corti con un'importante ciuffo che gli ricadeva sulla fronte, coprendogli le sopracciglia.
Indossava dei jeans neri ed una felpa del medesimo colore.
«E io ti ho ignorata,» sibilò dopo un'eternità. «Ce ne andiamo, Leon?»
Il mio corpo si mosse da solo ma prima che potessi mettergli le mani addosso, la mano di Sena mi bloccò.
«Conoscete la strada.» esclamò lei con un falso sorriso sul volto.
Leon ci guardò con bramosia per l'ultima volta prima di dar retta all'amico. «Ci rivedremo presto, ve lo assicuro.»
Fu allora che ci diedero le spalle, avviandosi verso l'uscita. Sentivo il sangue ribollirmi ancora nelle vene mentre mi ritrovai a fissarli andar via.
Avevano la stessa figura. Stessa altezza, stessa massa muscolare. Entrambi possedevano una camminata inusuale, una di quelle che attirava l'attenzione di chiunque li fosse vicino. Era lenta, era coordinata e piena di sicurezza.
Alcune infermiere si fermarono a guardarli innalzando una serie di commenti che avrei preferito non ascoltare mentre la domanda più importante rimbalzava da un angolo all'altro della mia testa.
Chi diavolo erano quelli?
Girai tutto il primo piano alla ricerca di John e quando scoprì trovarsi nel suo ufficio, non ci pensai due volte e lo raggiunsi. Dovevamo parlare.
Aprì la porta di scatto e lui era lì, seduto sulla scrivania con le braccia incrociate sul tavolo. Sembrava mi stesse aspettando.
«Quando pensavi di dirmelo?» domandai di getto.
«Dirti cosa?»
Digrignai i denti. «Sai benissimo cosa.»
«E tu quando pensavi di dirmi di ieri notte?»
Ci fu un istante, uno solo ed insignificante in cui sentii la paura sgretolare tutto il mio vantaggio in quella conversazione.
«Nel caso in cui te lo fossi chiesta, io, ti ho riportata a casa ieri notte e vuoi sapere come l'ho scoperto?»
Rimasi in silenzio in attesa continuasse.
«Il tuo amante.»
Strinsi le labbra trattenendomi dal ridergli in faccia. Chi?
John sembrò colpito da quella reazione ed il suo viso assunse un'espressione ancor più arrabbiata.
«Lo trovi divertente?»
Si?
Credevo il problema fosse la mia breve escursione nel mondo degli alcolici. Ero persino pronta ad affrontare l'ennesima litigata dove John avrebbe sostenuto che uscire per conto mio fosse pericoloso e che non avrei mai più dovuto farlo. Avrebbe inoltre aggiunto che se avessi voluto fare un giro avrei potuto tranquillamente chiamarlo perché mi accompagnasse.
La mia vita sembrava la triste ricalcatura della storia di Raperonzolo. E non faticavo a credere che se fosse stato per John, io starei vivendo in una torre.
A dispetto di ciò che immaginavo, ci trovavamo lì, uno di fronte all'altro, ad affrontare una conversazione peggiore. Ero accusata di tradimento.
«Non ho idea di cosa tu stia parlando ma abbiamo cose più importanti di cui discutere al momento.»
«No, affatto,» liquidò lui «Chi diavolo era il coglione al telefono?»
«Perché non mi hai detto che l'ospedale era stato venduto?»
Ignorai volutamente qualsiasi tentativo di avere la meglio. Ero brava anche io ad impuntarmi sulle cose se volevo.
«L'avrei fatto stamattina. Oggi ci sarebbe stato il colloquio con l'imprenditore e avrei voluto fosse una sorpresa, ma tu hai tardato! Hai tardato perché soggetta ai sintomi della sbornia!»
Sbattei le palpebre più volte ed indecisa sul cosa dire, mi ritrovai a non dire assolutamente nulla.
«Ti ripeto la domanda, Cora. Chi diavolo era quello?»
Il mio viso non potè trasparire più esasperazione. «Non-»
Lui sbatté una mano sulla scrivania, impedendomi di parlare. Il tonfo mi fece sussultare. «E non prendermi per il culo! Sai perfettamente di cosa sto parlando. Ieri notte mi ha chiamato un testa di cazzo dal tuo telefono, suggerendomi di fare il bravo bambino e venire a raccattare la mia fidanzata ubriaca!»
Lo guardai persa e lui continuò: «Chi cazzo era?!»
Era fuori di sé. Cercai di mettermi nella sua posizione e conclusi che John era tutto tranne che un bugiardo. Aveva davvero ricevuto una chiamata dal mio cellulare ieri notte ma non avevo davvero idea da chi.
«Non me lo ricordo,» mormorai a voce così bassa che dubitai mi avesse sentita. «Ma non ho un'amante.» aggiunsi poco dopo.
Potevo aver fatto un casino dopo l'altro, potevo essermi tagliata una mano, potevo anche aver dato confidenza ad uno sconosciuto ma ero sicura non esserci andata oltre. Sapevo di non essere quel tipo di ragazza, sapevo non avrei mai fatto una cosa del genere a John. Sobria o non.
Vidi il suo corpo in tensione sciogliersi. Lui si passò una mano fra i capelli castani ed a dispetto di come avrei voluto concludere quella conversazione, finii sentendomi in colpa.
Ero pronta a litigare per l'ospedale di mio padre. Sicura di avere il vantaggio, sicura avrei vinto io quella discussione. Sarei riuscita a farlo tacere per la prima volta da quando stavamo insieme. Ma mi sbagliavo. John aveva vinto ancora. John vinceva sempre.
«Questa è l'ultima volta che affronteremo questo discorso. Non deve capitare mai più. Non devi uscire da sola, non devi!» marcò sulle ultime parole. «Dimmi che hai capito, Cora.»
Annuii ma lui fece una smorfia venendomi incontro.
Mi appiattii alla porta alle mie spalle. «Dillo,»
La sua mano finì sul mio polso. «Di' che hai capito.»
«Ho capito.» mi liberai con uno strattone.
«Non c'è bisogno di fare così,» esclamò «Sai benissimo che lo faccio per il tuo bene.»
«Privarmi della mia libertà non è 'farmi del bene'.»
Il suo sguardo si assottigliò di colpo. I suoi occhi sembravano frustrati, sembravano incapaci di cogliere un concetto semplicissimo. Non si rendeva conto di cosa significava vivere sotto la sua ombra.
«Sig. Sanders?»
Qualcuno bussò alla porta, sentii i battiti contro la mia schiena. John alzò il viso allontanandosi di qualche passo. «Si, Maya?»
«Il sig. Kane è pronto a ricevervi. Vi sta aspettando nell'ufficio della sig.na Holt.»
«Si, arriviamo subito. Grazie Maya.»
Lei non rispose ed i suoi passi ci avvisarono del suo allontanamento.
«Perché nel mio ufficio?» domandai quando fece per aprire la porta alle mie spalle.
«Che differenza può fare?»
Aggrottai la fronte. «Fai sul serio?»
«Diventerà presto il proprietario dell'ospedale, Cora. Hai intenzione di vietare anche a lui l'accesso all'ufficio di tuo padre?»
Rimasi in silenzio, presa alla sprovvista da una verità a cui sarei andata incontro molto presto.
Odiavo qualcuno entrasse nel suo ufficio, odiavo che venissero toccate o spostate le sue cose. Volevo rimanesse tutto come l' aveva lasciato lui, volevo entrare e avere la percezione che ci fosse stato lui pochi minuti prima.
Ma la situazione era diversa. L'edificio era stato comprato. L'ospedale non era più di mio padre e quindi di conseguenza, nemmeno il mio.
Se il sig. Kane avesse richiesto quell'ufficio io gliel'avrei dovuto cedere. In fin dei conti era quello più grande, più facile da raggiungere e quello più fornito di tecnologia moderna. Ero sicura avrebbe puntato su quello ed il solo pensiero mi strinse il cuore in una morsa.
«Lascerai parlare me,» disse «Sono quello più adatto. Ho seguito tutta la gestione amministrativa dell'ospedale dalla... be', lo sai.»
Volli ribattere, aprire bocca e ribellarmi. Fargli sapere una volta per tutte che doveva smetterla di trattarmi come una bambina ritardata che a causa della sua perdita non era in grado di affrontare tematiche importanti.
Lui decise di escludermi, decise di prendersi carico dell'ospedale e di lasciarmi all'oscuro di qualsiasi piega stesse prendendo l'attività di mio padre e nonostante tutto, c'era una minuscola parte di me che gliene era grata.
Ci fu un periodo, subito dopo l'accaduto, un lasso di tempo così breve in cui non riuscii a riprendere le redini della mia vita e la sua presenza all'ora fu una vera e propria salvezza. Ma i tempi erano cambiati, io ero cambiata e avrei voluto essere d'aiuto.
Sapevo di poterlo fare, ero una persona che imparava in fretta, una di quelle persone che amava tenersi occupata e odiava ammazzare il tempo a lavoro, poltrendo sulla scrivania.
Per quanto, però, mi costasse ammetterlo, con le informazioni che possedevo in quel momento non sarei stata in grado di affrontare il colloquio con il sig. Kane, così mi ritrovai ad acconsentire alla sua richiesta.
«So che non è facile, lo so. Ma è la decisione migliore.» il suo pollice mi accarezzò la guancia. «Concluderemo la conversazione dopo il colloquio, devo sapere cos'è successo ieri notte e tu mi racconterai ogni cosa. Va bene?»
Annuii e fu allora che ci avviammo verso l'ufficio.
La distanza si accorciava ed il battito del mio cuore accelerava, passo dopo passo. Non mi sembrava vero, ma era finalmente giunta l'ora. Avrei conosciuto il nuovo proprietario dell'ospedale e speravo con tutto il cuore fosse una persona per bene, una di quelle che avrebbe involontariamente seguito le orme di mio padre con la sua attenzione ed i suoi gesti amorevoli.
Aveva richiesto non venisse apportata alcuna modifica, il che faceva pensare volesse conoscerne la storia e magari rispettarne la filosofia. Voleva l'edificio continuasse la sua vita come ospedale, immaginai quindi, possedesse una linea ospedaliera.
Era ora di smetterla con le supposizioni, ero pronta a scoprirlo.
Attraversammo corridoi dalle pareti color panna ed al ricordo di come lui stesso si fosse scomodato a decorarne le superfici con quadri riguardanti il modo della medicina e fotografie di medici e pazienti, un sorriso si allargò sul mio viso.
Svoltammo l'ultimo incrocio ed esattamente alla nostra destra vi era il mio ufficio. John mi lanciò uno sguardo veloce, dopodiché la sua mano venne a contatto con la maniglia e la porta si aprì.
Varcammo la soglia di una stanza di cui conoscevo a memoria ogni centimetro ed esattamente dietro alla scrivania, un uomo ci dava le spalle sulla poltrona d'ufficio.
«Sig. Kane, ci perdoni il ritardo. Avevamo delle cose importanti di cui discutere.» esclamò John perché si accorgesse della nostra presenza.
«Nessun problema. Accomodatevi.»
La sua voce era impostata, era roca e profonda. Dava subito l'idea di essere uno che sapeva come mettere in riga le persone.
Non accennò a voltarsi. Ne cercai i tratti da dietro alla poltrona girevole ma l'unica cosa che ne fuoriusciva al di sopra fu il nero della chioma che mi portò subito a constatare essere piuttosto alto.
Ci accomodammo sulle poltroncine color terra e rimanemmo in attesa ci degnasse di uno sguardo.
«Quindi. Chi di voi era il proprietario?»
«Lei,» rispose John «Ha ereditato l'ospedale del padre, un paio di anni fa.»
«È morto?»
«Si.»
Ci fu un minuto di silenzio a seguito di quella risposta in cui mi sembrò di essere in grado di sentire perfino i loro respiri.
«Quanti anni avevi?»
Aprii bocca per rispondere ma venni anticipata. «Venti.»
A quella risposta uno sbuffo mi raggiunse e fui certa provenire dal sig. Kane.
Giocherellai con la punta delle mie sneakers per tenermi occupata ed all'ennesima sua richiesta mi domandai se avesse intenzione di svolgere tutto il colloquio mostrandoci lo schienale della poltrona.
«Voglio sapere dell'organizzazione interna.»
«Certo,» John si allungò sulla cattedra «Abbiamo diviso per-»
«Non sai parlare, forse?» la poltrona ruotò su se stessa e fu soltanto allora che l'uomo decise di mostrarsi «Sto parlando con te.»
Due occhi color carbone s'incastonarono nei miei e come risvegliasse ricordi intorpiditi, il suo viso divenne subito familiare. Smisi di respirare non appena ne riconobbi i tratti.
Era lui. Mr.Whisky.
Fofinhas🦭
Come sempre sono in ritardoo 🥹
Perdonatemi, ho avuto la febbre a 39,8 in questi giorni ma ringraziando il cielo sono viva e vegeta (per ora).
Io che scrivo e sto pensando a come levarmi di torno John il prima possibile 🫠
Accetto suggerimenti 🙂
C'è stata la presentazione di un paio di personaggi nuovi, più avanti scoprirete chi sono ma INTANTO è tornato il nostro Mr.Whiskyy😭😍 Aspettavo questa parte come solito aspettare il Natale.
Beneee, ora vi lascio foche.
Grazie mille di seguire WYA♟️
IG: @karinastrs
Tiktok: @karinastrs
Karina🖤
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