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19. No more chains, only me


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Una scusa senza cambiamento
è solo manipolazione.
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John
"Non puoi rifiutare, Cora. Non ne facciamo
una come si deve da troppo tempo."

Io
"Non sto rifiutando. Dico solo
che sarai troppo stanco. Ti conosco,
non riuscirai a goderti la serata."

John
"Fai sul serio? Cos'è? La scusa per
non stare insieme?"

Io
"Lo sai che non è questo.
Possiamo sempre fare domani sera."

John
"No. È deciso.
Ci vediamo più tardi."

Le mie dite mollarono la tastiera.
Ero perplessa.

Per un istante l'idea di insistere fu forte, ma la consapevolezza di come sarebbe andata a finire quella conversazione se l'avessi fatto, la dissolse subito dopo.

Non volevo litigare.

Rilessi quelle parole un paio di volte e risposi.

Io
"A più tardi."

«Non stai seguendo. Di nuovo.»

La voce cantilenante di El mi riportò alla realtà e, sebbene ci stesse provando, a quel giro non riuscì a mascherare il suo disappunto.

«Mi dispiace tanto.» mormorai, con il senso di colpa alle stelle.

Era la decima volta che mi riprendeva. La decima volta che qualcosa si intrometteva tra me ed 'Harry Potter e il calice di fuoco'.

Non potevo darle torto.

«Sei distratta,» le iridi nocciola cercarono le mie. «Ti va di parlarne?» 

Parlarne? Di tutte le cose che mi tormentavano la mente di quale avrei dovuto parlarle?

Della conversazione che ebbi con il dott. Evans poco prima di raggiungerla? Delle sue condizioni mediche e del denaro che richiedeva la sua operazione?

Avrei dovuto parlarle di John? Di come l'avesse mandato su tutte le furie il mio rientro a casa ubriaca dalla festa di Maya? O di come fosse convinto che un appuntamento a cena sarebbe stato in grado di salvare ciò che avevamo?

Presi un respiro profondo, curvai le labbra in un sorriso e allungai le mani per raggiungere le sue.

Non avevo alcuna intenzione di riversare su di lei i miei problemi. Non potevo e non volevo.

«Sono solo stanca. La festa di Maya mi ha prosciugato le energie,» tentai, giocando che le dita affusolate. «Ti chiedo scusa se non ho seguito il film.»

El ricambiò il mio gesto, accarezzandomi il dorso della mano. «Non preoccuparti, in parte lo capisco.»

Le sopracciglia scattarono all'insù. La guardai incuriosita, in attesa che continuasse.

«È la decima volta che guardiamo i film di Harry Potter. Non mi stupirei se ti stessi semplicemente annoiando.»

Mi ci volle qualche secondo di troppo per comprendere ciò che stava insinuando ma, al termine di quell'attimo, la mia faccia liberò una smorfia.

«Sei impazzita? Stiamo pur sempre parlando di Harry Potter, El. Quella saga non mi annoierà mai,» esclamai in tutta risposta da fan accanita. «Te l'ho detto, sono solo stanca. Basta poco a farmi perdere la concentrazione.»

A primo impatto El sembrò credere alle mie parole, ma la conoscevo e lei conosceva me.

Era dubbiosa, ma sapeva che se non avessi voluto metterla al corrente di qualcosa, semplicemente non l'avrei fatto.

Insistere sarebbe stato inutile.

«Chi ti ha aiutato ad appenderlo?»

Con un gesto della mano indicai la parete bianca alle sue spalle su cui campeggiava, ben visibile, il disegno che ritraeva il mio volto.

«Felix.»

Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva.

Mi misi diritta. «Chi?!»

L'espressione sul viso di El mutò con una tale velocità da farmi quasi venire i brividi. Il suo sguardo malizioso mi costrinse a ricompormi all'istante.

«Voglio dire... Chi?» riprovai.

Mia sorella rise. «Credevo ti piacesse il sig. Kane. Non il suo amico.»

Contenni l'impulso di guardarla storto.
«Felix è stato qui?»

«Proprio lui. Mi ha fatto compagnia per quasi un'ora ieri sera,» spiegò. «Sembra una persona gentile.»

Gentile?

La tentazione di domandarle se stessimo parlando dello stesso Felix era forte, ma c'era qualcosa di più urgente da affrontare.

«Perché ti ha fatto compagnia?»

Non aveva alcun senso.
Sopratutto da un tipo come lui.

«Gliel'ho chiesto, ma non mi ha risposto. Se n'è soltanto andato dopo il tonfo.»

All'ennesima informazione, la mia fronte si corrugò ancora di più. «Quale tonfo?»

«Quello che c'è stato ieri notte,» non capii se la sua fosse un'affermazione o una domanda. «Sena era in turno, non ti ha detto niente?»

Scossi la testa, e dire che ero confusa sarebbe stato un eufemismo.

Ieri notte era successo qualcosa all'ospedale ed io non ero al corrente di niente.

«Credevo lo sapessi.» farfugliò, notando il mio sguardo perso.

«Non è colpa tua,» la rassicurai. «C'è dell'altro?»

«Il sig. Kane è passato a controllare ogni paziente prima,» proseguì rivelando. «Penso volesse assicurarsi che stessero tutti bene.»

E a quel punto, la mia impazienza emerse con forza, spinta dal desiderio insopportabile di capire cosa diavolo fosse successo.

Non riuscii a rimanere seduta.

Inquieta, iniziai a camminare per la stanza di El come bastasse a riempire i miei buchi o a rivelare le risposte di cui avevo bisogno.

Avanti e indietro, consumando il pavimento.

Sapevo esattamente cosa fare e non avevo intenzione di aspettare oltre. Salutai mia sorella, promettendole che sarei passata a trovarla a fine turno e me ne andai.

Percorsi i corridoi con passo fermo, finché non raggiunsi la mia destinazione: la reception.

Sena si trovava dietro al bancone in marmo. Era lì, in piedi ed immobile, e teneva il capo rivolto verso l'ingresso dell'ospedale.

Le labbra, socchiuse, tremavano. Gli occhi strabuzzati fissavano la porta, mentre un'ombra, una miscela di terrore e confusione, le riempiva lo sguardo.

«Sena,» chiamai. Lei sembrò accorgersi solo allora della mia presenza. «Che succede? Stai bene?»

Le iridi scure incontrarono le mie.

«Cora.» mormorò appena con voce flebile. Poi tossì piano, cercando invano di nascondere lo stupore che le si leggeva in volto.

Fu istintivo, quasi inevitabile, il pensiero che quell'uomo avesse qualcosa a che fare con il suo stato d'animo. E la cosa mi mise, automaticamente, in allerta.

La osservai mentre cercava rifugio nella sua agenda,  ma il suo tentativo di distogliere l'attenzione da sé era inutile. 

Feci un respiro profondo e raggiunsi il bancone.
A quel giro non sarei stata zitta.

«È di nuovo quell'uomo?,» domandai cauta. «Quello della scorsa volta?»

Non volevo costringerla a parlarmene.
Non era nelle mie corde.

Rispettavo e avevo sempre rispettato gli spazi altrui, ma se era come pensavo... se era davvero in pericolo come sospettavo, allora, forse, avrei dovuto almeno provarci.

«Ti da ancora fastidio?» riprovai, ed il suo silenzio fu come una porta. Non potevo aggirarla.

Sena sembrò in pena. Le sue mani presero a muoversi nervosamente, un leggero tremore che tradiva la calma che tanto voleva simulare.

«Non più. Da quel giorno non si è più fatto vedere.»

Lei parlò ed io capii due cose fondamentali: stava mentendo e non era libera di parlarne.

La guardai in silenzio ed il mio cuore si colmò di tristezza.

Non era solo l'impossibilità di parlare, ma la solitudine che ne derivava, la frustrazione di avere pensieri e sentimenti intrappolati dentro senza poterli condividere.

Mi chiesi quante volte avesse desiderato urlare, ma fosse costretta a rimanere muta.

«So che dovrei farmi gli affari miei, lo so... Ma se c'è qualcosa, Sena, qualsiasi cosa di cui vuoi parlarmi, non esitare a farlo, per favore. Non devi affrontare tutto da sola.»

I suoi occhi si alzarono, colmi di gratitudine.
«Grazie, Cora.»

Abbozzai un sorriso e quando feci per cambiare argomento e parlare del motivo per cui mi trovavo lì, una voce, tanto matura quanto fastidiosa, mi precedette.

«Non sapevo che Ashton avesse assunto statue decorative,» Sarah si fermò davanti a me, e il suo profumo di rose mi diede subito alla testa. «Immagino che i pazienti possano aspettare, non è così, cara la mia Cora?»

Inspirai forte dal naso. Volevo lo sentisse.

Lanciai un'occhiata all'orologio. «Mancano quindici minuti alle otto, Sarah. Ancora non sono in turno.»

«Devi ancora cambiarti, però,» lo sguardo, allungato da un'eye-liner perfetto, scivolò su tutta la mia figura. «Non vorrai fare tardi.»

Mi morsi l'interno guancia con forza.
Non ce la faceva proprio a lasciarmi in pace?

«Perché non raggiunge il suo reparto, intanto? Ha forse bisogno di Cora per iniziare il suo lavoro?»

Sarah scattò, voltandosi verso Sena che, da come la stava guardando, sembrava seccata quasi quanto me dalla sua presenza.

«Non sapevo che la tua specialità fosse dare ordini invece di seguirli.»

«Li seguirei se non mi disturbasse. Si preoccupa del lavoro altrui, sig.na Kimberly, ma così dimentica di fare il suo,» replicò Sena velenosa. «La strada la conosce.»

Mi sfuggì un sorriso.

Sena non l'aveva soltanto zittita nel giro di pochi secondi, l'aveva fatta passare per una completa stupida ed io avrei pagato qualsiasi cifra per poter vedere la sua faccia in quel momento.

«Ci vediamo fra poco, allora. Non fare tardi.» borbottò infine, andandosene con la coda fra le gambe.

«Sei stata fantastica.» soffiai con un saltello, emozionata come una bambina al parco giochi.

La bella coreana afferrò una matita e raccolse i lunghi capelli neri in uno chignon improvvisato.

«Mi sta sulle palle.»

Annuii. «Anche a me.»

Sena sorrise e, senza rendermene conto, il mio sorriso le fece eco.

Ero contenta di vederla così.

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Avevo da poco iniziato il turno di lavoro e già non ne potevo più di sentirla parlare.

«Quindi? Sto parlando con te.»

Sarah si trovava in piedi al mio fianco, mentre raggiungevamo il terzo piano con l'ascensore.

Trattenni uno sbuffo. «Che cosa, Sarah?»

Ero convinta stesse cercando di portarmi all'esaurimento. Altrimenti, non si spiegava tutta quella voglia di fare conversazione.

Sentii il suo sguardo pungente sulla guancia destra. «La formazione dei nuovi infermieri, Cora. Te ne stai occupando tu, no?»

La mia tolleranza era agli sgoccioli.
«Cosa vuoi sapere?»

«Non è ovvio? Voglio sapere se devo preoccuparmi per il futuro o se li stai seguendo come si deve.»

Possibile ci fossero davvero persone del genere in questo mondo? Possibile queste fossero anche dei medici?

«Allora?» insistette, calpestando l'ultimo briciolo di pazienza che avevo in corpo.

L'ascensore si aprì ed io uscii per prima, senza degnarle di una risposta.

Seguii gli infermieri? Sì.

Fornii un'introduzione alle procedure, ai protocolli, all'ambiente di lavoro e pianificai la formazione. Dovevo soltanto continuare a monitorare il loro progresso.

Ma, siccome non era il mio capo, io non ero tenuta a risponderle o a metterla al corrente del mio operato.
Non l'avrei fatto.

Il ticchettio del suo tacco quindici mi seguì. Cominciai a pregare tutti gli dei perché uno di questi si rompesse.

La sua caduta mi avrebbe di sicuro migliorato la giornata.

«Non ti si è mai rotto un tacco, vero?»

Soltanto per esserne sicura.

La sentii ridere. «Che tacchi pensi che compra io?»

Alzai gli occhi al cielo. Avrei dovuto aspettarmi una risposta del genere.
Quale altro modo di ostentare la propria ricchezza?

Mi sistemai il camice, passando le mani sulle piccole pieghe che si erano formate, mentre io, il sig. e la sig.a Adams attendavamo Sarah, in completo silenzio.

Bethany Adams, la figlia, si trovava di fronte a me. Giocava con le maniche del suo maglione color panna e non mi ci volle molto a capire fosse nervosa.

Era solo una ragazzina, in fondo.
Una ragazzina con una grande passione per il pattinaggio sul ghiaccio che, a causa di un incidente, si era ritrovata all'interno di quelle quattro mura.

«Bethany. Signori Adams.» salutò Sarah, facendo finalmente il suo ingresso.

Questa si fermò in fondo al lettino ospedaliero, richiamando l'attenzione di ogni singolo presente.

Un breve silenzio calò successivamente ed io fui certa di essere in grado di percepire il battito violento del cuore di Beth.

Allungai una mano, accarezzandole una spalla per darle un po' di conforto. La mora dagli occhi azzurri mi sorrise appena e, subito dopo, Sarah parlò.

«L'incidente a cui vostra figlia è andata incontro ha causato una lesione. Il midollo spinale ha subito una compressione e ha determinato danni importanti, portando alla paralisi totale degli arti inferiori.»

Fece una pausa ed io udii soltanto il mio respiro.

«È irreversibile. Non c'è alcuna possibilità che vostra figlia possa tornare a camminare,» mormorò, con una lentezza dilaniante. «Mi dispiace molto.»

Nessuno fiatò.

Battei le palpebre dopo un breve istante di estraniamento, quando mi accorsi che Sarah se ne era andata.

«Non sei normale o cosa?!» le andai dietro.

«Non gridare,» mi ordinò. «Disturbi i pazienti.»

Accelerai il passo, tagliandole la strada. I nostri corpi rischiarono di scontrarsi. Sarah indietreggiò.

«Che vuoi adesso?»

«Che diavolo era quello?,» puntai il dito verso qualcosa alle sue spalle. «Ti costava tanto dare a quelle persone un briciolo di speranza?»

Lei sgranò gli occhi, mettendo in mostra l'eccessiva quantità di mascara alle ciglia. «Mi chiedi di mentire?»

«Ti sto chiedendo di essere più empatica. Anche con il 99% di possibilità di non guarire, tutto quello che le persone hanno è quell'1%, e tu glielo hai appena portato via.»

Questa spostò il peso da una gamba all'altra, più volte, facendomi innervosire. Assottigliai lo sguardo.

«Non capisco cosa stai cercando di dirmi.»

Le mie labbra si ridussero ad una linea dritta. Sentii il nervoso assalirmi e bruciarmi le tempie.
Era uno scherzo, vero?

«Le persone sono incline ad attaccarsi alla speranza che tutto possa sistemarsi, Sarah. Come pensi che stia quella ragazza, ora?»

«In che momento il problema di una quindicenne è diventato un mio problema? Mi deve essere sfuggito.»

Le mani pizzicarono e, in un battito di ciglia, quello che era nervoso si trasformò in vero e proprio disgusto.

«Cara la mia Cora... È per questo che Ashton ha licenziato il dott. Collins,» canticchiò, facendo un passo avanti. La sua altezza sormontò la mia, ma non mi mossi. «Sei troppo coinvolta.»

Passai le sue iridi nocciola a rassegna. Giurai di riuscire ad intravedere tutto lo schifo che provavo riflesso nei suoi occhi.

«Come fai a guardarti allo specchio la mattina?»

«Con gli occhi, Cora. E tu?»

Un sorriso sbilenco le si formò sul viso e la voglia di farlo sparire raggiunse livelli altissimi.

Non potevo strangolarla.
Non potevo, ma avrei voluto.
Quanto l'avrei voluto...

«Torna indietro e conforta quelle persone.» ordinai ferma e autoritaria, con una voce che non mi era mai appartenuta prima.

Non le avrei permesso di sminuire tutto ciò che mio padre aveva creato. Non avrei permesso a lei, o a persone come lei, di cambiare me o l'ospedale.

La guardai dritta negli occhi. Non le diedi il tempo di ridermi in faccia. Volevo che capisse quanto facevo sul serio.

«Torna indietro, Sarah, o giuro che farò tutto ciò che è in mio potere per farti cacciare da questo ospedale. Non importa quanto mi ci vorrà, non mi fermerò finché non sarai fuori di qui.»

Lo scambio di sguardi che avvenne poi prese la giusta piega. L'arroganza e la sicurezza lasciarono finalmente spazio a quello che sembrava essere del buon senso.

Sarah alzò gli occhi al cielo.
«Non posso credere che sto per farlo.»

Lei mi mostrò le spalle, nascoste dal camice, eseguí qualche passo, per poi bloccarsi a metà strada, voltarsi e rivolgermi uno sguardo compiaciuto.

«Se affrontassi quel John con la stessa ostinazione con cui affronti me...» i suoi occhi misero a rassegna i miei. «Avresti già risolto metà dei tuoi problemi.»

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Mentirei se dicessi che quelle parole non mi rimasero impresse. Mentirei se dicessi che non mi toccarono.

E questo perché trascorsi le seguenti ore a tentare di capire cosa Sarah volesse dire con quella frase e a domandarmi perché non l'avessi fermata per chiederglielo.

A fine giornata, i quesiti che avevo accumulato avevano finito per appesantirmi: dalla conversazione con El, alla situazione di Sena, fino a quella di Sarah.

Ogni volta che cercavo di concentrarmi su altro, le domande tornavano a galla, più forti e più insistenti.

Provai ad immaginare mille scenari, a darmi delle risposte, a mettere insieme i pezzi, ma non riuscii a costruire nulla di concreto.

Semplicemente, non riuscivo a smettere di pensarci.

Erano come tarli nella mente, pensieri che scavavano senza sosta, lasciandomi inquieta e nervosa durante tutto il turno.

Quando il cellulare segnalò l'arrivo di un messaggio, per poco non inciampai sul marciapiede.

John
"Dove sei?"

Io
"Cinque minuti e sono lì."

John
"Muoio di fame. Muoviti."

Sistemai la borsa sulla spalla e accelerai il passo, per quanto mi fosse possibile.

Dopo lavoro passai da casa a prepararmi per l'appuntamento. Non avevo avuto molto tempo, perciò avevo optato per qualcosa di comodo, ma anche elegante.

Indossavo un body prevalentemente in pizzo nero e un paio di jeans blu. Poi avevo scelto degli stivaletti color cuoio con tacco a cui abbinai la giacca in finta pelle dello stesso colore.

Mi ero truccata in dieci minuti. Niente di troppo elaborato, ma ci tenevo ad essere sistemata.
Ci tenevo ad essere bella per lui.

Marciai a passo veloce quando, all'improvviso, percepii uno strano nodo alla gola. Mi sentii come una corda tesa, pronta a spezzarsi e non ne capii il motivo, finché non lo vidi.

John si trovava in un angolo appartato della grande sala. Subito mi domandai che umore avesse. Se ne stava con il capo rivolto verso la finestra perciò non lo vedevo in faccia, ma qualcosa mi diceva di sapere benissimo la risposta a quella domanda.

Lo conoscevo.
Avrà avuto le sopracciglia aggrottate e gli occhi fissi in uno sguardo severo, o magari stanco. Sarebbe apparso agitato, con le rughe sulla fronte e la mascella serrata, e quell'immagine finì per farmi rivalutare la mia decisione.

Avrei dovuto insistere quella mattina.

«Ce ne hai messo di tempo.»

Ignorai il nervosismo nella sua voce e mi accomodai di fronte a lui.

John aveva i capelli castani corti, pettinati all'indietro con del gel, che alla luce li faceva brillare. Indossava una maglia nera aderente e un paio jeans coordinati.

«Non più di quanto ti ho scritto.»

John si voltò a guardarmi e io mi liberai della giacca, posandola sullo schienale della sedia. 

«Da quando hai quella maglia?»

Mi sorse spontaneo abbassare lo sguardo. «Da un po'.»

I suoi occhi rimasero fissi sul mio petto per qualche secondo, ma non ne capii il motivo.

L'intero indumento era in pizzo, tranne in quella zona, realizzata in stoffa nera, che copriva gran parte del mio seno. 

«Ho già ordinato per entrambi.» annunciò posando i gomiti sulla tovaglia rossa.

«Come?,» scappò alle mie labbra. Inspirai e, sforzando un sorriso, domandai: «Che cosa mi hai preso?»

«Bison Burger.»

«Ah.» fu l'unica cosa che riuscii a dire.

«Che c'è? Credevo ti piacesse il bisonte.»

Tentai di nascondere la mia perplessità.
«L'ho avanzato.»

Le sopracciglia scattarono. «Che dici?»

«L'ultima volta, John, me l'avevi ordinato ed io l'ho avanzato.»

Lui sembrò confuso e, sebbene fossero passati parecchi mesi dall'ultima cena, il fatto che non lo ricordasse mi rattristì.

Posai lo sguardo sul grazioso vaso di fiori rossi e lo mantenni lì per qualche istante, come se quella visione così bella potesse, in qualche modo, risollevare il mio morale.

«Mi dispiace,» il tono basso, all'apparenza sincero. «Non lo ricordavo, sennò ti avrei preso dell'altro.»

Annuii pensierosa.

«Com'è andata a lavoro?» domandò poi.

«Bene.»

«Ho saputo che hai assistito Sarah oggi.»

Il mio sguardo scattò. I nostri occhi si incontrarono e, per un secondo, il ricordo della conversazione di quella mattina mise da parte qualsiasi altra cosa.

«Te l'ha detto lei?» indagai.

La ruga che gli si formò sul viso risucchiò tutta la mia attenzione. «No. Me l'ha detto il dott. Evans.»

«La conosci?»

«No.»

«Lei dice di conoscerti.»

Bugia, ma volevo assicurarmi stesse dicendo il vero.

«Abbiamo parlato solo un paio di volte, Cora. E per lavoro. Non ci conosciamo,» la noia nella sua voce era così palese da infastidirmi. «Perché ti comporti così, ora?»

«Sarah non mi piace.»

«E perché?»

La domanda mi colse impreparata, ma bastarono pochi attimi perché i miei pensieri prendessero forma.

«È presuntuosa ed immatura e non sono d'accordo con il suo modo di lavorare.»

John si sporse ancora. «Credevo fosse all'altezza del compito, vista la scelta del sig. Kane di licenziare Collins.»

«Non lo è,» esordii ferma. «Collins amava il suo lavoro e i suoi pazienti. Sarah manca di empatia, non c'entra niente con l'idea di ospedale che abbiamo.»

«Che tu hai.»

Aggrottai la fronte. «Come?»

«Sei l'unica a rispettare ancora quell'idea di ospedale, Cora. Non so cosa sia successo, ma conoscendoti si sarà trattato di qualche caso in cui il paziente era spacciato, non è così?»

Le parole non vollero saperne di uscire e così finii per fare scena muta.

«Appunto,» esordì, acquisendo una posizione più comoda e incrociando le braccia al petto. «Lo sai bene come la penso, se non c'è alcuna possibilità non ha alcun senso buttare via tempo e risorse.»

Scossi il capo, contraria. «E se ci fosse una piccola possibilità? Tu non ci proveresti?»

«No, Cora, non ci proverei.»

Le palpebre tremarono e la consapevolezza mi trafisse il petto, come una lama affilata.

«Nemmeno se fosse mia sorella?»

La mia domanda rimase sospesa per aria, in attesa di una risposta che, a quel punto, ricercavo come l'aria.

Il suo silenzio mi mise in agitazione.

Il cuore prese a battermi forte nel petto, quasi a voler contrastare i miei pensieri. Il calore mi salì alle guance mentre serrai le mani sulle gambe per trattenerne il tremito.

La voce si era spenta, ma le sue parole continuavano a riecheggiare nell'aria. Ed io ne inalai tutta l'amarezza.

Lui abbassò appena il mento ed io non ci capii più niente, perché John non parlò.
Lui non mi rassicurò e lo sguardo divenne l'unico linguaggio possibile, carico di verità che non osavano uscire.

Non potevo crederci...

«Ecco a voi. Spero che la cena sia di vostro gradimento.»

Il cameriere ci servì i nostri piatti, ma io li guardai a malapena, scossa com'ero dalla conversazione che avevamo appena avuto.

«Signorina,» mi sentii chiamare. «C'è qualcosa che non va con il suo hamburger?»

Sollevai il viso di scatto. «Come? No, no.»

Il ragazzo, che avrà avuto diciott'anni, se ne rimase in piedi alla destra del tavolo, in attesa di qualche altra rassicurazione.

«Il piatto sembra delizioso.»

Lui mi rivolse un sorriso cortese ed i suoi grandi occhi verdi s'illuminarono. «Se aveste bisogno di qualcosa fatemelo pure sapere. Buon appetito.»

Ricambiai il sorriso. «Sarà fatto, grazie mille.»

Il giovane si allontanò ed il tavolo vibrò producendo un lieve tonfo che mi fece sussultare: John aveva appena battuto la mano sulla superficie.

Lo guardai confusa e così anche una coppia di signori qualche metro più in là. Era impazzito?

«Che ti prende, John? Le persone ci guardano.»

Un lampo di collera gli attraversò lo sguardo. «Dovevi per forza fare gli occhi dolci al bimbo minchia?»

Strabuzzai gli occhi, incredula. «Che?»

John rise, ma la sua risata era amara. «Non fare la finta tonta, Cora, lo sai quanto mi fa incazzare. Ti ho vista.»

Non potevo crederci.
No, non era vero.

«È un ragazzino,

Raddrizzai le spalle ed un mix deleterio di emozioni ebbe il sopravvento. Ero sconvolta.
Ero stanca, ferita ed arrabbiata.

«Vedi cose che non esistono e ti stupisci se le cose fra noi non vanno come dovrebbero?»

«No che non mi stupisco. Non più. Mi sono abituato alle tue mancanze di rispetto,» esclamò tagliente, per poi indicarmi con due dita. «E come diavolo ti sei vestita? Facevi prima a presentarti senza quello straccio di maglia.»

Lui schioccò la lingua al palato e, senza pensarci un secondo di più, io scattai all'impiedi.

«Che fai?»

Raccolsi le mie cose e recuperai la mia giacca.

«Cora, che fai?»

John tentò di afferrare la mia borsa, ma gliela sfilai subito dalle mani. «Me ne vado.»

«E come? A piedi? È follia, fuori è buio pesto. Mangia, ti riporto a casa io.»

«Follia è restare qua e accettare tutte le cose che dici!» tuonai, con voce più alta del previsto.

Attirai nuovamente le occhiatacce dei presenti, ma non m'importò. Ne avevo fin sopra i capelli di essere trattata in quel molto. Ero stufa della sua insicurezza, stanca di sopportare tutte le sue insinuazioni.

Non ne potevo più.

«Non seguirmi, John. Peggioreresti solo le cose.»

E me ne andai.

*.·:·.☽ ✦ ☾.·:·.*

L'aria fresca di quella notte mi sfiorò il viso mentre camminavo lungo il sentiero sterrato che costeggiava il fiume.

La luna, alta all'orizzonte, proiettava dei riflessi argentei sulla superficie increspata dell'acqua, creando un gioco di luci che sembravano danzare con la corrente.

Gli alberi sulle sponde si specchiavano nel fiume e i loro rami oscillavano, al ritmo del vento.
Il suono sommesso del fiume mi solleticò i sensi quando, ad un certo punto, i miei piedi si fermarono.

Il panorama era perfetto.

Estrassi la mia Polaroid rosa dalla borsa, scivolando con le dita sulla superficie liscia della fotocamera.

Inquadrai il paesaggio attraverso il mirino, trattenendo il respiro per un istante prima di premere il pulsante di scatto.

Il suono meccanico della macchina ruppe il silenzio, e la foto iniziò lentamente a svilupparsi fra le mie mani.
Osservai i colori prendere vita mentre il ritratto di quel momento s'imprimeva sulla carta.

Sorrisi malinconica, perché, nonostante tutto, la fotografia era l'unica cosa capace di rendermi felice.

Mi strappava dalla realtà, concedendomi un attimo di tregua prima di riportarmi indietro.

Tenni gli occhi incollati alla pellicola.
«Non posso più difenderlo, papà.» mormorai, con voce spezzata.

«Non è colpa del lavoro. Non è colpa dello stress. Non è colpa della mia maglia. John è così. È così da anni, ma io inizio a vederlo solo ora e...» deglutii a vuoto, prendendo tempo.

Temevo di crollare.

«Mi fa male il petto...» soffiai, ed un tremolio s'impossessò delle mie labbra.

«Mi fa male qua, papà.»
Sollevai una mano e la posai sul cuore, con cautela, come se temessi che potesse frantumarsi in mille pezzi da un momento all'altro.

Il nodo in gola si strinse ancora di più, serrandomi la voce in una morsa. Gli occhi iniziarono a bruciarmi, e mi sentii piccola, fragile, come se il peso di tutto ciò che avevo ignorato fino a quel momento mi fosse improvvisamente crollato addosso.

«Ho provato a giustificarlo... ho provato davvero,» un brivido mi percorse completamente. «Ogni volta dicevo a me stessa che non era così grave, che non lo pensava davvero, che forse ero io a sbagliare. Ma non è vero. Non è mai stato vero.»

Strinsi le dita sulla maglia, proprio sopra il cuore, come se quel gesto potesse alleviare il dolore che mi stava lacerando dentro.

«Non voglio più sentirmi così,» la mia voce si ridusse ad un soffio. «Non voglio più stare così per lui.»

Eppure, anche mentre pronunciavo quelle parole, una parte di me tremava. Perché dopo sei anni, l'idea di una vita che non lo includesse un po' mi faceva paura.

Abbassai lo sguardo sulla pellicola tra le mani, ma l'immagine sbiadita mi sembrava irraggiungibile. Proprio come lo ero stata io, intrappolata in una realtà che non volevo vedere, soffocata da scuse che avevo ripetuto così tante volte da convincermene davvero.

«Sai qual è la cosa peggiore, papà?» domandai, ma non attesi risposta. La sapevo già.

«Non è il dolore.» sorrisi, un sorriso amaro. «Non sono le notti passate a convincermi che domani sarebbe stato diverso. Non è nemmeno il modo in cui ho imparato a trattenere il fiato quando si arrabbiava, come se bastasse non respirare per non esistere.»

Chiusi gli occhi un istante, cercando di fermare la marea che premeva dietro di essi. Non avrei pianto.

«È che per troppo tempo ho creduto che sarebbe stato per sempre,» il mio sussurro si disperse tra il fruscio delle foglie e il mormorio del fiume. «E adesso... adesso non so più chi sono senza di lui.»

L'ammissione mi esplose dentro come una crepa improvvisa, una frattura silenziosa che però sentii in ogni fibra del mio essere.

Tremavo, ma non per il freddo. Tremavo perché stavo finalmente vedendo ciò che avevo rifiutato per così tanto tempo.

E faceva male.
Dio, se faceva male.

Rigirai la pellicola fra le mani per l'ennesima volta, prima di lanciarla in aria e vederla atterrare sull'acqua del fiume.

«Vorrei tanto che fossi qui per abbracciarmi... Ne ho davvero bisogno.»

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Il ritorno a casa avrebbe richiesto più tempo del previsto, e questo perché, non sapevo bene come, avevo finito per allungare la strada.

Ero convinta di aver bisogno di fare un paio di passi, ma dopo appena dieci minuti, i miei piedi cominciarono a ribellarsi, rallentando drasticamente.

Com'era possibile fossi già stanca?
Dovevo vergognarmi.

Strisciai i piedi sul marciapiede con forza, finché, ad un certo punto, non avvertii una strana sensazione.

Era solo una sensazione vaga, un leggero fastidio che non riuscivo a definire, ma che, nonostante la strada che stavo percorrendo fosse deserta, mi inquietava parecchio.

Così ci provai.
Guardai dietro di me, distrattamente, e per un istante mi chiesi se fosse solo la mia paranoia. Ma poi la vidi.

Un'auto nera, avvolta nell'oscurità e senza luci accese, sembrava aver appena rallentato.

Si trovava ad una distanza ambigua.
Non troppo vicina, ma neanche abbastanza lontana da nascondermi la sua presenza. 

Provai a non reagire.

Non volevo che si accorgesse che l'avevo notato, dovevo far finta di niente, anche se il respiro si fece da subito più corto.

Ad ogni passo sentivo la macchina seguirmi, così provai a camminare più velocemente, ma l'auto aumentò la velocità a sua volta ed il cuore iniziò a battere più forte.

Sapevo che qualcosa non andava, non poteva essere solo una sensazione. Ogni movimento che facevo, ogni angolo che giravo, l'auto sembrava rispondere.

Di colpo era come se avessi perso il controllo della strada, come se fossi diventata solo una pedina in un gioco che non riuscivo a vedere.

La paura cominciò a insinuarsi, ma cercai di mantenere la calma. Ogni passo era un atto di resistenza ed io non volevo correre.

Non volevo dare la soddisfazione di mostrarmi spaventata, anche se, dentro di me, sentivo che qualcosa di pericoloso stava per accadere.

Sentii il battito del mio cuore esplodere nella mia testa, mentre il terrore prendeva il sopravvento.

L'auto era ancora lì ed era sempre più vicina.
Non potevo più ignorarla.

Un'ondata di panico mi travolse. Non c'era più tempo per pensare e, senza pensarci un attimo di più, iniziai a correre.

I miei passi erano frenetici, le gambe si muovevano come se non appartenessero più al mio corpo.
Ogni respiro era affannoso, mentre cercavo disperatamente un angolo dove nascondermi.

Svoltai in un vicolo stretto, le pareti dei palazzi che sembravano schiacciarmi da ogni lato.
La luce fioca dei lampioni tremava come se anch'essa avvertisse il pericolo che si stava avvicinando.

All'improvviso, un suono sordo squarciò la notte, e un urlo mi sfuggì dalle labbra.

Un colpo di pistola.

L'esplosione mi ghiacciò il sangue nelle vene. Un fremito gelido percorse la mia spina dorsale e, per un istante, il tempo sembrò fermarsi.

Un altro sparo. Poi un altro, più vicino.

Sentii il vento caldo del proiettile passarmi accanto , e tremai. Tremai come una forsennata, correndo ancora più veloce.

Dovevo continuare per quel vicolo. Dovevo seminarli. Dovevo nascondermi.

Poi, sentii il rumore dell'auto fermarsi, il motore spegnersi, e la consapevolezza che non avevo scampo mi colpì come un pugno allo stomaco.

Non potevano seguirmi lì dentro in macchina.
Dovevano scendere per forza e proseguire a piedi.

L'ultimo proiettile sibilò nell'aria, liberai l'ennesimo urlo disperata, chiedendomi se fossi abbastanza lontana.

Non lo sapevo, e non osai fermarmi per scoprirlo.

Il vicolo si faceva sempre più stretto e il respiro mi usciva a fatica, ma dovevo proseguire, forse di questo passo sarei davvero riuscita a seminarli.

Proseguendo dritta, avvistai la fine del vicolo, ma non appena mi allontanai dalle alte mura di mattoni, sentii due braccia afferrarmi con forza, attirandomi a sé.

L'impatto fu violento, il mio corpo si schiantò contro quello di un uomo con una tale violenza che per poco non rischiai di cadere.

Cercai disperatamente di scivolare via dalla sua presa, convinta si trattasse di uno degli uomini che mi stava inseguendo, ma non appena incrociai il suo sguardo, riuscii finalmente ad esalare un respiro.

Sentii le sue mani forti attorno ai fianchi.
«Cora?»

Lui mi guardò, sorpreso e confuso, ma la mia mente era solo una nuvola di terrore.

«Alan?»







Fofinhas🦭

Ce l'abbiamo fatta!🙏🏽
È stato un periodo un po' così e mi dispiace che a rimetterci siano sempre i capitoli, ma spero di ritrovare presto un po' di stabilità e tornare ad essere costante!💗🤞🏽

Cosa ne pensiamo di questo capitolo?
Indovinate un po'? A me non convince. (🙃)  Fatemi sapere voi cosa ne pensate della piega che sta prendendo la storia e del ritorno di questo personaggio.
Sono curiosa di leggervi.🖤🎀

Stellina se vi è piaciuto e io vi aspetto su IG per commentare il capitolo insieme.🖤

Ci vediamo al prossimo aggiornamento.🫂
Grazie mille di seguire WYA♟️

IG: @karinastrs
Tiktok: @karinastrs

Take care of urself, please.🦋✨
Karina🖤

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