18. (S) A woman's word
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La malattia del secolo è
la sindrome del piedistallo.
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Flashback
7 anni prima - 2016
Corea del Sud
La mia vita non era come quella delle mie coetanee.
Non lo era mai stata.
Non frequentavo la scuola pubblica e non mi era permesso praticare sport.
Non avevo una compagnia con cui uscire e non avevo un'amica d'infanzia a cui confidare i miei segreti più intimi.
Non avevo un fidanzatino con cui fare le prime esperienze e, infine, non avevo una famiglia unita ed amorevole.
Gli amici di mamma e papà avrebbero detto di sì. Avrebbero giurato che quella messinscena, quella della coppia felicemente sposata, fosse reale, ma loro non sapevano la verità e, in fondo, forse nemmeno io.
«Sig.na Sena? È ancora con me?»
Battei le palpebre stordita, mettendo a fuoco l'elegante figura della signora Ling, la mia istruttrice.
Due gentili occhi a mandorla mi carezzarono il viso, prima di posarsi sul quaderno che tenevo sotto al naso. «Non ha sentito neanche una parola, non è così?»
Schiusi le labbra, decisa a giustificarmi in qualche modo, ma la richiusi subito dopo, colpevole.
«Il cinese lo so parlare. Non basta?»
La giovane donna mi rivolse uno dei suoi sorrisi migliori, mantenendo la postura composta che tanto la caratterizzava.
«Scrivere aiuta a tirare fuori i pensieri dalla testa ed a dare loro una forma. Saperlo parlare è di fatto un grande traguardo, ma sarebbe un peccato non concludere il ciclo d'insegnamento.»
Sapevo quanto mio padre tenesse all'istruzione. Era diventata un'ossessione per lui. Eccellere in lingue come il coreano, l'inglese, il tedesco e lo spagnolo, evidentemente non gli bastava più.
Fortunatamente il cinese avevo avuto modo di impararlo durante gli anni, essendo mia mamma originaria di lì e, come avesse udito il mio richiamo, questa apparì poco dopo sulla soglia del grande soggiorno.
«Sig.a Sun.»
La mia istruttrice si alzò in piedi, assicurandosi di riceverla con un leggero inchino in segno di rispetto ed io feci lo stesso.
Dall'altra parte, mia mamma, stretta nel suo abito formale, si limitò a congedarla con un gesto di mano, segnalando il suo desiderio di rimanere sola con me.
Prese a camminare, aggirando il lungo tavolo, ed il ticchettio dei suoi tacchi accompagnò l'aura sfarzosa.
Mia madre, Hua Sun, rappresentava in tutto e per tutto l'ideale di bellezza in Cina. Grandi occhi neri e tondeggianti e naso piccolo. Bocca minuta e delicata con labbra morbide che venivano considerate da tutti attraenti. E, infine, degli zigomi alti e delle guance leggermente piene contornate da capelli lunghi, neri e lisci.
Il corpo magro e slanciato era fasciato da una sottile camicetta bianca con volant e da dei pantaloni a palazzo neri ed eleganti. Ai piedi, invece, portava i suoi inseparabili tacchi. Sembrava non riuscire a viverci senza.
«Mi dispiace aver interrotto la tua lezione,» si affrettò a parlare, facendomi segno di accomodarmi e prendendo posto sulla sedia al mio fianco. «Ma si tratta di una cosa importante.»
Lo sapevo. Se fosse stato il contrario, mai si sarebbe permessa di irrompere durante le mie lezioni. Mio padre lo riteneva un vero e proprio sacrilegio.
Acquisii una postura più diritta. «Di che cosa si tratta?»
Le iridi color pece vagarono qualche istante sul mio viso, prima di scontrare le mie, leggermente più chiare.
«Ho parlato con tuo padre, Sena, e...» il silenzio a seguire fu tanto lungo quanto assordante, e lo odiai. «Ha deciso che torneremo a vivere in America.»
Mi irrigidii, ma cercai di non darlo a vedere.
Non ero autorizzata a mostrarmi contrariata e, nonostante con lei fossi un po' più libera di esprimermi, in quel momento sentivo di non poterlo fare, di non poter palesare a pieno la mia frustrazione.
Perché la nostra cultura era anche questo: un cappio alla gola di ogni donna e bambino. Una corda talmente stretta da privarti dello stesso diritto di parola.
«Posso chiedere il perché?» tentai, desiderosa di saperne di più.
Era in parte a causa dei continui trasferimenti che avevo vissuto un'infanzia a metà.
Corea, Cina, Nord America.
E di nuovo.
Corea, Cina e Nord America.
Un patetico e disperato tentativo di trovare fissa dimora, strappato via per l'ennesima volta.
«Tuo padre sta riscontrando dei problemi a lavoro, e...» si è indebitato di nuovo.
«Credevo che scappare non fosse la soluzione. Me l'avete insegnato voi.»
Mia mamma si strinse nelle spalle, tradendo un'espressione affranta. Riuscivo a percepire il dispiacere sebbene fosse molto brava a camuffarlo.
«Non è una fuga,» sembrò dirlo più a sé stessa che a me. «È un modo per iniziare una vita nuova. Lontano da tutto questo.»
Ingoiai a vuoto. Tutto questo, che cosa?
«A me piace la Corea.»
Lei annuì, comprensiva. «So che hai soltanto quindici anni e chiederti di comprendere sarebbe troppo, ma se non fossi mia figlia te ne avrei dati di più e questo perché sei molto matura, Sena. Sono sicura che alla fine capirai ed accetterai la situazione.»
Capire? No.
Accettare? Sì.
«E le mie lezioni di canto?»
«Non devi preoccuparti di questo. Faremo in modo di trovarti un'insegnante anche là. Nessuno ti priverà del tuo amato canto, figlia mia. Non anche di questo, te lo prometto.»
Volevo crederle. Ogni singola molecola del mio corpo voleva, ma ero consapevole del fatto che, in quella famiglia, non era lei a prendere le decisioni. Purtroppo, infatti, la sua parola valeva meno di zero.
«C'è un'altra cosa...»
L'aria divenne improvvisamente superflua perché smisi di respirare.
«In America c'è una persona che vuole conoscerti.»
Fine Flashback
Presente
Il concentrato di stress che avevo accumulato in quegli ultimi giorni mi stava facendo impazzire.
Il tempo proseguiva, ma io non riuscivo a stare al passo. Era come se ogni mattina fosse la stessa mattina, perché la vivevo con la stessa identica angoscia di tutte quelle precedenti.
Mi svegliavo impaurita e andavo a dormire impaurita.
La mia vita era costantemente oppressa da emozioni negative, perché sapevo che, nell'ombra, qualcuno seguiva ogni mio movimento.
Era per lo più una sensazione, un nodo allo stomaco che mi portava a temere ogni angolo, albero e vicolo. Qualsiasi luogo non mi fosse possibile raggiungere con lo sguardo.
E questo fino a ieri notte, quando i miei presentimenti si materializzarono, mostrandosi a me sotto forma di sagoma inghiottita dal buio.
Una figura alta e robusta, simile a quella di colui che mi aveva quasi tramortita, sbucava appena da dietro una delle auto, ed io l'avevo vista, esattamente prima che questa potesse nascondersi ai miei occhi.
Da lì, la conversazione fra me ed Ashton prese una piega diversa. Io tremavo e temevo per la sua vita e lui cercava di leggermi, con un cipiglio sul viso e la preoccupazione nello sguardo.
Non lo sapeva ancora ma, fra i due, quello ad essere in pericolo era lui, ed io avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per tenerlo in vita, a cominciare dal convincere il suo amico a tenere la bocca chiusa.
Felix aveva promesso, ma quanto avrei dovuto fidarmi della parola di un perfetto sconosciuto?
Perché questo era... uno sconosciuto.
Quando raggiunsi la stazione per le trazioni, l'assenza del pedana mi riportò coi piedi per terra.
Feci scattare lo sguardo a terra, alla ricerca dell'unico strumento che mi avrebbe permesso di arrivare alla sbarra, finché non lo trovai.
Due macchinari più in là, una coppia di amici la usava per svolgere del jumping fitness. Fantastico.
Sbuffai sonoramente e, convinta di non riuscire ad arrivarci senza, decisi di passare al prossimo esercizio, quando un paio di pettorali, ampi e ben definiti, mi bloccarono la strada.
«Sul serio? Non ci provi neanche?»
Il timbro profondo della voce di Felix mi solleticò i sensi, proprio un attimo prima che potessi finirgli addosso.
«Che diavolo ci fai tu qui?»
Lo sguardo che mi rivolse volle parlare da sé, ma non riuscì proprio a non fare lo stronzo.
«Riprendiamo con le domande stupide, Sena?»
E fu così che capii che quell'attimo di confidenza, la notte prima all'ospedale, non aveva cambiato nulla, ma ne ero felice.
Non volevo alcun tipo di trattamento speciale da parte sua e, anche se a quel giro me l'ero cercata, com'era possibile che fra tutte le palestre della città noi frequentassimo proprio la stessa?
«Ti trovi sempre dove mi trovo io. Perdonami se mi sembra strano.» ribattei.
Lui fece una smorfia e le lentiggini sul suo viso si dilatarono, sembrando più grandi.
«O magari sei tu a trovarti sempre dove mi trovo io.»
Non riuscii a trattenermi. Lo schernii all'istante, cominciando a ridere. «Smetterei di venire in palestra piuttosto che condividere di proposito lo spazio con te.»
«Allora questa sarà l'ultima volta che ti vedo qui, giusto?»
Non volle darlo a vedere, ma ne ero sicura, al suo ego la mia uscita non era piaciuta ed i tratti duri del suo viso ne erano la prova.
«Temo di essermi iscritta prima di te,» esalai, certa di non averlo mai visto nei mesi precedenti. «E ora, a meno che tu non sappia dove posso trovare una pedana, ti saluto.»
Non gli avrei permesso di avere l'ultima parola, così come non gli avrei permesso di disturbare il mio allenamento.
Feci per sorpassarlo, ma lui mi precedette, tagliandomi la strada. Il calore del suo petto mi sfiorò il naso ed il forte odore tabaccato mi stregò le narici.
«Si può sapere che stai facendo?»
L'indice tatuato indicò la sbarra in acciaio.
«Devi fare i sollevamenti, no?»
Inspirai forte, spostando il peso da una gamba all'altra in attesa che continuasse, ma quando la mia richiesta venne esaudita, non seppi come comportarmi.
«Come?» domandai, convinta di aver capito male.
«Batti il cinque, Sena.»
Il mio sguardo passò dalla grande mano sollevata, al suo viso e così un altro paio di volte prima che mi decidessi a batterglielo.
«Batti cinque.» ripetè, e la mano si alzò leggermente.
Ignorai la confusione che mi stava assalendo e ripetei quel gesto.
Al quarto 'batti cinque' la sua mano mi sembrò altissima, ma aspettava di essere battuta e così feci, riuscendo nel mio intento senza perdere l'equilibrio.
«Riprova ora.» esclamò infine, indicando la stazione per le trazioni con un cenno di capo, prima di darmi le spalle ed allontanarsi.
Mi ci volle qualche istante per capire cosa fosse appena successo, ma prima di saltare a qualsiasi conclusione affrettata, decisi di provare a dargli ascolto.
Mi avvicinai al macchinario e seguii il suo consiglio.
Saltai tanto quanto avevo saltato per battergli l'ultimo cinque e quando le mie mani raggiunsero e avvolsero la superficie fredda della sbarra, io rimasi a bocca aperta.
Mi sentii talmente stupida per non averci neanche provato che una parte di me, quella rimasta folgorata dal suo gesto, sentiva di doverlo ringraziare.
Mi aveva aiutata e non solo, mi aveva mostrato come farlo da sola, perché sapeva che ci sarei riuscita, perché sapeva che ci potevo riuscire.
Lo sapeva lui.
Ma non lo sapevo io.
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Quando conclusi l'allenamento, un'ora e mezza più tardi, sentivo un'urgente bisogno di infilarmi sotto la doccia.
Giorni come quelli occupavano tempo e richiedevano più sforzo del normale, ma sapevo di dover rispettare la scheda se volevo ottenere dei risultati ed ero soddisfatta di riuscire sempre a completare gli esercizi.
Una volta spogliata, m'infilai sotto al primo soffione libero nella minuscola zona docce e non appena l'acqua calda incontrò il mio corpo, i muscoli si distesero.
Chiusi le palpebre beandomi di quell'attimo di relax e m'imposi di non pensare a niente. A niente di niente. Non al mio ex. Non all'uomo che mi perseguitava. E non ad Ashton.
Ero al sicuro, mi ripetei. Ero lontana da occhi indesiderati. Lontana da presenze opprimenti.
Il mio sguardo cadde sui rimasugli del livido che ancora colorava il mio fianco e non potei non domandarmi se stessi sbagliando in qualcosa.
L'acqua scorreva, mi accarezzava il corpo, sfiorando la chiazza giallognola che macchiava la mia pelle bianca e, intanto, i pensieri ed i quesiti mi invadevano la mente, demolendo il mio desiderio di farli smettere.
Amavo follemente il silenzio, e questo perché lo vivevo poco.
Afferrai un paio di jeans scuri e un maglioncino dello stesso colore e una volta indossati, recuperai la borsa e mi preparai per raggiungere l'ospedale e dare il cambio alla Torres.
Mi toccava di nuovo il turno notturno e sebbene la cosa mi creasse parecchia ansia, non avevo altra scelta. La mia collega aveva degli impegni quella sera e non potevo di certo abbandonare la reception per paura.
«Dove vai?»
La sua voce mi prese alla sprovvista una volta abbandonato lo spogliatoio femminile e per poco non morii di spavento.
Mi voltai furiosa, pronta a dirgliene quattro, ma non appena ci trovammo uno di fronte all'altra, le parole sfumarono e dalle mie labbra fuoriuscì soltanto un respiro sommesso.
Rimasi immobile e mi vergognai.
Mi vergognai dei miei stessi occhi per star ammirando e apprezzando ciò che stavano guardando, ma non riuscii a fare altrimenti.
Felix era bellissimo.
Lo avevo sempre pensato ma, in quello stato... con il forte petto che si alzava e si abbassava alla ricerca d'aria, con i ciuffi bagnati che cadevano sulla fronte imperlata dal sudore e con i muscoli tesi segnati dallo sforzo fisico... lo era persino di più.
Il suo fascino era innegabile.
Percepivo la virilità che il suo corpo aitante emanava e godevo della bellezza dei tratti del suo viso.
Più lo si guardava e più si rischiava di venir risucchiati dall'aura oscura e magnetica che sprigionava.
Lui respirò forte, spazientito ed io riuscii finalmente a richiamare un po' del mio buon senso.
«Che t'importa?»
«Sei in macchina?» domandò ancora.
«No,» concessi. «Sono a piedi.»
Felix sembrò confuso. «Vai all'ospedale a piedi?»
Aggrottai la fronte. «Come sai che devo andare lì?»
Il suo sguardo vagò qualche secondo, prima di tornare su di me. «Faccio la doccia e ti porto io. Dammi cinque minuti.»
Lui fece per muoversi, come la conversazione fosse finita lì, come la sua parola fosse l'ultima ed io sentii i nervi a fior di pelle.
Non solo non aveva risposto alla mia domanda, ma cercava persino di far valere la sua parola sulla mia, dandomi ordini.
«No,» sbottai, facendolo voltare. «Tu non mi dici cosa fare. Non rivolgerti a me come avessi potere decisionale, perché non ce l'hai.»
Lui mosse un passo e non appena il suo respiro accarezzò la mia fronte, io mi sentii piccola.
«Lascia che ti spieghi perché ti stai sbagliando,» soffiò lento, infastidendomi. «Io sono a conoscenza di una parte, chissà quanto piccola e rilevante, del segreto che stai nascondendo ad Ashton e se non vuoi che venga a saperlo, allora farai esattamente come ti dico. Mi aspetterai qui.»
Il sangue prese a ribollirmi nelle vene ed il desiderio di mettergli le mani addosso aumentò. Felix si esibì in un sorrisetto sghembo prima di darmi le spalle e sparire dentro allo spogliatoio maschile.
Stronzo...
Stronzo, stronzo, stronzo.
Dio, come avevo potuto rivelarlo a lui? Come?!
Fra tutte le persone... perché mi ero lasciata scappare quell'informazione proprio con lui?
Serrai le labbra, ritrovandomi a girare per quel corridoio, minuscolo ed anonimo, nel patetico tentativo di placare la rabbia che continuava a bruciarmi il petto.
Ero furiosa, perché odiavo che mi si dicesse cosa fare. Ma ancora di più odiavo il modo in cui mi ero ritrovata a sottostare ai suoi ordini, consapevole del fatto che se avessi tenuto la bocca chiusa a quell'ora Felix non mi terrebbe in pugno.
Non sopportavo di obbedire agli uomini. Non sopportavo il fatto che credessero di avere sempre il diritto e la libertà di imporre il loro volere su quello delle donne.
Non ero più in Corea, e nonostante i grandi progressi degli ultimi decenni, non ero più costretta a subire una cultura intrisa di maschilismo. Non una cultura che che affondava le sue radici nel patriarcato, non un sistema sociale dove il potere era in mano agli uomini.
Lo stato in cui viveva mia madre non era più una condizione che sarei stata in grado di sopportare. Non più. Non da quando se n'era andata.
La mia mano raggiunse e avvolse il ciondolo dello yin e dello yang, e la nostalgia mi stritolò il cuore nel petto nello stesso istante in cui un moto di irrazionalità prese il sopravvento.
«...Mi aspetterai qui.»
No.
Non lo farò.
L'attimo dopo, i miei piedi si mossero da soli ed io mi ritrovai nello spogliatoio maschile, con una decina di occhi posati addosso.
C'era chi sghignazzava divertito e chi invece m'inceneriva con lo sguardo. Chi aveva iniziato a parlottare e chi invece pensò bene di avvicinamisi con assolutamente niente addosso.
Rimasi sul ciglio della porta, immobile e, col senno di poi, capii che non era stata proprio un'ottima idea.
Ero così arrabbiata che non avevo neanche pensato alle conseguenze che avrebbe avuto quell'azione, ma non avevo alcuna intenzione di aspettarlo fuori come una brava cagnolina.
«Ti sei persa, dolcezza?,» parlò l'uomo, quello nudo, piazzandosi al mio fianco. «O eri in vena di rifarti gli occhi?»
Incollai lo sguardo ad uno degli armadietti dinanzi a me e non osai muoverlo neanche per errore.
«Non sei abbastanza appetibile per usi del genere, ma grazie per la preoccupazione.» sibilai.
Lo sentii soffiare forte dal naso, probabilmente offeso, probabilmente infastidito, quando una seconda figura gli si avvicinò.
«Hai una bella lingua affilata considerando che hai appena violato la nostra privacy,» esalò l'amico con fare saccente. «Posso sapere il tuo nome?»
Dovevo andarmene. Fare dietrofront e lasciare a queste persone il loro spazio. Che diavolo mi era saltato in mente? E che diavolo ci facevo ancora lì?
«Scusatemi.» mi affrettai a dire e quando feci per raggiungere la maniglia in metallo, una mano mi bloccò per un polso.
«Non devi scusarti. Facci compagnia, poi potremmo andare a bere qualcosa insieme. Che te ne pare?»
Una grossa testa con un'altrettanta grossa stempiatura aveva appena fatto scattare un campanello d'allarme nella mia testa.
Tenni lo sguardo incollato al suo, per paura di poterlo abbassare sul suo membro, ma l'espressione lussuriosa che mi rivolse, mi fece accapponare la pelle.
«Mollami o mi metto a gridare.» lo minacciai, fingendo una sicurezza e una calma che non possedevo.
Le gambe tremavano ed il cuore batteva così forte che credetti mi sarebbe esploso nel petto. Dei brividi gelidi partirono dal polso, diramandosi in ogni dove ed io mi maledii mentalmente per essermi infilata in quello spogliatoio.
«Hai sentito? La ragazza ha voglia di gridare.»
sghignazzò l'uomo dai minuscoli occhi scuri, cercando l'appoggio dell'amico che, però, si limitò a rivolgergli uno sguardo schifato.
Non sembrava affatto divertito da quello scenario.
«Lasciala Kent, ha soltanto sbagliato spogliatoio.»
«Io dico di no,» la presa si trasformò in una carezza. Mi sentii lo stomaco in gola. «Credo proprio che l'abbia fatto apposta.»
Schiusi le labbra, pronta ad insultarlo e a dimenarmi perché mi lasciasse, quando una figura apparì in fondo al corridoio ed io mi ammutolii.
Alto, robusto e con soltanto un asciugamano a cingergli i fianchi muscolosi, Felix aveva appena depositato due iridi nocciola nelle mie e non erano affatto felici di vedermi.
«Toglile quella lurida mano di dosso.»
L'uomo si accorse soltanto allora della presenza di Felix. Percepii un forte bisogno di rispondergli a tono, ma questa scemò poco dopo, quando i suoi occhi notarono i muscoli tesi delle larghe spalle e i pugni serrati lungo il corpo.
«Mi stavo giusto offrendo di mostrarle lo spogliatoio femminile.» esclamò l'uomo, fingendo un'aria angelica che chiaramente non gli apparteneva.
Felix cominciò a camminare e l'uomo proseguì: «Deve essersi persa. In fondo le porte sono una di fianco all'altro. Può succedere.»
Quando ci raggiunse, la prima cosa a cui pensò fu di liberarmi il polso da quella presa. «Ora dovrà lavarsi di nuovo a causa tua e del tuo viscidume.»
L'uomo sembrò scosso da quell'uscita, ma Felix non sembrò intenzionato a risparmiarlo.
«E vestiti, coglione. Fossi in te non vanterei quei due centimetri di cazzo che ti ritrovi.»
Non feci in tempo a capire cosa fosse appena successo che mi sentii afferrare per una mano e trascinare all'interno dello spogliatoio.
Felix si fermò dinanzi a quello che immaginai essere il suo armadietto, estrasse una maglia nera e me la lanciò addosso.
«Copriti il viso. Non c'è niente da vedere.»
Non me lo feci ripetere. Usai la maglia come fosse un velo e me lo misi in testa per evitarmi altre sorprese indesiderate.
«Si può sapere perché diavolo sei entrata?»
La voce dura mi raggiunse in una nota debole, ma io mi sentii come mi avesse sgridata. E questo perché, in fondo, aveva tutte le ragioni per farlo.
Mi rigirai su me stessa a disagio e in colpa, con un fianco appoggiato all'armadietto e soltanto un po' di luce a filtrare dallo spazio aperto. Volevo evaporare.
L'avevo fatta grossa, eppure non ero una persona sconsiderata e ne tanto meno impulsiva. Non ero nota per fare delle pazzie, anzi. Meditavo all'infinito sul da farsi e tendevo ad organizzare qualsiasi cosa. Non avevo idea del come fossi finita in quella situazione.
«È meglio se esco. Ti aspetto fuori.» esordii, quando subito dopo, il buio lasciò spazio alla luce.
Felix mi liberò il viso mostrandosi a me con indosso una canotta nera e un paio di jeans dello stesso colore.
«Non c'è più nessuno.»
Mi guardai attorno ed era così. Il minuscolo spogliatoio dai colori grigiastri, nel frattempo, si era svuotato e noi eravamo rimasti soli.
Mi sentii di colpo più tranquilla, sebbene Felix insistesse nel rivolgermi il suo sguardo più truce. Questo si accomodò sulla panchina che si trovava fra le due file parallele di armadietti ed io rimasi in piedi, in attesa che finisse di indossare le sue scarpe, un paio di Nike nere.
«Sto ancora aspettando.»
Inspirai forte. «Cosa vuoi sentirti dire, Felix? Che sono una stupida e che ho sbagliato ad entrare negli spogliatoi maschili?»
«Una cosa del genere, sì. Ma dillo come se ci credessi.» sibilò, allacciando la scarpa destra.
La confusione prese il sopravvento. «Che vuoi dire?»
Lui scattò all'impiedi e rimase così qualche istante, diritto a fissarmi con aria ostile. Quell'attesa mi straziò la mente.
«Che le persone come te non credono di sbagliare.»
«Le persone come me? Che ne sai di che tipo di persona sono?»
Sollevò una mano, additandomi. «Ce l'hai scritto in faccia.»
Come? Più la conversazione proseguiva e più ero convinta di non capirlo. Che diavolo significava? Che razza di persona credeva fossi?
Felix recuperò il suo borsone dall'armadietto, quando un foglio bianco, ingiallito e consumato dal tempo, cadde da questo e prese a svolazzare in aria, prima di atterrare sul pavimento in mattonelle.
Mi chinai a raccoglierlo. «Hai perso questo.»
Allungai una mano per porgergliela, ma non appena il suo sguardo si posò sul pezzo di carta che stringevo in mano, il suo viso venne attraversato da un lampo di agitazione e quello che accadde dopo mi spiazzò.
Felix agguantò il mio polso e l'attimo dopo la mia schiena finì contro all'armadietto, producendo un suono sordo.
Il braccio libero mi bloccò ed io mi sentii completamente disorientata, con due occhi furenti addosso e l'ansia a pomparmi il sangue tre volte più velocemente.
«Non ce la fai proprio a tenere le mani apposto?,» sbraitò ad un niente da me, facendo scattare la mandibola. «Non ce la fai, cazzo?»
Era impazzito? Che diavolo gli era preso?
«Levami le mani di dosso, Felix, subito!»
Due iridi rabbiose mi trafissero ed io continuai a non capirci niente. Il foglio mi venne strappato via dalle mani e finalmente mi liberò da quella prigionia forzata.
Credetti si sarebbe allontanato, che mi avrebbe dato le spalle come aveva già fatto più volte quel pomeriggio, e invece non lo fece.
Lui rimase immobile, in piedi di fronte a me ed io riuscii a scorgere la tensione nei suoi muscoli.
I pugni, stretti lungo il corpo, misero in rilievo le vene, mentre lui continuava a rivolgermi uno sguardo che sembrava capace di uccidere.
Possibile si fosse arrabbiato cosi soltanto per uno stupido pezzo di carta?
«L'hai letto?»
Scossi il capo, stravolta. «Ti sembra comunque una reazione normale d'avere?»
Il suo pomo d'Adamo si mosse su e giù, palesando impazienza. «L'hai letto o no, Sena?!»
«No!» quasi gridai. «Ti è caduto dal borsone mentre sistemavi la tua roba! L'ho raccolto per restituirtelo, ma non ho fatto in tempo che hai dato di matto. Ti sembra normale?»
Agitai le braccia, prima di levarmelo da davanti e prendere le distanze. «Tu sei pazzo... Che diavolo di problemi hai?»
Felix m'ignorò. Strinse il foglio fra le dita e lo infilò nel suo borsone con una calma dilaniante.
Cosa c'era scritto fra le righe di quel foglio spiegazzato? Che diamine conteneva di così importante da portarlo a reagire in quel modo qualora qualcuno gli si avvicinasse?
La mente venne innondata da pensieri, ipotesi, quesiti, ma sapevo che erano soltanto supposizioni e che la verità non gli si sarebbe avvicinata neanche lontanamente.
«Non devi capire. Non devi neanche sforzarti a farlo,» esclamò la voce, improvvisamente atona e priva di brio. «Lascia che ti accompagni. Solo per questa volta. Dopodiché dirò ad Ashton che io non posso farlo...»
I nostri sguardi si amalgamarono. L'attesa fu breve ma significativa, perché, in quel lasso di tempo, il mio cervello collegò i primi pezzi del puzzle.
«Io non posso proteggerti.»
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Era pazzesco come mi fosse bastata un'informazione affinché tutto il quadro acquisisse del senso.
Pazzesco era come l'idea che Ashton potesse c'entrare in qualche modo non mi fosse nemmeno passata per la testa.
Eppure era così e non mi servì domandare per accertarmene, perché l'uscita di Felix era già di per sé una risposta.
Mi domandai se fossimo finiti davvero nella stessa palestra per caso o se c'entrasse, anche lì, Ashton. E se avessero stabilito una sorta di piano ed io fossi all'oscuro di tutto.
La voglia di dar voce ai miei pensieri era forte, ma l'aria tesa che si respirava all'interno dell'auto non era delle migliori.
Il mio sguardo scivolò sui LED rosa che decoravano gli interni. Avevo capito subito trattarsi della macchina di Ashton. Doveva averla adornata in quel modo per Jia, sua sorella.
E, al suo ricordo, mi sfuggì un sorriso nostalgico.
«Aspetta qua. Torno subito.»
La portiera si richiuse, producendo un forte tonfo e fu soltanto allora che mi accorsi di esserci fermati.
Seguii Felix camminare sul vialetto in ghiaia prima di raggiungere la porta e sparire all'interno di una graziosa villetta a schiera. Era casa sua?
Approfittai della sua sparizione per scendere dall'auto e sgranchirmi le gambe. Mi guardai attorno, cercando di cercare di capire dove ci trovassimo, ma non riconobbi il quartiere.
Possibile avesse deviato e non me ne fossi accorta?
«Salve.» mi salutò una voce, debole e lontana.
Quando mi voltai, di fronte all'abitazione in cui poco prima si era infilato Felix, una donna in carrozzina mi sorrideva.
Aveva un viso dolce segnato appena dalle rughe. Capelli castani raccolti in uno chignon. Due grandi occhi nocciola e un naso piccolo, le Le labbra colorate di rosso erano increspate a formare un sorriso incantevole. Teneva le mani posate sulle gambe e queste erano avvolte da una copertina invernale.
«Buonasera.» salutai con un leggero inchino.
«Sei un'amica del mio Felix?» domandò.
'Mio'. Doveva essere la madre.
Boccheggiai qualche istante.
«Io... sono una collega di lavoro.»
Amica? Non avrei utilizzato quel termine per descrivere quello che eravamo.
La donna annuii, pensierosa, lisciando il tessuto morbido che portava sulle gambe. «Come ti chiami, cara?»
«Sena.»
«Ti va di entrare, Sena?»
Le sorrisi grata, ma sapevo che Felix non avrebbe approvato, così feci per declinare l'invito, quando questo apparì e mi precedette.
«No. Ce ne stiamo andando.» tuonò lui, di fretta.
«Ma, Felix...» tentò lei, senza risultati però, perché Felix la ammonì all'istante.
«Torna dentro.»
Venni travolta dalla sua agitazione e in men che non si dica rientrai in auto, accomodandomi nel sedile anteriore del passeggero.
Udii l'accensione del motore, quando con un cenno di mano salutai la donna, ancora ferma immobile dinanzi all'ingresso della sua casa.
Com'era possibile trattare così una madre? Com'era possibile essere così stronzi e non avere neanche un minimo di riguardo nei confronti della persona che ti ha messo al mondo e che chiaramente non stava bene?
Mi sentii un vuoto allo stomaco. Mi sentii male per lei e per come l'aveva trattata ed il desiderio di insultarlo divenne sempre più grande, perché lui una madre l'aveva ancora e quello era il trattamento che le riservava.
«Avresti potuto essere più gentile.» rivelai, con una nota di tristezza nella voce.
«Non dirmi cosa avrei dovuto fare, Sena. Tu fai costantemente quello che non dovresti.» sputò, palesando la rabbia che provò a quell'intromissione.
Mi voltai a guardarlo. «Sii migliore di me, allora.»
Felix scosse il capo ostinato ed i ciuffi castani gli caddero sulla fronte, prima che questo li riportasse indietro con un gesto di mano.
I muscoli delle braccia guizzarono, stretti nella giacca a vento, ed io aspettavo una risposta che probabilmente non sarebbe mai arrivata.
«Abbiamo passato un paio d'ore insieme e pensi di essere nella posizione di darmi lezioni di vita? Di dirmi come devo trattare mia madre?»
Quindi avevo ragione, quella donna era la madre di Felix.
«Dico solo che-»
«Appunto!,» la mascella scattò e la voce rauca tuonò all'interno dell'auto. «Chi diavolo ti ha chiesto niente, cazzo?!»
Mi morsi l'interno guancia e, scossa da un mix deleterio di emozioni, non sapevo cosa fosse più giusto provare.
Rabbia perché continuava ad urlarmi contro?
Già, mi sarebbe piaciuto, ma in quel momento invece, stavano vincendo l'imbarazzo ed il senso di colpa, perché sapevo di aver ficcanasato. Perché sapevo di aver fatto una cavolata dopo l'altra e che non ero nella posizione di ribattere in alcun modo, sebbene le mie intenzioni erano tutt'altro che cattive.
Il viaggio per raggiungere l'ospedale sembrò tre volte più lungo e questo a causa del silenzio e dell'ostilità che si continuava a respirare all'interno di quella macchina.
Felix non mi aveva più guardata e questo finché non arrivammo a destinazione, quando, senza dire una parola, abbandonai l'auto e questa ripartì.
Ingoiai a vuoto il boccone fastidioso che mi aveva accompagnato durante tutta l'ultima ora e feci un respiro profondo per placare la mia mente.
Era tutto finito.
Quel pomeriggio assurdo era finalmente giunto al suo termine ed io non volevo più saperne niente di nessuno.
Varcai l'ingresso dell'Holt Hospital e la Torres aveva appena finito di raccogliere le sue cose. Ci scambiammo un sorriso fugace, una parola e lei se ne andò, liberandomi la reception.
Mi accomodai sullo sgabello. Serrai le palpebre beandomi di quell'attimo di solitudine, ma non appena le riaprii, qualcosa attirò la mia attenzione.
Era un movimento. Una sagoma scura che aveva sfrecciato di fronte alla porta in vetro dell'entrata. Era stato un attimo, eppure ne ero così sicura...
Avevo visto qualcosa.
Avevo visto qualcuno.
Fofinhas🦭
E dopo un'eternità e mezza, eccoci qua.
È stato un periodo intenso, pieno di novità e di malattie, ma ce l'ho fatta!💗🫂
Come avete potuto notare, questo capitolo è stato completamente incentrato su Sena e Felix. Scrivere dell'hate fra loro mi piace da matti, ma voi che pensate? Felix comincia a piacervi un po' di più, oppure Leonel continua a rimanere in cima? 👀🎀
Stellina se vi è piaciuto e io vi aspetto su IG per commentare il capitolo insieme.🖤
Ci vediamo al prossimo aggiornamento.🫂
Grazie mille di seguire WYA♟️
IG: @karinastrs
Tiktok: @karinastrs
Take care of urself, please.🦋✨
Karina🖤
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