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Racconto 4: La mia pazza, romantica estate


Giugno.

Il giorno in cui arrivai a Paterson ero convinta che non potesse esserci niente di peggio.

La mia vita aveva assunto dei toni leggermente sbiaditi da quando mi ero messa nei guai ed ero scivolata nel turbine del "non fare questo e non dire quell'altro"; per giunta quelli dei lavori socialmente utili non avevano voluto saperne di assegnarmi l'ennesimo programma di recupero e siccome nemmeno mio padre e la sua nuova moglie ne potevano più di me, non mi era rimasto altro da fare che accettare "l'invito" di quella lontana cugina del mio unico genitore vivente, che si era immolata per la famiglia e mi aveva invitato ad andare da lei per i tre mesi estivi, dove avrei potuto lavorare nella pasticceria del suo amico italoamericano ed evitare che gli spacciatori a cui dovevo dei soldi e la polizia mi dessero la caccia.

L'idea ovviamente non mi piaceva affatto, avrei preferito passare il resto dei miei giorni chiusa in gattabuia pur di non andare in un posto sperduto nel New Jersey, dove si faceva a gara per chi aveva il prato più verde, ma a quanto pare io non avevo voce in capitolo e mio padre –e soprattutto sua moglie – avevano già deciso per me.

Così mi ritrovai, in una assolata giornata di giugno, con la mia sacca di tela verde, a bussare alla porta della minuscola casetta in legno bianca e celeste numero ventitré, dove avrei trascorso i successivi novanta giorni senza vedere nemmeno uno dei miei amici e ovviamente senza la possibilità di sentirli via internet, perché mi era stato interdetto e tutti gli account erano stati bloccati dalla polizia per evitare che gli spacciatori mi rintracciassero.

Non so se conoscete Paterson, la cosiddetta città della seta, ma vi assicuro che chi come arriva dalla costa meridionale vorrebbe morire quando si ritrova in uno degli stati più piccoli degli Stati Uniti dove si conduce una semplice vita di provincia.

In attesa che qualcuno si degnasse di venirmi ad aprire, mi diedi un'occhiata intorno, giusto per capire in che razza di posto fossi finita: tutte le casette che c'erano su quella via sembravano fatte alla stessa maniera, con il garage affianco e le scalette per raggiungere l'entrata principale; cambiavano soltanto le dimensioni e i colori ma per il resto mi sembrava di essere approdata in uno di quei telefilm dove delle casalinghe belle e con dei fisici da fotomodelle si fingevano disperate per combinarne di tutti i colori. Faceva piuttosto caldo, sebbene la stagione estiva fosse solo all'inizio e quella era una fortuna, perché almeno per quanto riguardava il clima, non avrei subito grandi cambiamenti visto che, dove vivevo io, il sole era presente quasi tutto l'anno e d'inverno non si pativa mai troppo freddo.

Finalmente qualcuno si decise e la porta si aprì davanti a me: Felicity Dolce si aprì in uno dei suoi innumerevoli sorrisi quando mi vide e io non riuscii a ricambiare, perché non ero molto abituata a incurvare all'insù le mie labbra, in quel periodo. Sorridevo poco, parlavo ancora meno e se potevo restare da sola per la maggior parte del tempo potevo dirmi soddisfatta. Da quel sorriso di Felicity però, capii che il mio regime di silenzio e isolamento sarebbero durati poco, perché da quel giorno tutto sarebbe cambiato.

"Santo Cielo, già sei qui!" Esclamò la cugina di mio padre, nel suo strano accento italoamericano. Era negli Stati Uniti da più di quarant'anni e ancora non si era rassegnata a non infilare qualche parola italiana storpiata in mezzo alle frasi in inglese. Non la conoscevo molto bene perché ci eravamo viste soltanto in un paio di occasioni – per lo più funerali – dove io ero troppo impegnata a tenere il muso e evitare gli sguardi della gente per poter veramente fare amicizia. Lei però sembrava essere la quintessenza della bontà, tanto che si era caricata di un fardello come me, che combinavo guai in continuazione, senza che nemmeno sapesse il motivo del mio esilio fino in fondo.

Felicity in realtà si chiamava Felicina ed era una donna sulla cinquantina, bassa e dalla corporatura tipica delle donne del sud d'Italia: grandi tette e gambe sottili, con dei capelli in piega perfetta e due grandi occhi scuri, tipicamente siciliani. Non l'ho ancora detto infatti, ma la mia famiglia ha origini italiane e sebbene a guardarmi non si direbbe, visto che sono bionda, alta e con gli occhi azzurri, il mio cognome non tradisce: mi chiamo Vanessa Dolce e il mio bisnonno arrivò negli stati uniti subito dopo la prima guerra mondiale da un paesino della Sicilia, dove sono stata una volta sola, quando avevo otto anni, dopo il divorzio dei miei.

Io comunque ho preso da mia madre, una vera americana da sette generazioni, ed è per questo che non si direbbe che nel mio sangue scorre puro sangue siculo, anche perché ultimamente nelle mie vene è più facile trovarci alcol e altre sostanze, che vero e proprio plasma.

"Sono arrivata troppo presto?" Chiesi, con un tono di voce piuttosto disinteressato.

"Scherzi? Vieni, vieni! Stavo giusto facendo un po' di sugo per il pranzo."

"Pranzo? Ma sono le dieci di mattina!"

"Il sugo deve bollire assai per fare una buona pasta. Vieni, vieni, siediti in cucina. Vuoi un po' di te freddo? Fa caldo, eh? Sei stanca?"

Non riuscivo a starle dietro: era un vulcano, si muoveva alla velocità della luce per la casa e continuava a parlare senza darmi tempo di rispondere. Mi piazzò seduta su uno sgabello enorme, davanti alla penisola dove lei stava tagliuzzando i pomodori da mettere nell'insalata; mi posò un bicchiere gigante di tè freddo sotto al naso e cominciò a guardarmi come fossi uno strano extraterrestre venuto da un pianeta lontano. Potevo comprendere che per lei, una moglie senza figli, avere una ventenne in giro per casa, con i Doc. Martens slacciati ai piedi, un paio di calzoncini di jeans sfilacciati e una canottierina fina e larga e i capelli arruffati potesse sembrarle piuttosto strano, ma guardarmi come se avessi le pustole mi sembrava eccessivo.

"Ehm..." Balbettai, dopo aver ingollato un sorso del mio tè. "Credo che a questo punto io debba ringraziarti per l'ospitalità."

"Oh!" Disse la donna, cancellando le mie parole con una mano, come fossero scritte su una lavagna immaginaria: "Non ce n'è bisogno. Tanto più che tuo pare mi ha impedito di considerarti come un'ospite."

Aggrottai le sopracciglia, in un'espressione interrogativa: non ci stavo capendo nulla. Che cosa aveva detto il mio vecchio alla sua cugina italiana?

"Mi ha detto che dovrai contribuire alle spese di casa, è per questo che è importante che tu vada subito da Gennaro, oggi pomeriggio. Prima inizi a lavorare e prima smetterai di sentirti in obbligo verso di noi."

Mio padre, quel fetente! Non gli bastava avermi mandato in capo al mondo per cercare di farmi recuperare la moralità perduta, doveva anche costringermi a rinunciare a una parte di soldi che avrei potuto sperperare in divertimenti per aiutare con le spese questa folle italiana che continuava a tagliuzzare pomodori con un coltello minaccioso. Non avrei neanche potuto contraddirla, finché continuava a tenere quel coso in mano.

"Fantastico!" mormorai sarcastica, mentre Felicity mi lanciava un'occhiata bonaria.

"Posso vedere la mia stanza?" chiesi, ammusata, dopo essermi scolata tutto il tè. Dovetti ammettere che a causa della temperatura elevata, quella bibita fresca era stata una mano santa ma ora tutto ciò di cui avevo bisogno erano una doccia e un letto; mi ero fatta quattro ore di viaggio in pullman dalla Florida al New Jersey, perché quel nazista di mio padre aveva detto che fare un biglietto aereo era troppo rischioso, per una che era ricercata dai brutti ceffi della città, così mi ero dovuta subire kilometri e kilometri di asfalto e noia, quindi tutto ciò che volevo era un po' di sano riposo e anche una pelle fresca e profumata.

"Certo, è proprio qui accanto allo sgabuzzino!"

Di bene in meglio. Non solo non avevo più la mia bella camera in mansarda che invece possedevo in Florida, ero pure situata vicino allo sgabuzzino, dove l'odore della treccia d'aglio appesa alla parete si mischiava con quello delle scarpe. Tanto valeva darmi un letto nel sottoscala, come Harry Potter! Un momento, non che io avessi letto quella roba da femminuccia, ma la mia sorellastra di dodici anni si era ubriacata con quei romanzi negli ultimi anni, per poi dirsi innamorata di tale Malfoy, per cui avevo imparato parecchio.

"Vieni, ti faccio vedere!" Si pulì le mani sul grembiule che aveva legato intorno alla vita e mi condusse attraverso il piccolo disimpegno che divideva la cucina da quella che sarebbe diventata la mia stanza. Era una camera piccola ma confortevole, con il letto sotto alla finestra e una piccola cabina armadio che sarebbe stata più che sufficiente a contenere tutti i miei vestiti per quei tre mesi lì a Paterson. Le pareti erano tappezzate con una carta che dava sul lilla, un po' vomitevole e da femminuccia ma non avevo intenzione di lasciarle libere per molto, neanche se a fine agosto avrei dovuto lasciare quella casa. Poi vidi una cosa che mi fece letteralmente uscire gli occhi fuori dalle orbite ed emettere un gridolino di entusiasmo: nell'angolo opposto al letto, sull'altro lato della stanza, c'era un vecchio giradischi, nero e leggermente impolverato.

Era un originale DPS, della casa tedesca Bauer Audio e non uno di quei lettori moderni che in realtà ti graffiavano tutto il disco con la puntina; quello era roba da intenditori.

"Mio Dio!" Esclamai avvicinandomi come probabilmente si avvicinarono i tre Re Magi al Bambinello.

"Oh quello è l'aggeggio di Maurizio, a lui ci piace tanto." Ciancicò Felicity nel suo inglese italianizzato. Maurizio era suo marito; si erano sposati circa dodici anni prima, quando lei era già quasi una quarantenne e il loro matrimonio non aveva dato pargoli perché lui era affetto da non so che rara patologia ereditaria. Sapevo che lavorava come gestore di vendita di una nota marca di cereali ed era per quello che alle dieci di mattina non era in casa ad aiutare sua moglie nei preparativi per il pranzo.

"E pensi che potrò usarlo? Voglio dire, ho dei vinili con me e se non è un problema vorrei poterli ascoltare."

"Sì! Non c'è problema. Sta in camera tua, lo puoi usare."

Se fossi stata una che aveva particolari slanci d'affetto, probabilmente in quel momento avrei gettato le braccia al collo di Felicity e l'avrei addirittura baciata ma non ero affatto una tipa del genere, così mi limitai ad annuire e abbozzare un sorriso.

"Vabbè, ti lascio da sola così ti riposi. Ti vengo a chiamare quando è pronto da mangiare, ok?"

"Va bene, grazie."

Non appena Felicity si chiuse la porta alle spalle, io aprii la mia sacca verde e recuperai un vecchio vinile dei The Cure; era di mia madre ed era una delle poche cose che mi erano rimaste di lei dopo che se ne era andata. La musica uscì nella maniera più pura da quel giradischi che per me era come l'oro di Eldorado; non potei fare altro che buttarmi sul letto e sperare che quella folle, noiosa estate sarebbe passata presto.

Quando Felicity aprì la porta della mia stanza mi trovò con le gambe incrociate, sul letto, i capelli appuntati con una matita e una sigaretta in bocca, a fissare il nulla.

"Qui dentro non si fuma, tesoro."

La cugina di mio padre mi fece alzare di scatto; entrava di soppiatto peggio di Joe, il mio migliore amico che rubava le elemosine in chiesa. La guardai qualche istante, per capire se scherzava, mentre il fumo annebbiava la stanza.

"Coraggio spegni pure quella cosa."

"Ma che cavolo!" Brontolai, mentre lei mi toglieva di mano la mia unica fonte di rilassamento. Avevo iniziato a fumare dopo che mia madre se ne era andata di casa e prima che me ne potessi accorgere, era diventato un vizio.

"E' pronto il pranzo."

"Non ho fame, voglio solo finire la mia sigaretta!" Brontolai, cercando di toglierla dalle sue mani.

"Ah! Ho detto che qui non si fuma e a dirla proprio tutta, faresti bene a non fumare affatto."

Emisi un sonoro sospiro, sperando che capisse che si stava comportando esattamente come qualunque rompipalle inciampato nella mia vita fino a quel momento. Se avevo pensato di poter fare come volevo solo perché ero lontana da casa, mi sbagliavo di grosso.

"Se non hai fame ti conviene guadagnare tempo e andare da Gennaro. Ti sta aspettando e almeno capisci il lavoro. Ti va?"

"Posso dire di no?"

"No."

"Appunto. Come ci arrivo?"

"A piedi. Ci puoi andare a piedi, è un quarto d'ora da qua."

"Che cosa? Mi serve una fottuta macchina! Non posso camminare per quindici minuti con questo caldo."

"No, no, no. La macchina non possiamo dartela finché non guadagni i primi soldi. Tuo padre ce lo ha vietato, insieme alle feste con gli amici che ti farai stando qua e al considerarti ospite."

"Tanto valeva farmi andare in galera!" Commentai; prima che Felicity potesse uscire, mi sfilai la canottiera, mi annusai le ascelle per capire se era il caso di lavarmi di nuovo prima di uscire, visto la temperatura che c'era fuori; ero una testa calda, che si faceva le canne, aveva provato qualche acido e si ubriacava spesso e volentieri, avevo amici nei bassifondi e combinavo un sacco di casini ma la pulizia per me era fondamentale.

La donna storse un po' il naso e poi decise che era meglio lasciarmi sola ad ispezionare il grado di igiene del mio corpo; indossai una t-shirt celeste e poi sistemai meglio i calzoncini, poi rinfilai gli stivaletti e uscii.

Non avevo idea di dove andare, sebbene tenessi in mano un foglietto con la calligrafia strampalata di Felicity con l'indirizzo di Gennaro. Il mio senso dell'orientamento però era buono e cercai di seguire le poche indicazioni che la mia unica parente lontana mi aveva dato per raggiungere il bar gestito dall'italoamericano che aveva trovato un posto per me senza chiedere aiuto ai passanti della zona; se dovevo imparare a cavarmela da sola in quel posto terribile, avrei iniziato sicuramente da quel momento.

Raggiunsi quel locale innovativo dopo venti minuti, cinque di più rispetto a quelli che mi aveva detto Felicity, sudata e stanca. Il posto per giunta, non era niente di che: mi sarei aspettata un locale come quelli che conoscevamo tutti e invece mi ritrovai davanti una specie di container gigante, bianco, in mezzo al nulla e con un parcheggio al cui centro c'era una croce in memoria di qualche povero disgraziato che era passato a miglior vita.

"Fantastico!" commentai sardonica, cercando di reprimere la voglia di scappare di lì il più velocemente possibile. Mi spinsi fino all'entrata e non so come, trovai la voglia di tirare la porta a vetri e immergermi in quel mondo che, lo scoprii solo dopo, sarebbe stato la mia salvezza.

Il fresco dell'aria condizionata mi colpì la pelle accaldata, provocandomi una sensazione di sollievo; era un posto allucinante e in cima al mondo ma almeno non sarei morta asfissiata. Subito davanti all'entrata, dal momento che il locale si sviluppava tutto in orizzontale, c'era un grande espositore che mostrava ogni tipo di dolci: riconobbi i cannoli che da ragazzina avevo mangiato in Sicilia, le cassate e altri dolci fatti con la pasta di mandorle; c'erano croissant, che probabilmente loro chiamavano cornetti, visto che erano italiani e ogni tipo di pasticcino, di ogni forma e dimensione.

Mi avvicinai per guardarli meglio; non ero una mangiona di dolci eppure tutte quelle leccornie mi fecero venire l'acquolina in bocca, dal momento che ero senza pranzo, così girai dietro il bancone e puntai tutta la mia attenzione su un fagottino al cioccolato enorme e pieno di glassa di zucchero. Le mie papille gustative potevano già pregustarne il sapore; le mie mani erano quasi sopra, pronte ad afferrarlo quando qualcuno sopraggiunse alle mie spalle, facendomi spaventare:

"Ehi, che diavolo stai facendo, eh?"

Mi alzai di scatto, colta in flagrante, anche se per una volta non ero intenta a rubare ma, dal momento che avrei lavorato lì, stavo soltanto usufruendo dei benefici di quel posto.

A interrompere il mio tentativo di sostentamento era stato un ragazzo alto, con la pelle ambrata e gli occhi profondamente scuri; un tizio sicuramente atletico e dalla faccia pulita, anzi a guardarlo bene era il classico bravo ragazzo, che lavorava part-time durante l'estate per pagarsi il college d'inverno. Una noia mortale, insomma.

"Ehm... Sei Gennaro?"

"No, ma tu qua non ci puoi stare lo stesso, tanto più che stavi rubando un dolce."

"Ehi, io non stavo rubando proprio niente, ok? Devo parlare con Gennaro."

"Non c'è. Devi uscire dal bancone, comunque."

Sbuffai e poi assecondai la richiesta di quel rompiscatole, sperando di riuscire ad ottenere qualche informazione in più. Il tipo continuò a tenermi gli occhi puntati addosso, diffidente; aveva un grembiule, quindi probabilmente lavora lì e io, ancora una volta, mi chiesi perché non avessi scelto di andare in prigione; era già piuttosto deprimente dover servire cappuccini e caffè all'italiana, se avessi dovuto lavorare anche con Mister Perfettino, sarebbe stata una vera palla.

"Devo parlare con Gennaro." Ripetei.

"Non ci senti? Ho detto che non c'è. Posso aiutarti io?"

"Non credo, visto che deve darmi il lavoro."

Il ragazzo, che a dirla tutta era proprio bello, incurvò le labbra in un sorriso divertito, come se avesse appena sentito una battuta incredibilmente divertente. Imbecille, ragazzino!, pensai.

"Va bene, allora te lo chiamo."

Assottigliai gli occhi: "Non hai detto che non c'era?"

"Dipende. Se è per una cosa importante, c'è." Rispose lui con un sorriso.

Grandissimo pezzo di cretino, mi stava forse prendendo in giro? Io non ero certo andata lì a perdere tempo, avevo ben altro da fare, tipo andare a trovare qualcuno che potesse vendermi un po' di fumo per passare nel modo migliore il tempo che sarei dovuta restare a Paterson quidni se credeva che sarei stata al suo stupido gioco, si sbagliava.

"Senti," iniziai. "io non so come siete abituati qui voi ma io non ho alcuna intenzione di scherzare."

Il tizio ridacchiò: "Senti, senti! Vieni forse da Marte?"

"Tampa, Florida."

"Ah capisco, sei una nuova arrivata. Comunque, io sono Jay e a quanto pare lavoreremo insieme."

"Che gioia!" Commentai, senza stringergli la mano ma tornando dietro al bancone, per poi sorpassare quell'armadio e dirigermi direttamente sul retro. Lo avrei ignorato, come facevo con la maggior parte delle persone che mi gravitavano attorno ma non facevano parte della mia vita.

Trovai Gennaro, un uomo sulla cinquantina con un riporto clamoroso sulla testa e una tinta per capelli che dava sul castano, intento a infornare un suolo pieno di cornetti, gli spiegai chi ero e perché mi trovavo lì e lui mi salutò affettuosamente, come se mi avesse conosciuto da sempre, poi mi raccontò come funzionavano i turni nel suo bar e cosa avrei dovuto fare. Si trattava sostanzialmente di stare dietro al bancone, passare i dolci a chi li richiedeva e servire caffè e cappuccini – rigorosamente fatti con la macchinetta elettrica come quella italiana e che io non sapevo usare – e fare attenzione che i clienti non mi fregassero col conto. Era la cosa più noiosa che potesse capitarmi, anche perché da quel che avevo potuto constatare nei pochi minuti che ero stata con quell'idiota nel locale, non era entrato nessuno e in più, quel posto era isolato dal resto del mondo, dava sull'autostrada e per fermarsi a fare colazione lì dovevi per forza conoscere la strada, altrimenti non ti saresti mai fermato lì per caso. Gennaro mi propose di iniziare subito, così senza troppa voglia indossai il grembiule e mi misi dietro il bancone; Jay mi osservava incuriosito, come si osservano gli animali allo zoo. Cercavo di ignorarlo, di far finta che non ci fosse ma i suoi maledetti occhi neri mi infastidivano; in genere non ero una che subiva l'ascendente maschile: ero stata a letto con un numero non meglio quantificato di ragazzi, facevo quello che volevo quando ne avevo voglia e non credevo in quelle stronzate come sole-cuore-amore, fatte per le perdenti a cui piaceva piangersi addosso; quel ragazzo però non solo mi attraeva ma riusciva a infastidirmi, a turbare la mia impenetrabilità, il che per me era un gran brutto segno.

"Che cavolo hai da guardare?" Chiesi, dopo aver porto una tazzina di caffè ad un povero vecchio italoamericano che sembrava morire da un momento all'altro a causa del caldo che c'era fuori.

"Non mi hai detto come ti chiami."

"Lo so."

"E non ti va di dirmelo?"

"Mi lascerai in pace, dopo?"

Jay sorrise ancora, in quel modo così maledettamente dolce che mi fece sicuramente aumentare l'insulina nel sangue. Non ero mai stata sensibile a queste cose, eppure i suoi denti bianchi e perfetti e la luce che gli illuminava gli occhi, mi piacevano da morire.

Fece spallucce e con la solita sincerità disarmante rispose: "Forse."

"Vanessa. Mi chiamo Vanessa e se non la pianti di fissarmi con quegli occhi da gufo giuro che ti faccio del male." Detta così suonava tanto come una proposta indecente ma, nonostante avrei davvero voluto provare a pomiciare con lui magari nel retro, in quel momento volevo suonare più minacciosa che provocatoria.

"D'accordo, d'accordo tigre. C'è quel tavolo da servire con quattro cappuccini e sei sfogliatelle. Vogliono anche i confetti di Sulmona da portar via." Mi disse, senza smettere di tenere su quel maledetto sorriso, indicandomi un tavolo occupato da quattro persone.

"Come fai a sapere che cosa prendono se non hanno ancora ordinato?"

"Si chiamano 'clienti abituali' e so cosa prendono perché vengono qui ogni settimana, quando devono spedire i confetti ai loro parenti italiani in Argentina." Jay mi fece l'occhietto, poi afferrò un pacchetto pieno di confetti e me lo lanciò; lo afferrai al volo, indignata mentre lui ridacchiò ancora e poi aggiunse:

"Coraggio Vanessa, va' a fare il tuo battesimo di fuoco."

Sarebbe stato davvero difficile non spaccare la faccia a quel ragazzo così bello ma altrettanto irritante.

"Abbiamo ospiti a cena, stasera." Mi annunciò Felicity il terzo giorno della seconda settimana della mia permanenza in casa, mentre io frizionavo con vigore i miei capelli bagnati, scendendo le scale. Ero tornata a casa da due ore, avevo fatto un puzzle con Maurizio, il marito calmo e cotonato di Felicity e avevo trovato in Chino, il gatto di casa, l'unico primo vero amico. Era nero, dal pelo corto e morbido e gli occhi gialli come i lampioni che quella cretina di Peonie, la donna di mio padre, aveva messo nel giardino della casa in Florida.

"Ma io sono stanca!"

"Ma devi fare amicizia!"

"Quindi verranno tizi con le teste rasate, che fumano marijuana e bevono gin?" Quella descrizione corrispondeva un sacco agli amici che avevo in Florida.

"Santo Cielo, no!" Mi beccai un'occhiataccia da Felicity, mentre buttavo l'asciugamano nello sgabuzzino, nel cesto dei panni sporchi accanto alla lavatrice.

"Sono i vicini, di origine messicana. Sono brave persone, hanno due figli maschi e uno dovrebbe avere la tua età o poco più." Mi spiegò Maurizio, che comparve sulla porta della cucina, mescolando una strana pastella, nel suo mix di inglese e siciliano.

Un appuntamento al buio. Ecco cosa avevano architettato i coniugi più strampalati di tutto il New Jersey per la sottoscritta. Fece un rapido calcolo mentale e non riuscii a ricordare un incontro del genere prima delle scuole medie. Era una cosa così squallida che non era neanche da prendere in considerazione, in più erano persone che andavano a genio a Felicity e Maurizio, il che sicuramente significava che non potevano andare d'accordo con me. E poi: messicani, sul serio? Come minimo mi si sarebbe presentato un mangia-fagioli con la peluria pre-adolescenziale sotto al naso, dalla pelle color caffellatte che parlava in spanglish.

"Ok, non ho fame, vado a dormire." Girai su me stessa e stavo già per muovere i primi passi verso la mia stanza quando Felicity tuonò:

"Vanessa Dolce!"

Mi bloccai all'istante e mi voltai a guardarla: aveva in mano un minaccioso cucchiaio di legno; i capelli arruffati di chi ha perso tempo in cucina e il grembiule a fiori intorno ai fianchi.

"Smettila di fare la ragazzina asociale e maleducata e mettiti qualcosa di decente. Stasera ci sono ospiti e tu ti siederai a tavola con noi, altrimenti chiamo tuo padre e puoi scommetterci che troverà il modo per renderti la vita impossibile!"

Sentii Maurizio sussurrarle un "dai Felicina, calmati" ma io mi sentii lo stesso uno schifo; in fondo lei e suo marito ce la stavano mettendo tutta: mi avevano messo a disposizione la loro casa, mi preparavano da mangiare e cercavano di farmi integrare al meglio quindi forse era il caso che la smettessi di fare la stronza e iniziassi ad essere più collaborativa; in fondo non era colpa loro se mio padre si era voluto liberare di me e mi aveva spedita dall'Inferno. Così annuii, mi scusai e andai in camera mia per cambiarmi. Indossai un paio il paio di jeans meno scuciti che avevo, una maglia nera con su scritto "The Rasmus", uno dei miei gruppi preferiti e le Converse dello stesso colore ma tendente al ruggine, visto quanto erano consunte. Quello era il meglio che riuscivo a fare e se ai mangia-fagiole non piaceva il rock, non era un problema mio.

Quando tornai in cucina però la sorpresa di trovarmi davanti a Jay e tutta la sua famiglia quasi mi fece strozzare con la saliva. Non avevo idea che lui fosse il vicino e considerando che l'altro ragazzino aveva sì e no dodici anni, lui era anche il mio coetaneo.

"Fantastico!" Mormorai ancora, varcando la soglia con passo titubante.

"Oh eccola! Possiamo fare le presentazioni!" Sorrise Maurizio, cercando di mettermi a mio agio; quello che non sapeva però era che io già conoscevo Jay e passavo gran parte delle mie giornate lavorative a prenderlo a parolacce quando non se ne accorgeva e a sbavare sul suo corpo così dannatamente sensuale e ben formato.

"Questa è la figlia di mio cugino," si intromise subito Felicity, sperando di poter essere lei ad introdurmi alla famiglia di vicini: "si chiama Vanessa e starà con noi fino alla fine dell'estate."

"Vanessa, loro sono i Suarez, i nostri dirimpettai."

Oh ma che fortuna, non solo abitavano nel mio stesso quartiere, erano gli inquilini della villetta proprio di fronte alla nostra!

"Encantada! Mi chiamo Adela pero tu puoi chiamarmi Adelita!" mi sorrise la Signora Suarez, prendendomi la mano e stringendola senza che io facessi nulla.

"Piacere, io sono Atanacio Suarez e loro sono i miei hijos: Carlos y Jaime."

"Che belli!" commentò in italiano Felicity.

Dovetti chiudere un attimo gli occhi e respirare: quel groviglio di lingue diverse, mischiato all'odore di fiori di zucca fritti, mi stava facendo girare la testa.

"Ti senti bene?" La voce calda e bassa di Jay mi costrinse a riaprire gli occhi; era più vicino del necessario e la sua mano sinistra era poggiata sul mio avambraccio. Quel contatto mi provocò i brividi, nonostante facessero almeno quaranta gradi in quella cucina. Istintivamente ritirai subito il braccio, liberandolo da quel tocco, sebbene la parte rimase accaldata, come percorsa da una scarica elettrica.

"Devo solo prendere un po' d'aria. Felicity, esco un attimo in giardino, torno subito."

Felicity ringraziando il cielo annuì senza aggiungere altro e io mi spostai verso la porta-finestra che dava sul giardino sul retro.

"Acompañala!" Fu l'ultima cosa che sentii e provenne da Adelita.

"Non c'è bisogno che mi segui, non muoio." Dissi, quando Jay spuntò accanto a me sotto al porticato.

"Non ho dubbi, ma non mi va di discutere con mia madre. Allora, stai bene?"

Scossi appena la testa e poi sorrisi, ironica. "Ho vissuto momenti peggiori."

Jay annuì e poi disse:

"Giusto. Dimenticavo che tu sei una dura."

"Sì, esatto."

"Che si fa venire i capogiri per un po' di spagnolo e la puzza di fritto." Mi prese in giro lui; non potei fare a meno di sorridere: aveva ragione, mi atteggiavo da guerriera e poi finivo k.o. al primo round.

"Stai ridendo di me?"

"No. Non sto ridendo di te. Sto ridendo con te."

Quella frase fu l'inizio di tutto. Non so come Jay Suarez riuscì a sciogliere la cortina di metallo che mi ero costruita in tutti quegli anni, tutto quello che so è che improvvisamente il mio stare a Paterson aveva acquistato un senso. La sua testardaggine nel girarmi intorno nonostante le mie rispostacce, la sua ostinata sincerità e quegli occhi limpidi anche se scuri come i pozzi abbandonati, mi smossero qualcosa dentro e mi fecero sentire di nuovo come quando mia madre mi lasciò in una casa troppo grande per una bambina: insicura e fragile.

"Lo dici a tutte quelle su cui vuoi fare colpo, immagino."

Jay storse la bocca, in un mezzo sorriso intrigante: "No, solo alle bionde che vengono dalla Florida e che giocano a fare le dure."

"Non gioco a fare proprio un bel niente."

"Ah no? Quindi non lo stavi facendo anche oggi quando ti sei bruciata con la macchina del caffè e hai fatto finta di niente?"

Gli lanciai un'occhiataccia; io quell'aggeggio italiano per fare il caffè proprio non lo sapevo usare e lui si stava prendendo ancora gioco di me.

"Non è propriamente facile usare quell'arnese. E non è neanche facile stare qui quando vorresti essere altrove."

"E credi che io non lo sappia?"

Lo guardai di nuovo storto; quella era la cosa più stupida che io avessi mai sentito.

"Non dire cavolate."

"No, tu non capisci. Guardami Vanessa: sono di origine messicana e anche se sono nato negli Stati Uniti la mia famiglia deve fare i salti mortali per sopravvivere in mezzo ai pregiudizi; se sono al college è solo grazie ad una borsa di studio. Credi davvero che non mi piacerebbe passare la mia estate altrove? In vacanza, come tutti gli altri? Ma se non lavoro non ho i soldi per pagare l'iscrizione al nuovo anno e io voglio diventare un ingegnere aerospaziale quindi devo darmi da fare. Non sei l'unica ad avere la vita incasinata, quindi anche se non so che cosa tu abbia combinato, smettila di fare la vittima."

In quel momento persi completamente ogni barlume di razionalità e seguii semplicemente il mio istinto: tutto quello che volevo fare era baciare Jay, annusare il suo odore, accarezzare le sue spalle e perdermi nel suo mondo fatto di pulizia e onestà, tanto diverso dal mio; così mi staccai dal legno a cui ero poggiata e premetti le labbra contro le sue.

Percepii la sua reazione sorpresa all'inizio ma quando comprese che non stavo scherzando, reagì al bacio e prese a condurlo.

Non mi ero sbagliata, Jay era un ottimo baciatore, pieno di enfasi ma anche dolce e sensuale. Non era un bacio pretenzioso, sebbene io sarei andata volentieri oltre, quanto più lento, esplorativo. Sapeva di nachos e dentifricio, il gusto più improbabile e buono che avessi mai assaggiato.

Sentii le sue mani scivolare sulla mia schiena, il suo corpo pressarsi contro il mio, fondendosi e incastrandosi alla perfezione. Lo sentii respirare sul mio viso e cercai di capire cosa volesse significare per lui quel bacio, perché per me era soltanto uno sfizio che avevo deciso di togliermi. Quando capii che forse lui poteva interpretarlo in modo diverso, mi separai immediatamente dal suo corpo; non ero abituata ai baci che significavano altro e magari richiedevano un certo impegno, anche per il sesso valeva la stessa cosa: non avevo relazioni che andavano oltre il tempo di una sbornia, bevevo a tal punto da finire sul letto senza vestiti senza avere minimamente idea di chi fosse il tizio che mi stava spogliando e la mattina dopo mi svegliavo con un mal di testa, da sola, completamente inconsapevole di cosa fosse successo. Non ero tagliata per le relazioni stabili, non ero portata per andare in giro mano nella mano con uno a fare l'innamorata; ero più da una sveltina in macchina e poi amici come prima. Ma sapevo per certo che Jay era troppo pulito per una cosa del genere, quindi mi sentii in dovere di ristabilire le distanze.

Lui aprì gli occhi, sorpreso da quell'interruzione, così gli sorrisi e mi spostai, tornando dentro.

Non avemmo più occasione quella sera per stare da soli.

Luglio.

Le ultime due settimane di giugno erano passate nella più assoluta calma; sebbene non riuscivo ad ignorare le occhiate che mi mandava Jay dal bancone mentre io servivo ai tavoli, non avevo più lasciato che capitassero situazioni che potevano mettermi nei guai. Mi dispiaceva aver alzato quel muro con lui ma c'era da dire che non aveva fatto molto per spiegarmi il suo punto di vista, quindi non mi curai più di tanto del suo broncio. In realtà, pensavo a lui molto più spesso di quanto fosse necessario: mi ritrovavo a disegnare i tratti nel suo volto nella mia mente, la sera prima di addormentarmi; di vedere il suo sorriso che si rifletteva nella tazza dei miei cereali quando facevo colazione e di desiderare ancora il sapore delle sue labbra quando ero sotto la doccia.

Quel pomeriggio avevo finito il mio turno; il caldo era asfissiante e io ero seduta sul marciapiede, in attesa che il fottuto autobus che doveva portarmi a casa di Felicity passasse, prima che io mi sciogliessi definitivamente sull'asfalto. Fu proprio in quel momento che una vecchia Ford del 1975 si fermò davanti a me, abbassando il finestrino. Era Jay e il suo sorriso tranquillo mi fece rispondere alla stessa maniera.

"Vuoi un passaggio?"

"Sul serio?"

"Certo."

Ci pensai un po' su, e nel frattempo lui propose:

"Ti va di venire con me in un posto?"

"D'accordo." Mi alzai dal marciapiede e mi accomodai su quel vecchio sedile in pelle chiara. Jay sorrise e io per la prima volta mi sentii leggermente in imbarazzo. Quel ragazzo e i suoi modi di fare così tranquilli e limpidi mi mettevano in soggezione, spiazzandomi e lasciandomi completamente disarmata.

"Dove andiamo?"

"E' uno dei miei posti preferiti qui a Paterson. Vedrai, ti piacerà."

Arrivammo poco dopo; Jay mi aveva portata su una delle colline più alte della città, dove il panorama era bellissimo e l'aria leggermente più fresca.

"Santo Dio, è meraviglioso qui!"

"Vero? L'ho scoperto durante l'ultimo anno di liceo. La mia ragazza mi aveva spezzato il cuore e io avevo bisogno di guidare, così presi la macchina e arrivai fin qui."

"Oh quindi sei uno che tende ad essere patetico, in amore."

Jay mi guardò, come se avessi detto qualcosa di profondamente cattivo:

"No, sono semplicemente uno che ci mette sempre tutto se stesso, che non scappa se sente di provare qualcosa per qualcuno."

E il riferimento era chiaro; ma sul serio io provavo qualcosa per Jay? Davvero in pochissimo tempo era riuscito a fare qualcosa che nessuno prima di allora aveva fatto?

"Non sono il tuo tipo, Jay."

"Ah no? E questo chi lo dice?"

"Io."

"Non credi che dovrei avere almeno voce in capitolo?"

"Ma che cosa vuoi da me? Perché ti piaccio io?"

"Non lo so. Ma non c'è sempre una spiegazione razionale, per queste cose anzi, a dirla proprio tutta non c'è mai. E poi, perché mi hai baciato?"
"Perché mi andava."

"Non funziona così, Vanessa. Non puoi fare una cosa solo perché sta bene a te, se c'è coinvolto qualcun altro."

Sospirai poi frugai nella mia borsa; avevo un disperato bisogno di fumare, perché in quelle situazioni soltanto un po' d'erba o un po' di nicotina potevano aiutarmi e visto che non ero fornita della prima perché in quella cavolo di città non avevo ancora trovato nessuno da cui comprarla, mi accontentai della sigaretta. Mi allontanai da lui e finsi di perdermi nel panorama ma servì a poco perché Jay si avvicinò a me, intenzionato a riprendere il discorso da dove lo avevamo lasciato:

"Dimmi che non ti piaccio. Dimmi che non sei attratta anche tu da me come lo sono io e allora ti lascio in pace."

"Non puoi chiedermi questo."

"Dimmelo."

"No! Non capisci, Jay! Io sono sbagliata per te, tu sei un bravo ragazzo e io sono qui perché non mi hanno voluto più nemmeno quelli dei lavori socialmente utili. Sono un casino e finirei per sporcare anche te."

Jay mise le sue mani sui miei fianchi, attirandomi leggermente a sé; quella vicinanza non mi aiutava, desiderai di nuovo di poterlo baciare e non era giusto perché non sarebbe stato solo uno sfizio quella volta.

"Lascia che sia io a decidere."

"Jay..."

"Shh."

Ci baciammo, ancora una volta come fosse la prima per me: quella consapevolezza che non sarebbe stato soltanto uno sfizio mi faceva paura ma al tempo stesso mi sentivo stordita e felice. Sarebbe cambiato tutto e io avrei lasciato che accadesse.

I giorni che seguirono quel bacio mi sorpresero piacevolmente.

Passavo gran parte del tempo insieme a Jay, tornando a casa di Felicity solo per dormire. Tra noi non c'era ancora stato nulla oltre ai baci perché mi stava insegnando che l'attesa accresce il desiderio e che la pazienza aumenta l'affetto, trasformandolo a poco a poco in qualcosa di più.

Scoprii che Jay era dotato di un'intelligenza fuori dal comune, sapeva un sacco di cose che io ignoravo e passava la maggior parte del tempo a spiegarmele, per il puro piacere di saziare la mia curiosità; il suo sorriso era diventato la mia droga, la prima che non fosse tossica, l'unica sostanza stupefacente per cui non mi sarebbe servita una riabilitazione. Adoravo il modo in cui le nostre dita si intrecciavano insieme, il suo modo di baciarmi la fronte mentre guidava e io poggiavo la testa sulla sua spalla, perché avevo bisogno di sentire il suo contatto anche in macchina.

Jay era diventato, senza che quasi me ne accorgessi, il protagonista della mia folle, amata estate.

Una sera eravamo a casa sua; era il quindici di luglio, quindi io e lui eravamo ufficialmente una coppia da ben due settimane. Eravamo da soli perché i suoi genitori non c'erano: la comunità messicana aveva organizzato una festa per celebrare i primi immigrati stanziatisi a Paterson. Jay aveva preparato la cena, ovviamente a base di chili e fagioli, che mi ero spazzolata in dieci minuti e a guardarlo mentre si muoveva tra i piatti da lavare e i fornelli da pulire, capii che mi stavo innamorando di lui in maniera totale e pericolosa.

"Che c'è?" mi chiese, accorgendosi che lo stavo fissando mentre coi guanti gialli e una spugna in mano toglieva l'olio da una teglia.

"Ho un problema."

"Che succede, Vanessa? Posso aiutarti? Qualcosa non va?"

Inspirai profondamente e sentii il macigno sullo stomaco alleggerirsi: "Credo di essere innamorata di te."

Il suo volto si illuminò; un sorriso larghissimo gli inarcò le labbra e il piatto che aveva in mano venne miseramente lanciato nel lavandino insieme agli altri ancora sporchi, facendo svolazzare un po' di schiuma. Mi alzai mentre lui si faceva più vicino a me, mi incastrò tra il bancone del lavandino e il suo corpo e mi baciò con passione.

Non c'era innocenza nei nostri movimenti, quanto più la volontà di assecondare un desiderio che era stato represso per un sacco di tempo; lasciai che la canottiera che indossavo cadesse a terra, sussultai sentendo le sue mani che accarezzavano la pelle scoperta del mio torace, mentre la lingua lambiva il perimetro della mia spalla; lasciai che mi sciolse i capelli e che mi sollevò fra le sue braccia per cercare un posto più comodo per sdraiarci e viverci.

Il letto, nella sua stanza ci accolse quando nessuno dei due aveva più la lucidità giusta per fermarci; i miei calzoncini finirono insieme alle riviste di informatica che Jay aveva sul pavimento, mentre io lanciai la sua maglietta sulla scrivania. Le mie mani percorsero i suoi addominali, cercarono la cerniera dei jeans e la spinsero all'ingiù; era impaziente di liberarsi di quelle barriere che ci separavano, così mi diede una mano a sfilarsi i pantaloni, poi mi baciò ancora.

Eravamo completamente nudi, felici e ubriachi di una strana adrenalina che ci faceva muovere rapidamente, sussurrare parole dolci nelle orecchie dell'altro, scambiarci baci e saliva e sospirare forte.

"Ti amo anche io, Vanessa." Mi guardava negli occhi mentre lo diceva e a quel punto io lasciai andare ogni riserva e gli feci spazio dentro di me: nel mio corpo ma anche e soprattutto nel mio cuore.

Per la prima volta nella mia vita feci l'amore con un ragazzo; non ero più vergine da parecchi anni ma mai era stato bello come quella prima volta con Jay.

Quando ci abbandonammo stanchi e ancora nudi uno accanto all'altra, rimasi in silenzio a guardare il soffitto e a cercare di decifrare la strana sensazione che sentivo nello stomaco. Era fastidiosa ma talmente bella che non ci avrei mai più rinunciato.

"Stai bene?" La sua voce, dopo quello che c'era stato fra noi, suonava ancora più bella.

"Sì. Vorrei solo stare così per sempre."

"Possiamo farlo."

Sorrisi, poi mi girai verso di lui: i lineamenti rilassati e i suoi occhi sinceri erano sempre lì e io li avrei portati dentro per il resto della mia vita.

"Tra un mese tornerò in Florida e tu al college. Sarà sempre più difficile vederci e finiremo con il diventare due estranei."

"Ma potrei non tornare all'università e potremmo partire insieme e cercare lavoro da qualche parte, tipo sulla costa orientale."

"Ma tu devi diventare ingegnere, non voglio che rinunci al tuo sogno per me."

"Io voglio stare con te, Vanessa e se questo significa sacrificare qualcosa, sono disposto a farlo."

"Così fra vent'anni mi odierai. No, proveremo a stare separati e se non funzionerà almeno avremmo ripreso in mano le nostre vite."

Jay mi strinse a sé, lasciandomi un bacio delicato fra i capelli; restammo in silenzio per qualche minuto poi lo sentii muoversi accanto a me e guardarmi di nuovo:

"Perché sei scappata da Tampa?"

Mi sistemai meglio nel mio lato del letto e mi preparai a raccontargli la storia della mia breve, incasinata vita.

"Mia madre se ne è andata di casa che ero una ragazzina che stava diventando adolescente. È quello che gli esperti chiamano il periodo difficile, quindi essere abbandonata dall'unica figura che non vorresti mai perdere è stato una specie di trauma. Questo è quello che mi ha raccontato la prima psicologa che mi ha avuto in analisi per giustificare i miei comportamenti. In realtà mi ero solo rotta le palle di fare la brava bambina, visto che non cambiava niente. Così, finite le medie, ho iniziato a smettere di frequentare i corsi del doposcuola con i compagni con cui ero cresciuta. Ho conosciuto Gandhi, un tizio che viveva nella periferia est della città e che frequentava altra gente poco raccomandabile; lo chiamavano così perché col fumo gli si annebbiava completamente la mente e iniziava a fare discorsi che ricordavano quelli del Mahatma. Facemmo amicizia perché ci piaceva la stessa musica e ben presto iniziai a passare le giornate con lui; mi insegnò a rollarmi uno spinello, a scegliere le qualità peggiori di rum e gin, ma ho anche riso tantissimo con lui. Mi fece conoscere tutti gli spacciatori che potevano passarci roba buona, ho provato persino qualche acido con lui e mi sono fatta il mio primo tatuaggio, questo qui!" dissi, alzando il lenzuolo e scoprendo il mio inguine, per fargli vedere il ramarro che poco prima lui aveva amorevolmente baciato. "Ho rischiato l'infezione per questo sai?"

Jay ridacchiò, scuotendo appena la testa.

"Ben presto divenni una specie di figura sacra fra i tizi che vedevo tutti i giorni, per il semplice fatto che stavo con Gandhi."

"Era il tuo ragazzo?"

"Andiamo, non fare il gelosone adesso. Non sono mai stata con nessuno nel senso classico del termine, a parte te. Solo che ero ubriaca o fatta per la maggior parte del tempo, quindi più volte siamo andati a letto insieme, tutto qui."

"Ok, non voglio sentire più. Va' avanti con la tua storia ma senza dirmi cosa facevi con quello."

Sorrisi e gli stampai un bacio sulla guancia. Lui era l'amore della mia vita, ne ero convinta, quindi non doveva essere geloso di Gandhi, né di nessun altro perché d'ora in poi ci sarebbe stato soltanto lui.

"Ci mettemmo nei guai più volte, soprattutto perché mio padre iniziò a tenermi a stecchetto: niente soldi, niente permessi per uscire, niente amici in casa. A scuola i voti facevano schifo, sono stata bocciata due volte e quando tutte le università hanno rifiutato la mia domanda, mi sono rassegnata, tanto neanche volevo andarci al college. Nel frattempo ho fatto lavori socialmente utili per aver rubato le elemosine in chiesa, per aver imbrattato i muri della scuola con una vernice indelebile, scrivendo parolacce contro la preside, sono stata in riabilitazione due volte per abuso di alcol e alla fine, quando mi sono indebitata con degli spacciatori per delle pasticche e nessun centro di recupero mi ha voluta, mio padre e Peonie, la sua fottutissima nuova moglie, hanno deciso di spedirmi qui da Felicity."

"E ti dispiace?"

"Eh, all'inizio questo posto mi faceva schifo, non potevo neanche usare la mustang rossa di Maurizio per venire a lavorare e poi ti odiavo."

"Sul serio?"

"Sì! Avevi quel modo di fare così mortalmente accomodante, sorridevi sempre e mi fissavi."

"Perché volevo capire fino a che punto avresti tenuto il broncio."

"Comunque sia, ho cambiato idea solo quando mi hai fatto capire che anche per te non era facile stare qui."

"Io odio stare qui, per la precisione."

Ridacchiai, poi lasciai che Jay mi baciasse di nuovo ancora e ancora, fino a che la passione non prese di nuovo il sopravvento e facemmo l'amore ancora una volta.

Agosto.

Ero in camera mia che fischiettavo; in quei giorni che passavo con Jay nulla sembrava turbarmi. Piegavo i vestiti che avevo ritirato dai fili e intanto pensavo a quanto ero cambiata da quando c'era lui nella mia vita: tanto per cominciare sorridevo molto più spesso, poi non avevo più avuto bisogno di bere o fumare altro che non fossero sigarette; tra l'altro, avevo ridotto pure quelle perché Jay diceva che non gli piaceva baciare un posacenere. Canticchiavo e fischiettavo anche, come la più patetica delle ragazzine alle prese con la prima cotta.

Felicity apparve sulla porta e restò a guardarmi mentre ballavo su una canzone dei Beatles.

"Oh, non ti avevo vista!" Esclamai, smettendo subito di fare la scema.

"Sei felice, eh?"

"No, no. Che c'entra..."

"Si vede dagli occhi, che sei felice."

Mi arresi; in tutto quel tempo lì imparai che nulla potevo contro l'ostinazione di Felicity.

"Sei innamorata di Jay, non è così?"

"Sì. Lui è meraviglioso e io..."

"Tu pure, Vanessa." Felicity si staccò dallo stipite e venne a sedersi sul bordo del mio letto, che poi in realtà era suo.

"Ti ho vista cambiare un sacco da quando sei arrivata qui e mi fa proprio un sacco piacere."

Sorrisi e soltanto in quel momento mi accorsi che c'era qualcosa che non andava in lei; qualcosa di diverso. La solita allegria e l'energia che sprigionava di solito, erano svanite; non c'era traccia di brio nei suoi occhi scuri ed era anche pallida, nella stagione in cui ci si abbronza anche solo stendendo i panni in giardino. Ero stata fuori casa talmente tanto tempo che non mi ero accorta di quel cambiamento; mi ero concentrata troppo sulla mia vita e non su quella delle persone che in tre mesi erano diventate la mia famiglia.

"Stai bene, Felicity?"

Lei mi guardò e fece un mezzo sorriso triste.

"No." Soffiò a voce bassa.

"Oddio, che hai?"

"Il dottore dice che è un cancro alle ovaie. Uno di quelli rari, all'ultimo stadio."

"Ma possono curarti, potrai essere operata!"

"No." Di nuovo un soffiò, la voce commossa e gli occhi lucidi e pieni di lacrime.

Quella notizia mi colpì come se fosse stato sparato un proiettile da una Calibro 28. Non poteva essere vero; Felicity non poteva stare così male e io non potevo essere stata così superficiale da non accorgermene. E poi, io ero felice, avevo la mia storia con Jay e per una volta non avevo bisogno di nient'altro per sentirmi in pace col mondo, quindi perché adesso Felicity doveva stare male? Non era giusto, non lo meritava e io non volevo.

D'istinto feci quello che mai mi sarei aspettata di fare: le gettai le braccia al collo e la strinsi forte a me, per passarle tutta la mia forza e tutto il mio amore. Quella donna, quella lontana cugina che mi aveva accolto in casa sua come fossi una figlia, mi aveva dato molto più affetto di quanto avesse mai fatto mia madre, che aveva scelto di lasciarmi sola; suo marito si era comportato da padre molto più di quanto non avesse fatto quello biologico e io ero legata a quelle persone molto più di quanto avrei mai potuto credere.

Quell'abbraccio durò tantissimo e quando ci separammo avevamo tutte e due il volto bagnato dalle lacrime. Sarebbe iniziato un periodo difficile ma non mi sarei tirata indietro e avrei aiutato la mia nuova famiglia.

Nelle settimane successive tutto parve precipitare; Felicity stava sempre più male e io facevo la spola tra il bar di Gennaro e l'ospedale, dove eravamo riusciti a farla ricoverare per garantirle le ultime cure necessarie. Jay passava con me tutto il tempo che sceglievo di trascorrere con lei e tutti e tre ci divertivamo tantissimo a sfidarci al gioco dei mimi, dove lei indovinava e basta mentre io e Jay davamo sfogo a tutta la nostra incapacità di attori, facendola divertire il più possibile. Maurizio arrivava la sera, dopo una giornata di lavoro, per darmi il cambio e passare la notte con sua moglie. Non avevo mai visto nessuno tanto innamorato; si prendeva cura di lei come fosse una pianta delicata da dover proteggere, la coccolava e la sgridava quando, a causa della pesantezza delle cure, si rifiutava di prendere le medicine. Vidi per la prima volta che cosa significava consacrarsi totalmente a qualcun altro e capii che l'amore era un dono raro da trovare ma che quando nasceva, sarebbe durato per l'eternità; non ci sarebbe stato nessun cancro raro all'ultimo stadio a separare Felicity e Maurizio, la loro storia sarebbe andata avanti anche se la malattia avesse vinto.

"Come ti senti?" mi chiese Jay, mentre mi accoccolavo a lui sul divano di casa Dolce, stanca e triste.

"Male. Non ho mai visto nessuno così giovane e così malato."

"Felicity è forte, ce la farà."

"E' un cancro raro all'ultimo stadio, Jay. Non la salverebbe niente, se non un miracolo."

Lo sentii sospirare e improvvisamente realizzai che se lui era lì con me in quel momento, se passava tutte le sue giornate in ospedale e se non gli pesava rinunciare alla fine dell'estate per rattristarsi per la sorte di Felicity, allora forse il sentimento che ci legava non era poi tanto diverso da quello che univa la mia lontana cugina e Maurizio. Lui stava facendo, in maniera minore e per un motivo diverso, quello che il marito di Felicity stava facendo per lei: si stava prendendo cura di me in un momento difficile, sacrificando sé stesso e le sue priorità.

Mi girai di scatto, non appena realizzai che non avrei mai potuto farmi scappare quel dono prezioso.

"Che c'è?" Sorrise lui.

"Ti amo."

"Lo so. Anche io."

"No Jay, tu non capisci. Tu sei come Maurizio per Felicity, sei l'uomo della mia vita!"

Lui sorrise ancora, stavolta con più convinzione, poi mi fece scivolare fra le sue braccia, in modo che finii in braccio a lui, faccia a faccia.

"Beh è un bene perché io sono fermamente convinto che tu sia la donna della mia vita."

Lo baciai, con un'intensità tale che sperai potesse comprendere tutti i miei sentimenti attraverso quel bacio. Si separò da me soltanto per guardarmi negli occhi e dirmi:

"Sposami."

Mi allontanai ancora un po' dal suo volto, per capire se parlava sul serio.

"Che cosa?!"

"Mi hai sentito. Sposami."

"Jay ma..."

"E' una follia, lo so. Felicity sta male ed è un casino e ci conosciamo solo da due mesi ma ti amo e ti amerò per il resto dei miei giorni, quindi perché non farlo? In più mi sentirei molto più tranquillo a tornare all'università sapendo che sono tuo marito. Potrai avere la tua famiglia."

Non riuscivo a muovere un muscolo; ero paralizzata, tremavo e il cuore nel petto batteva così forte da rimbombarmi nelle orecchie. Era l'idea più folle che avessi mai sentito, persino più pazza dell'andare a Key West e sottrarre quelle venti pasticche agli spacciatori che mi davano la caccia per avere indietro i soldi o la roba. Eppure, proprio perché era la cosa più fuori dalle righe che io avessi mai sentito, mi piaceva.

"Potrei essere tua moglie."

"E stare con me legalmente, per sempre."

"E' una follia!" risi, coprendomi il volto con una mano.

"Mi ami?"

"Certo che ti amo!"

"E allora sposami."

Il venticinque di agosto, in una calda giornata di fine estate, mentre il sole rendeva il cielo arancione, io e Jay in una piccola chiesetta cattolica di Paterson ci scambiammo gli anelli e ci giurammo amore eterno davanti a Dio e ai pochi parenti che avevano deciso di prendere parte alla cerimonia. Non tutti erano stati d'accordo con la nostra decisione infatti: Adelita Suarez fu la prima a restarci quasi secca quando suo figlio le comunicò l'intenzione di sposarmi. Non credo di esserle andata mai troppo a genio, ero la ragazza sbandata che cercava di distrarre suo figlio da quelli che erano gli obiettivi importanti della vita e non ero adatta a lui. Peonie si limitò a dirmi di non chiedergli di trovare un buon avvocato nel caso in cui dopo qualche mese le cose fra me e il mio fidanzato messicano non sarebbero andate bene ma io non la ascoltai perché il suo parere contava meno di zero; quello che mi interessava invece era ciò che avrebbe detto mio padre. Ricordo di aver preso quel volo per la Florida piena di ansie e di paure, con Jay che mi teneva la mano e che continuava a ripetermi di stare tranquilla, che lui mi avrebbe capita e ci avrebbe dato la sua benedizione. E in effetti andò più o meno così; mio padre prese parte alla cerimonia anche se Peonie si rifiutò di venire e mischiarsi a quella comunità di mangia-fagioli; con lei mancò anche la mia sorellastra ma c'era papà e anche Felicity. Eravamo riusciti ad ottenere un permesso dall'ospedale per farla uscire giusto il tempo della funzione in chiesa e del piccolo rinfresco, poi sarebbe tornata a spendere le ore che le restavano da vivere attaccata alle flebo e alla mascherina dell'ossigeno. Quel giorno non sembrava neanche ammalata tanto era radiosa e felice per me.

La festa di nozze fu meravigliosa e mai avrei immaginato che ai matrimoni ci si potesse anche divertire così tanto, ma forse era soltanto perché non ero mai stata la sposa prima di allora.

Jay era meraviglioso nel suo smoking nero e con il fiore all'occhiello. Mi aveva sorriso per tutto il tempo, allo stesso modo in cui tre mesi prima aveva fatto accogliendomi nel bar di Gennaro, che assisté alla funzione commosso. Ero sicura di quella scelta anche se tutta la vita era una promessa piuttosto impegnativa, per me che non sapevo neanche cosa avrei fatto il giorno dopo; eppure una sola certezza bastava per sempre: Jay e quello che provavamo l'uno per l'altra.

Rinunciammo al viaggio di nozze perché una settimana dopo Jay dovette tornare al college per l'inizio delle lezioni; Felicity continuò a vivere due settimane in più di quanto avevano pronosticato i medici e per noi fu un vero strazio doverci separare da lei.

Ero sola in ospedale a tenerle la mano prima che spirasse e le ultime cose che pensò a dirmi furono delle raccomandazioni che non scorderò mai:

"Fregatene delle opinioni della gente ,Vanessa e continua a vivere andando per la tua strada. Tieniti stretto Jay è quanto di meglio potesse capitarti nella vita. In questa tua folle estate sei riuscita ad aprire il tuo cuore e soltanto un'altra anima pura poteva accoglierlo. Fidati di una donna malata e innamorata di suo marito come fosse il primo giorno."

"Mi fido, Felicity. Mi fido."

"Adesso ho detto davvero tutto. So che sei in buone mani ma devo chiederti di prenderti cura anche di Maurizio. Lui da solo non se la sa cavare e ti vuole bene come fossi sua figlia, quindi ti prego, promettimi che quando tornerai in Florida non ti dimenticherai di lui."

Promisi anche quello, solo che in Florida non ci tornai mai.

Dopo aver salutato definitivamente Felicity e dopo il suo funerale, parlai con Maurizio e gli chiesi se era d'accordo a farmi restare in casa con lui anche adesso che sua moglie non c'era più. Non volevo tornare in Florida, perché non c'era più niente che mi legava alla vita che facevo lì; ero diventata un'altra persona, forse ero cresciuta, di scuro ero cambiata e mi ero affezionata a Maurizio al punto che saperlo da solo nella casa che prima divideva con sua moglie mi faceva male. Avevamo vissuto tutti insieme sotto allo stesso tetto per tre mesi, in cui avevamo imparato a conoscerci e a volerci bene e io ero stata amata come mai prima di allora nella mia vita, quindi non avevo motivi per andare via. Maurizio mi sorrise e mi abbracciò forte, dicendomi che sarebbe stato lieto di avermi in casa, perché sarebbe stato come avere ancora Felicity con lui. Era diventato il mio padre adottivo e io gli sarei rimasta accanto fino alla fine dei suoi giorni, insieme a Chino, il primo vero amico che mi ero fatta appena arrivata lì.

Jay tornò per le vacanze di Natale e tutti insieme passammo le feste più belle che io avessi mai potuto avere.

Non avrei mai pensato che la mia folle, noiosa estate a Paterson sarebbe diventata la più folle amorevole stagione di sempre, perché l'amore cambia tutto: le persone, le strade, la vita. 

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