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Capitolo 7 - I postumi di una sbornia, ma senza sbornia

Credit: @/fluffyblaire su Instagram

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Grazie @veciadespade per essere la mia fonte inesauribile di risate e disagio. Questo titolo prende spunto da una conversazione realmente avvenuta. Ci sono cose nelle nostre chat che voi umani non potete neanche immaginare!

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Le sue scarpe scivolavano sul marmo liscio delle scale del suo condominio, a ogni passo rischiava di perdere l'equilibrio. Agitando le braccia per non cadere col sedere per terra, si sentiva un pinguino che stava imparando a camminare. I pantaloni erano bagnati, come anche la sua felpa, pregni di un intruglio disgustoso fatto di acqua, qualche bibita gassata esageratamente zuccherina e quello che doveva essere l'olio di un hamburger, ma era più simile alla benzina per odore e consistenza. Doveva sforzarsi di respirare con la bocca, perché rischiava di vomitare per quel fetore rancido. E pensare che era stato così stupido da mettersi le scarpe nuove! Dal candido bianco erano passate a un sudicio marrone, che era certo non sarebbe mai andato via. 30mila yen buttati per aria nel giro di una notte!

Non è che posso piangere sul latte versato, sono anche io cretino.

Lasciandosi scappare un sospiro più profondo degli altri, iniziò a cercare le chiavi di casa nella tasca sul retro dei suoi jeans quando arrivò al suo pianerottolo. Le infilò con la flemma di una lumaca nella toppa, cercandola a tastoni e graffiando la maniglia, la faccia affondata nel legno duro della porta. Magari per una volta sarebbe morto soffocato.

Kami, non ce la faccio più...

Quando si chiuse la porta alle spalle, vi si appoggiò sopra per prendersi qualche istante di pausa chiudendo gli occhi. Casa sua era immersa nel silenzio, ma uno di quelli confortevoli, che sembrano abbracciarti in una stretta salda e calda. Aveva ricercato quel silenzio per tutta la giornata e finalmente ce l'aveva. Il suo cervello era devastato, c'era il nulla assoluto. Basta, i suoi neuroni avevano dato forfait ed erano scappati alle Canarie al posto suo.

Forse è meglio se mi faccio una doccia e vada a dormire che domani sarà una luuuunga giornata pensò trascinando i piedi verso il bagno. Un timido miagolio fu capace di risollevargli il morale. Di colpo, quando sentì il pelo morbido accarezzargli le caviglie, tutta la stanchezza e il malumore sembravano volare via con la stessa delicatezza con cui Heidi si strusciava contro le sue gambe. Si chinò sulle gambe doloranti per accarezzarla dietro l'orecchio, mormorando paroline idiote. Si trasformava in un rincitrullito e iniziava a parlare con quella stridula che di solito usano le madri con i loro figli.

«Ma buonasera, Principessa, come stai? Siamo in vena di coccole oggi?» disse alla sua gatta che di rimando lo guardò con aria imperiosa negli occhi grigio-azzurri, continuando a pretendere i suoi grattini. Non era mai stato un grande amante degli animali, ma suo fratello Shoto sembrava attirare gatti come una calamita. Quasi ogni mese riusciva a trovare qualche trovatello, che puntualmente cercava di piazzare o in casa dei suoi o a casa di uno dei suoi fratelli, ma Natsu, vivendo in un appartamento con dei coinquilini che non vogliono animali, non poteva prenderli con sé, e Fuyumi stava ancora cercando casa, quindi Touya si era visto sfilare davanti una serie infinita di gatti di tutte le forme e i colori, finché esasperato aveva preso Heidi. Ovviamente il nome era stato scelto dal suo fratellino e ormai la gatta di due anni rispondeva solo quello. O meglio, rispondeva quando voleva lei.

Ogni tanto Shoto si presentava di fronte alla porta di casa sua con qualche altro gatto, ma ci pensava Heidi a soffiare al posto suo per ricordargli che era lei la padrona di casa. La gatta, esattamente come Touya, non sopportava nessuno: scappava quando qualcuno cercava di accarezzarla, faceva gli agguati alle caviglie delle persone quando erano ospiti a casa sua, snobbava tutti quelli che cercavano di coccolarla. Nessuno a parte Touya e Shoto, gli unici autorizzati a toccarla e a darle da mangiare. Keigo, che già di suo non amava gli animali, era la sua vittima preferita, perché tutte le volte che entrava in casa la bestiolina, come la chiamava il suo migliore amico, tentava di arrampicarsi su per le ali del ragazzo, attirata dalle piume rosse.

«Però, signorina, abbiamo già mangiato, mica posso darti le crocchette a tutte le ore del giorno.».

Il miagolio di Heidi era irremovibile: coccole e cibo, anche alla svelta. Così Touya, comandato a bacchetta persino dal suo gatto, si diresse in cucinare per riempire la ciotola di altri croccantini. Appena raggiunse il ripiano della cucina, vicino ai fornelli, fu raggiunto con un balzo anche da Heidi che iniziò a strusciarsi contro il suo braccio e a fare le fusa. A Touya venne da ridere.

«Senti, Trattorino, smettila di fare la ruffiana. Stanno arrivando le crocchette, stanno arrivando!».

Si concesse qualche altro minuto di silenzio, osservando Heidi mangiare, il viso appoggiato sui palmi delle mani e il gomiti sul ripiano affianco a lei. Non pensava a nulla in quel momento, era come se il suo cervello fosse riempito di ovatta: pieno di pensieri inconsistenti, leggeri. Era arrivato a un livello di stanchezza tale da non rendersi conto quando tempo fosse rimasto lì, in una posizione atrocemente scomoda, che gli avrebbe di certo procurato mal di schiena, a guardare il suo gatto mangiare.

Dopo un po' il suo corpo si mosse da solo, andando in camera a prendere il necessario per la notte, poi andò in bagno a riempire la vasca. Era per la precisione 1:03 di giovedì 4 luglio 2030, il giorno dopo si sarebbe dovuto alzare alle 6 per andare in agenzia da suo padre per una riunione su un'indagine con la polizia. Voleva andare a dormire, ma sentiva anche il bisogno di uno di quei bagni caldi, roventi che ti stendono definitivamente. Versò nell'acqua una delle bathbomb alla pesca che aveva comprato e che poi aveva lasciato prendere la polvere nel suo armadietto in attesa di "momenti speciali". E se quello non lo era...

Si tolse i vestiti lanciandoli direttamente in lavatrice, per poi immergersi nell'acqua tiepida. Quando si sdraiò completamente, appoggiando i talloni dall'altro lato della vasca, finalmente si concesse di rilassare i muscoli. Si sentiva indolenzito dovunque, dall'alluce che aveva sbattuto contro un cassonetto durante la fuga fino al punto in mezzo alle sopracciglia che sentiva pulsare ritmicamente. Un dolore sordo gli martellava la testa incessantemente, stordendolo ancora di più di quanto già non fosse. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa all'indietro, ripensando al casino in cui si era cacciato.

Quella sera era stata surreale! Non aveva altri modi per descriverla. Il locale con l'insegna percolante, la bisca piena di uomini sudaticci e ubriachi di soldi, gli scontri sanguinosi, l'assurda fuga che aveva dovuto escogitare con Mitsuha... e Kami, quella ragazza! L'aveva sconvolto più di tutti. Mai in vita sua si era mai sentito così braccato, predato da qualcuno in quel modo. Non aveva mai distolto lo sguardo da lui, neanche per un secondo. Lo aveva guardato molto bene.

Era stato studiato, in ogni minimo particolare, come fa un puma in mezzo alla neve che osserva da lontano il cervo inconsapevole. Lui, però, era fin troppo consapevole di quegli sguardi indagatori, quindi l'avrebbe lasciata fare. Avrebbe permesso a Mitsuha di fare di lui ciò che voleva finché avesse tenuto lontano quegli occhi lontani da suo fratello, dai suoi compagni e dai suoi amici. Avrebbe fatto tutto quello che era necessario per essere nel mirino della mercenaria fino a quando non avrebbe soddisfatto la Commissione. D'altronde era stato addestrato per questo.

Eppure c'era una parte di lui, una scintilla che in realtà si era divertita. Una parte di sé aveva ricercato l'attenzione di Mitsuha volontariamente, troppo ipnotizzato da quegli occhi scuri senza rendersene conto. Forse era per missione, forse per puro gusto masochistico. Non ne aveva la più pallida idea. In quel momento aveva ben poche certezze in realtà.

Da tempo si sentiva come un funambolo che cammina su un filo sottilissimo tra due grattacieli. Ogni passo era una probabilità in più di cadere, ogni sferzata di vento rischiava di buttarlo giù e lui non sapeva quanto sarebbe resistito. Sarebbe riuscito ad arrivare dall'altra parte? A tornare indietro? Oppure si sarebbe solo lasciato andare cadendo nel vuoto?

Kami, mi scoppia la testa!

Prese una boccata d'aria e si immerse nella vasca, nella speranza che l'acqua ovattasse i suoi stessi pensieri. Il dolore si era spostato da in mezzo agli occhi alle tempie, martoriandogli il cervello. Era stanco, stufo marcio di tante cose in realtà nella sua vita. Il lavoro che, sì, gli piaceva, ma quando era la presidentessa a comandarlo a bacchetta gli si formava un nodo dalla gola di rabbia e frustrazione, che si scioglieva dopo ore, se non giorni interi. Non aveva amici, se non quelli di una vita. Dopo il lavoro non aveva tempo fisico per fare nient'altro, a parte friggersi gli occhi con la televisione durante i suoi giorni liberi, troppo stanco anche solo per prendere in considerazione l'idea di uscire e fare qualcos'altro.

La sua famiglia forse era l'unica cosa che si reggeva in piedi senza intoppi. Anzi, a volte sembrava che fossero loro a sorreggere lui. Dopo il suo inizio dell'addestramento, da piccolino, pensava che le cose sarebbero cambiate, che ora che Natsu e Fuyumi lo avrebbero rimpiazzato con Shoto, ma non era stato affatto così ed era stato davvero uno stupido a crederlo.

La prima volta che era tornato a casa era verso fine luglio, dopo un periodo intenso di studio e di allenamenti matti et disperati con Keigo. Avevano più di un mese di vacanze e lui sarebbe tornato a casa per godersele, ma lasciando il suo migliore amico da solo. Gli aveva fatto un po' pena, mentre stava preparando le valigie con il ragazzino triste, la testa sorretta dalle mani, che lo osservava dal letto con gli occhi che lo imploravano di restare. La sua famiglia però lo rivoleva a casa, però avrebbe parlato con i suoi per proporre di invitare il ragazzino alla casa di campagna a Satoyama.

Vedere suo padre dopo quattro mesi era stato strano. Non era cambiato per nulla, eppure c'era qualcosa di diverso in lui. Non stava fermo per più di qualche secondo, cambiando la posizione delle braccia o semplicemente spostandosi di qualche passo. Aveva la schiena rigida come se avesse un ragno che gli si stesse arrampicando sopra e continuava a guardare l'orologio che aveva al polso. Poi quando si girò a guardarlo, notò una strana luce nei suoi occhi, così simili ai suoi. Sembrava... sollevato? Felice? Ansioso? Non ebbe il tempo per decifrarlo che si ritrovò stretto nel suo abbraccio caldo. Già c'erano più di 20° gradi, se poi suo padre, con la sua temperatura di 38° gradi fissi, lo abbracciava rischiava di svenire, ma lo lasciò fare. Era bello rivederlo dopo così tanto tempo, aveva voglia di raccontargli tutto quanto dall'incontro con Keigo a cosa aveva mangiato il giorno prima a pranzo.

E così era stato, loro due in macchina da soli che chiacchieravano. Per Touya era assurdo, mai aveva speso del tempo semplicemente parlando con suo padre. Avevano discusso di tantissime cose: cosa aveva studiato, come si era allenato, i suoi compagni, Keigo, gli insegnanti e suo padre aveva rincarato la dose dandogli dei consigli e raccontandogli della sua famiglia. Aveva notato anche la punta delle orecchie leggermente arrossata quando aveva parlato della mamma. Sembrava felice.

Nel corso degli anni era diventato una specie di rito per lui e suo padre: veniva sempre e solo Enji a venirlo a prendere, in modo da gustarsi da solo il figlio. Aveva sentito sua madre rimproverarlo scherzosamente sul fatto che non le permettesse di venire con lui, perché "insomma, tesoro, è anche figlio mio!". Suo padre, con un'espressione calmissima mentre beveva il suo caffè, aveva risposto "E quindi?". Rei si era arresa, ma non per questo aveva smesso di viziarlo con manicaretti ogni volta che tornava.

Touya riemerse dopo qualche secondo e si mise seduto in mezzo alla vasca, con le gambe incrociate per quel che il piccolo spazio gli permetteva. I capelli bagnati gli gocciolavano sugli occhi, facendogli fare strane smorfie di fastidio, ma nonostante ciò incrociò le braccia appoggiandole sulle ginocchia e poi vi ci affondò la faccia. Lasciò che la sua mente vagasse ancora un po'.

Con i suoi fratelli era molto legato. A seconda di cosa avesse bisogno aveva sempre qualcuno pronto ad aiutarlo: Fuyumi era l'addetta alle torte e ai momenti in cui aveva bisogno di conforto e di buon consiglio, Natsu era perfetto per sfogare la rabbia e la frustrazione, magari di fronte a un videogioco o a un pallone da basket. Shoto invece era per i momenti calmi, per le chiacchiere di fronte al tè o sul portico di casa durante le belle giornate. A volte si sentiva ancora un po' in soggezione con lui, ma erano momenti rari e sfuggevoli, ormai non ci pensava più alla loro infanzia. Dubitava anche che Shoto si ricordasse di quel periodo.

I momenti con Shoto però erano anche i più divertenti e buffi, quel ragazzino gli infondeva una tenerezza immensa. Quando non capiva qualcosa, che variava dal semplice compito di matematica alle palesi avance di quel suo compagno di classe di origini spagnole o di quella ragazzina dai capelli neri, faceva un'espressione così goffa da farlo piegare in due dalle risate. Gli occhi limpidissimi e serissimi, le sopracciglia leggermente aggrottate rispondeva sempre con qualche ovvietà alle battutine, probabilmente sentendosi anche stupido. Era quel genere di persona che avrebbe voluto avvolgere in una coperta, piazzarla sul letto con una tazza di cioccolata calda. Gli scappò una risatina pensando al fratellino, impacciato e goffo che tentava di fare amicizia con i suoi compagni di classe esuberanti.

Adesso rido anche da solo? Questo è il primo passo verso la pazzia!

Finì di lavarsi, facendo ben due shampi perché i suoi capelli si sporcavano con un nonnulla e doveva praticamente usare lo sgrassatore per farli ritornare del loro candido bianco. Una volta fuori dalla vasca e avvolto nel suo accappatoio, si diresse verso il lavandino per mettersi le creme per la notte e lavarsi i denti. Quasi gli venne un infarto a vedersi, quando passò un asciugamano sulla superficie appannata dello specchio. I capelli, anche se lavati, erano sparati in tutte le direzioni, aveva due occhiaie violacee e profonde sotto gli occhi, come se l'avessero preso a pugni, e le guance scavate.

Le uniche cose messe bene erano i suoi piercing, sparsi per il suo corpo, come una costellazione. I tre nostril se li era fatti appena compiuti 18 anni, tutti insieme. Ovviamente era stato accompagnato da Keigo che era svenuto alla vista dell'ago. Poi c'erano i tre piercing per orecchio, la lingua e il central labret. Scendendo lungo la linea del collo bianco, si poteva vedere il dermal al centro perfetto della fossetta giugulare, accompagnato da altri due poco sotto le clavicole. Questi erano i suoi preferiti e anche quelli più odiati da suo padre, diceva che erano troppo femminili, insieme a quello che aveva all'ombelico. Probabilmente avrebbe anche disapprovato un altro piercing, di cui non sapeva nulla per il semplice fatto che non era visibile nemmeno col costume addosso e che aveva fatto da ubriaco alla festa del 20° compleanno di Keigo.

Aveva anche altri piercing fantasmi per il corpo, che aveva dovuto togliere per diversi motivi, ma tutto sommato si piaceva così. Non si sentiva un fotomodello o uno di quei fustacchioni che stanno sulle pellicole americane, però si credeva quanto meno carino. Va bene, non era particolarmente alto e robusto, come lo erano suo padre e Natsu, e Shoto lentamente lo stava superando in altezza, però non era mica tutto da buttare! Un po' di muscolatura c'era, niente di esagerato o di particolarmente pompato, ma si notava.

Sto delirando!

Finì di pulire lo specchio, poi si dedicò ai suoi dieci minuti di skin care serale. Se c'era una cosa di cui avrebbe fatto volentieri a meno era la pelle ultradelicata. Ogni mattina e ogni sera doveva spendere tempo per cospargersi la faccia di creme idratanti, oli rigeneranti, sieri strani a base di bava di lumaca. Insieme ad altri prodotti per la cura del corpo tra scrubb e creme burrose come quello al karitè, che gli lasciava la pelle morbidissima, ma gli veniva il vomito al solo toccarlo. Una volta suo sorella le aveva consigliato un olio che profumava di legno di cedro: glielo aveva lanciato in testa dopo due giorni di quell'odore insopportabile.

Dopo essersi messo il pigiama, aver lavato i denti e aver sistemato il disastro che aveva fatto in bagno, si diresse verso la camera da letto, subito a destra dopo la porta. Ci si buttò sopra di faccia e, senza neanche avere il tempo di rigirarsi, si addormentò. L'unica cosa che sentì era il pelo grigio di Heidi che gli solleticava il naso, poi piombò nel buio più totale.

Stava facendo un bel sogno. Era in riva alla spiaggia, su un bel lettino a godersi il tramonto aranciato. Il sole spuntava ancora timido dal mare, illuminando il cielo azzurro di sfumature calde e scintillanti. Le nuvole passavano serene sulla sua testa, non gonfie di pioggia, spostandosi pigramente da una parte all'altra. Aveva ancora dei granellini di sabbia tra le dita dei piedi, ma non gli davano fastidio, anzi erano un leggero massaggio ai suoi piedi martoriati. In realtà, ne aveva un po' ovunque: sulle gambe snelle, tra le dita affusolate, sul petto e sul collo candidi, ma non si curava di toglierla. Sentiva sulla pelle l'acqua salata che man mano evaporava, lasciandosi dietro una scia di freschezza. L'aria era immobile, ferma, non c'erano suoni, solo lo scrosciare del mare sulla battigia, ripetitivo e lento come una ninna nanna.

Respirò a fondo il profumo del mare chiudendo gli occhi, una mistura unica di tanti sapori diversi. C'era particolare sapore del sale, che gli stuzzicava la lingua, l'odore secco della sabbia, quello pungente delle alghe che ti si attorcigliano alle caviglie quando immergi i piedi nell'acqua fresca. Sentì l'aria entrargli nei polmoni e rinfrescarli, come un olio balsamico, rigenerandoli dopo tanti giorni di fumo e fuoco. Il mare era sempre stato un toccasana per lui, ogni volta si sentiva rinascere. In quelle brevi vacanze che si concedeva, si sentiva smontato da tutte le sue ansie e le sue paranoie, per poi essere rimontato pezzo per pezzo nell'ordine esatto. Si sentiva aggiustato, ecco.

Sentì una presenza alla sua destra, una mano fresca che gli accarezzava il capelli e la guancia, mentre si sedeva al suo fianco sul lettino. Ancora non aveva aperto gli occhi, ma percepì una persona, una ragazza per la precisione, sdraiarsi affianco a lui, appoggiando la testa sulla sua spalla, solleticandogli il naso con i capelli. Entrambi si sciolsero l'uno contro l'altro, mentre anche Touya poggiava la propria testa su quella della ragazza, avvolgendole il corpo morbido col braccio. Se la strinse addosso, non tanto per lussuria, quanto per il bisogno fisico di sentire la sua pelle sulla sua, per sentire che fosse reale, che fosse davvero lì con lui. Alla ragazza scappò una risatina, poi avvicinò le labbra al suo orecchio e gli sussurrò sfiorandogli il padiglione. Sentì il solletico attraversargli tutto il corpo.

«Svegliaaa.».

Aggrottò le sopracciglia confuso e spaventato, aveva riconosciuto fin troppo bene quella voce. Quel tono canzonatorio e prepotente, la voce che grattava contro la gola in un ringhio basso e continuo. Voltò la testa di scatto verso la ragazza tentando di aprire gli occhi, ma invano. All'improvviso se li sentiva pieni di sabbia, secco e doloranti. Una fitta di dolore gli attraversò quello destro come un fulmine, trapanandogli il cervello. Cercò in tutti i modi di aprire gli occhi, ma sentiva le palpebre incollate testardamente al bulbo oculare impossibilitandogli di vedere. Il cuore iniziò a correre all'impazzata preso dal panico, lo sentiva rombare nelle orecchie, come il motore di una macchina. Spinse via la ragazza mentre questa scoppiava a ridere con una vocina stridula e gracchiante e alzò il braccio per...

Afferrò il telefono dal comodino, ma finì solo per farlo cadere per terra. A tastoni, cercò il cellulare che imperterrito continuava a squillare. Sentiva le braccia di piombo, gli occhi collosi, la testa stava per scoppiargli. Quando lo appoggiò all'orecchio, la voce ruggente di suo padre gli rimbombò nell'orecchio.

«Touya! Ma dove sei?».

La domanda impiegò qualche secondo ad arrivare alle sue sinapsi.

«Dove sono? In che senso? Aspetta, ma dove sono?».

Si guardò in giro per capire dov'era. Dalle palpebre socchiuse gli parve di vedere il pelo grigio di Heidi, sdraiata sul letto come una matrona romana.

«Ah! Ma io sono a casa.».

«A CASA?».

«Sì, perché? La riunione è tra un...».

«LA RIUNIONE È ADESSO.».

Si sentì come se gli avessero gettato in faccia un secchio d'acqua ghiacciata.

Oh cazzo.

Si alzò di scatto dal letto, ruzzolando per terra, col telefono incastrato tra l'orecchio e la spalla.

Oh cazzo.

Nella fretta non si accorse di aver trascinato anche le coperte, quindi scivolò in avanti facendo volare il telefono dall'altra parte della stanza e cadendo a terra con un tonfo.

Oh cazzo.

Riacciuffò il cellulare strisciando sul pavimento giusto in tempo per sentire suo padre lamentarsi.

«-stai facendo? Touya, cosa stai combinando? Cos'è tutto questo casino?».

«Scusa, papà, ieri sono tornato all'una a casa per colpa di una missione e mi sono dimenticato la sveglia. Giuro che adesso-».

Sentì suo padre sospirare pesantemente e interromperlo.

«Missione? Non era il tuo giorno libero ieri?».

Touya voleva solo piangere, ma si contenne.

«Teoricamente sì, ma la presidentessa ha affidato a me e a Keigo un'altra missione. Non le bastava il giro per le fogne della scorsa settimana!».

Nel frattempo si era alzato massaggiandosi il ginocchio che aveva urtato contro il pavimento.

«Che genere di missione?».

Il brusio di sottofondo era scomparso, evidentemente era appena uscito dalla sala riunioni.

«Mi spiace, papà, non posso dirtelo. La presidentessa ci ha chiesto la massima riservatezza, sai cosa vuol dire.».

Si era diretto verso l'armadio, in cerca del costume di scorta mentre l'altro era ancora nella cesta dei panni sporchi in attesa di essere lavato dagli strati di cenere. Dall'altro capo del telefono suo padre stette zitto qualche secondo, poi riprese a parlare.

«Posso sapere almeno se questa missione aveva a che fare con un incendio in un locale di periferia?».

Touya fu pervaso dal terrore, che dalla testa attraversò tutto il corpo fino alle punta delle dita, congelandolo sul posto. Ogni colore del suo corpo era finito in una pozzanghera ai suoi piedi.

OH CAZZO.

«Si è fatto male qualcuno?».

«No, tranquillo, nessuno si è fatto male, stanno tutti bene. Ma stamattina sono stato testimone di una bellissima sfuriata di Okamoto al comandante di polizia. Erano a conoscenza della missione, ma credevano che sareste andati tra una settimana.».

Sentì man mano il calore rientrargli nel corpo per il sollievo. Rimaneva comunque piuttosto confuso per la retata. E anche molto arrabbiato.

Era riuscito ad aprire gli occhi, ma sentiva qualcosa incastrato nelle palpebre che gli pizzicava gli occhi in maniera atroce. Peggiorò la situazione quando se li toccò con la mano libera, il fastidio aumentò ancora di più.

«Tra una settimana? Che cazzo di senso ha, scusa?».

«Ah, non dirlo a me!».

Touya si diresse verso il bagno e specchiandosi si rese conto di un'amara realtà: il giorno prima, o meglio quella notte, si era dimenticato di togliersi le lenti a contatto. Mensili. Ed erano l'ultimo paio che gli era rimasto.

OH, CAZZO!

Mise la chiamata in vivavoce, appoggiando il telefono sul lavandino. Si affrettò a lavarsi le mani prima di cacciarsele negli occhi per tirare fuori quegli aggeggi infernali. Quasi strappandosi gli occhi dalle orbite riuscì prendere le lenti, secche come fogli di carta, e ad affogarle nell'apposita acquetta, nella speranza di salvarle. In tutto questo riprese a parlare.

«Papà, comunque, se mi dai mezz'ora riesco ad-».

«No, stai a casa. Me la cavo da solo. Torna per il turno di ronda pomeridiano, prenditi la mattina per riposare.».

«Ma papà io-».

«Touya, resta a casa. È da una vita che faccio queste riunioni da solo, potrò farcela anche senza di te per una volta. E poi, stai facendo il triplo del lavoro ultimamente, dovrei darti un mese di ferie e non solo una mattinata. E in più così come sei conciato adesso, mi saresti più di impiccio. Stai a casa, riposati e poi vieni qui alle 14 per la ronda. Vuoi venire a cena da noi sta sera?».

Una volta inforcati gli occhiali sgangherati che non metteva mai, riprese il telefono guardando la schermata home, su cui svettava un messaggio, breve e conciso, della notte precedente da un numero sconosciuto. Deglutì prima di rispondere. Gli dava fastidio essere trattato in quel modo privilegiato da suo padre, non era giusto che lui se ne stesse a casa, mentre il resto dell'agenzia doveva sgobbare al posto suo, ma contro suo padre non poteva fare o dire nulla.

«No, papà, grazie. Facciamo questo weekend, va bene? Così ci siamo tutti quanti.».

«D'accordo. Lo dico anche a Fuyumi e a Natsu. Allora, buon riposo, Touya. Ci vediamo questo pomeriggio.».

«Va bene, papà, grazie.».

Quasi poté vedere il sorriso di suo padre, quando ridacchiò.

«Di nulla. A dopo.».

Rispose solo con un verso di assenso prima di chiudere la chiamata. L'adrenalina, esattamente com'era arrivata, di botto gli scese sotto i piedi, lasciandolo in uno stato catatonico e confuso. Sentiva la testa pesante e martellante, come se una scimmietta continuasse a sbattere i piatti da dentro la sua testa. Gli occhi ancora bruciavano e attraverso le lenti sporche degli occhiali ci vedeva poco e anche male. Il ginocchio e il gomito pulsavano per la caduta, neanche avesse 12 anni, e sentiva anche un principio di nausea incastrato in gola.

Mi sembra di essere in un post sbornia... ma senza sbornia.

Il messaggio poi non lo rassicurava per nulla, però sarebbe stato un problema del Touya-del-futuro. Il Touya-del-presente voleva solo dormire, quindi si diresse strisciando i piedi verso il letto su cui si buttò di peso. Questa volta ebbe l'accortezza di impostare una sveglia per mezzogiorno prima di sprofondare in un sonno pesante e senza sogni con Heidi accoccolata ai piedi.

Mitsuha stava salendo le scale del suo condominio sbattendo ogni volta i piedi sui gradini in un martellamento costante e lento. Sentiva le gambe deboli e tremanti a ogni passo. A malapena riusciva a sollevare il braccio per afferrare il corrimano e, ammesso che ci fosse riuscita, stringere la presa l'avrebbe fatta urlare dal dolore. Le nocche le facevano male, la pelle le tirava in maniera dolorosa, come se gliela stessero tirando con tante pinze. La faccia era ancora gonfia, il labbro pulsava.

Che cazzo di serata di merda.

Di fronte alla porta di casa, ci impiegò qualche minuto a inserire le chiavi nella toppa e a girare. Ogni singolo movimento delle dita era uno spillo rovente conficcato nella sua pelle. Per fortuna quella sera non aveva dovuto usare molto il suo quirk.

Mi ci manca l'ipotermia pensò tirando una spallata alla porta per aprirla. Di solito, non prendeva appartamenti suoi, si faceva ospitare dai clienti, ma aveva visto in che razza di schifo vivesse la League Of Villains dopo la cattura di All For One, quindi per una volta aveva corso il rischio di farsi beccare pur di vivere con un tetto che non rischiasse di caderle in testa.

Merda! Tra un mese però scade l'affitto.

Era già il secondo appartamento che prendeva, non poteva continuare così per molto. Doveva trovare una soluzione, ma ci avrebbe pensato il giorno dopo. Ora voleva solo buttarsi sul letto, ma neanche quello poteva concedersi! Se non avesse trattato un minimo le ferite alle nocche, piccole e fastidiose, si sarebbe ritrovata le mani inutilizzabili per giorni e in un lavoro come il suo non poteva permetterselo.

Come non poteva permettersi di far introdurre due eroi nella League. Cosa cazzo le era preso quella sera? Perché non li aveva semplicemente spaventati con qualche trucchetto da quattro soldi e rispediti fuori dallo spogliatoio a calci in culo? E invece no! Doveva per forza stare appresso al damerino dalla chioma bianca e all'altro rincitrullito.

In due non fanno neanche un neurone!

Si diresse in bagno e riempì la vasca svogliatamente, puzzava di sudore pure. Anche se era luglio, dall'acqua saliva un piacevole vapore caldo, facendo appannare quasi subito lo specchio. Versò a caso nella vasca qualche bagnodoccia che aveva comprato al combini in fondo alla strada senza neanche degnarsi di leggere l'etichetta. A lei bastava che fosse un sapone, poi sti cazzi se sapeva di barbabietole o di lavanda. Quello che aveva preso sapeva di frutti di bosco, pizzicandole leggermente il palato. Non era male, doveva segnarsi la marca.

Poco dopo essersi svestita a fatica e aver lanciato da qualche parte del bagno i vestiti, si immerse nella vasca bollente. Chiuse gli occhi, godendosi per un po' il calore, la presenza stessa dell'acqua. Per lei immergervisi era più confortevole che starsene appallottolata sotto le coperte. Anche se il ragazzino coi capelli bianchi, Dabi, non aveva battuto ciglio, aveva lo stesso visto il modo in cui aveva spalancato gli occhi quando aveva visto in azione il suo quirk. Era solo troppo incazzata per gongolare e vantarsi.

Mosse un po' le gambe per stiracchiarsi, ma rimase lo stesso immersa fino al mento, braccia comprese, dentro l'acqua. Quei due erano davvero dei cretini, glielo si leggeva negli occhi sgranati che non volevano essere lì in quel momento. Che non volevano stare con lei da soli. Le venne da ridere, trovava sempre molto divertenti quelle espressioni terrorizzate sui volti delle persone. Gli occhi sgranati, le pupille ridotte a un piccolissimo spillo, la bocca tremante di paura. Doveva dire però che quella era stata la parte meno divertente, sorprendentemente.

Si sistemò meglio nell'acqua, agitando pigramente un dito appena sotto la superficie creando un piccolo mulinello che ruotava su sé stesso. C'era stato un momento in cui si era divertita decisamente di più. Quando lo Zuccherino aveva finalmente smesso di fissare la superficie del tavolo come un topolino spaventato e l'aveva guardata in faccia, aveva avvertito un brivido attraversarle la nuca. Non tanto per l'aspetto, anche se doveva ammettere che era molto carino con la pelle diafana, i capelli candidi, quegli occhi azzurri come l'acqua ghiacciata e i piercing argentei a decorargli il corpo. I suoi occhi erano subito scesi lungo la mascella glabra e il collo elegante, puntando subito il dermal poco sotto la gola.

Anzi, altro che carino...

Quello che però l'aveva colpita di quel ragazzo era la fiamma ardente che aveva visto brillargli negli occhi gelidi. Quella ferocia nascosta così simile alla sua l'aveva colpita e attirata a sé come una lenza. Forse per quello non aveva congelato il culo ad entrambi e basta, forse potevano essere delle risorse utili. Non stava pensando tanto alla League, che cazzo era? Un responsabile risorse umane? A lei bastava che sganciassero i soldi e faceva quello che gli era stato ordinato, non intendeva fare extra senza prima vedersi in mano qualche bella mazzetta.

E insomma, se quei due potevano portarle qualche vantaggio... perché no?

Prese il telefono dalla tasca sul retro dei pantaloni abbandonati vicino alla vasca. Scrisse un messaggio, breve e conciso.

A Zuccherino:

23, Viper. Da solo. In borghese.
Non fare tardi, Zuccherino.

Rimise il telefono dove lo aveva trovato e si immerse nella vasca. Si sarebbe divertita un mondo.





- SCLERI DELL'AUTRICE -
Buona domenica a tutt*!
Dopo una bellissima giornata, mi sono detta "perchè non concludere in bellezza?", quindi ECCOMI QUIIII.
Ci tengo anche a fare un paio di chiarimenti. Il nome del gatto è stata un'idea geniale di Nienna1994 (seguite le sue storie, vi prego. Sono ME-RA-VI-GLIO-SE), che ha sua volta l'ha tratto dalla storia "A Company profile" di veciadespade . Vi consiglio caldamente entrambe le storie delle due donzelle, non solo perché hanno la sfiga di essermi amiche, ma anche perché sono due autrici bravissime e anche molto più dotate di me, quindi vi rifarete gli occhi con le loro opere. Se trovate dei commenti col mio nome, ignorateli, divento scema quando leggo le loro storie XD.
Bene, come al solito, vi invito a lasciarmi un commento o una stellina per farmi sapere se la storia vi sta piacendo❤️.
Alla prossima settimana!
Giuli🐙.

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