Capitolo 2 - Inizia a vivere (Parte 1)
Credit: @/viria94 su Instagram (@/viria13 su Twitter)
Il giorno dopo andò allo studio del professor Miura con molta più leggerezza e spensieratezza. Ovvio, quel velo di paura del "adesso mi sbatte nella cella di un ospedale psichiatrico e butta la chiave" c'era ancora, ma riusciva a gestirle.
Entrò con più serenità all'interno del salottino d'attesa. Salutò persino il segretario, Masuhiro, rivolgendogli un piccolo sorriso imbarazzato. Si sedette sulla stessa poltroncina marrone scuro del giorno precedente aspettando il suo turno.
Masuhiro si schiarì la voce dall'altra parte della stanza e gli fece: «Sembra molto più tranquillo oggi, signorino Todoroki. Immagino che il dottor Miura abbia fatto un buon lavoro, come le aveva detto.».
Touya rispose ridacchiando: «Sì, è stato molto bravo, come aveva predetto lei.».
Masuhiro, soddisfatto della risposta, ritornò al suo ticchettare sulla tastiera del computer. Touya d'altro canto, un po' imbarazzato dal silenzio improvviso, come il giorno prima, prese ad osservare il salotto e il suo sguardo atterrò su un giornale posto sul tavolino di fronte a sé.
In prima pagina svettava la statua di All Might nella sua classica posa col pungo alzato verso il cielo, brutalmente deturpata da scritte fatte con la bomboletta spray e un cartello che recitava "IO NON SONO QUI". Ciò che però gli fece accapponare la pelle fu però il titolo dell'articolo.
DOVE SONO ADESSO GLI EROI?
ENDEAVOR È DAVVERO COSÌ EROICO COME CREDIAMO?
Un brivido di panico prese il sopravvento sul suo corpo facendogli girare dall'altro lato il giornaletto da due soldi che aveva davanti. Il panico presto divenne disgusto per sé stesso e per tutto quello che aveva fatto, per poi trasmutarsi in rabbia cocente un attimo dopo.
Dopo tutto quello che avevano fatto? Dopo tutto quello che aveva passato la gente osava lanciargli in faccia merda per UN SOLO dannato errore? Aveva basato tutta la sua vita sul diventare un prohero ed essere utile alla società e questo era il modo con cui lo ripagavano? Che andassero all'Inferno, forse lei dopotutto non aveva tutti i torti...
Il suo flusso di coscienza fu interrotto da una voce calma e tranquilla.
«Ah, Touya! Sei addirittura in anticipo oggi. Non pensavo ti saresti ripresentato, sarò sincero. Non mi sembravi stare molto bene ieri.».
Touya alzò lo sguardo mentre il professor Miura salutava il paziente precedente, per poi rivolgere lo sguardo verso di lui.
«Sì, tanto in convalescenza non ho molto altro da fare.» rispose ridacchiando per sdrammatizzare la situazione.
L'occhio destro era ancora bendato e qualche volta adorava ricordargli di ciò che aveva passato con qualche allegra scossa di dolore. Il trauma cranico stava pian piano guarendo, anche se anch'esso si divertiva a fargli venire dei bei mal di testa durante la notte, mentre le varie escoriazioni su mani e braccia erano quelle messe decisamente meglio, tant'è che quella mattina aveva avuto il permesso dal medico di poter togliere i bendaggi. Dopo l'occhio, l'unica cosa che gli dava ancora problemi era la gamba sinistra: il ginocchio gli faceva ancora male se osava camminare con il passo più veloce di un bradipo che attraversa la strada.
«Allora prima di iniziare la nostra chiacchierata, mi concedi una pausa? Ti offro un bel tè come ringraziamento. Con o senza latte?».
«Sì, certo, nessun problema, dottore. Con un po' di latte, se non le dispiace.».
«Oh, bene. Intanto puoi iniziare a sederti nel mio studio. Io arrivo tra cinque minuti.».
Il professor Miura si diresse verso il cucinino a preparare due tazze di tè e a prendere qualche biscotto da sgranocchiare, mentre Touya si alzava con una smorfia di dolore per dirigersi verso lo studio.
Una cosa che di certo rendeva il signor Miura singolare non era tanto l'aver tappezzato di foto imbarazzanti il suo ufficio, ma il fatto che non chiamasse i loro incontri "sedute" o "visite", bensì "chiacchierate". Era un termine che faceva sorridere Touya, perché in un certo senso sdrammatizzava la situazione assurda in cui era capitato.
Se una settimana prima poteva tranquillamente camminare per le strade ricevendo complimenti e flirt a destra e a manca, ora a malapena osava mettere il naso fuori la porta di casa senza essere letteralmente ricoperto di insulti e male parole.
La cosa che più lo faceva arrabbiare era il non poter fare nulla per cambiare tutto ciò. La gente era arrabbiata, incazzata nera con gli eroi, perché nascondevano dietro falsi sorrisi smaglianti e pugni alzati a mezz'aria un sacco di merda. E lui cosa poteva fare conciato com'era? Era un miracolo se era ancora vivo, se riusciva a stare in piedi, se riusciva a stare cinque minuti senza piangere come un bambino, figuriamoci ad avere a che fare con le persone.
Ma davvero credete che siamo gli unici ipocriti? La colpa è anche vostra, ma non vi guardate? Prima ci idolatrate come dei scesi in terra, adesso al PRIMO errore commesso ci voltate le spalle. Ma non capite che tutto quello che abbiamo fatto, che IO ho fatto l'ho fatto per farvi dormire bene la notte? E sì, a volte avremo pure sbagliato a nascondere la merda sotto il tappeto, ma cos'altro potevamo fare?
Sbuffò piegando la testa a ciondoloni e passandosi le mani fredde per la pioggia sulla nuca per calmarsi un po'.
Arrabbiarmi mi farà solo venire il fegato nero, tanto non posso fare fisicamente nulla. Per un po' forse è meglio che pensi a me stesso, prima di pensare agli altri. Dopotutto me lo merito, ne ho il diritto.
Il profumo di tè verde e biscotti alla cannella gli invase le narici con dolce prepotenza, riportandolo alla realtà. Si voltò per scorgere il dottor Miura entrare nello studio con un vassoio in mano, carico di tè e biscottini di ogni tipo. Senza pensarci fece per alzarsi a dargli una mano, ma una fitta al ginocchio lo fece ricadere sulla poltroncina arancione.
«Oh, non preoccuparti, giovanotto, ce la faccio! Durante l'università lavoravo come cameriere in un locale, questo è niente in confronto alla serata della litrata!» gli disse allegramente il professore, raggiungendolo e appoggiando sulla scrivania le leccornie per quella chiacchierata.
«Almeno mi permetta di versarle il tè!» fece Touya con un sorrisetto al professore che rispose con un cenno del capo mentre si sedeva.
Dopo aver dato il tè ad entrambi facendo attenzione a non usarlo per lavare la scrivania, si presero qualche secondo per assaporarlo per bene. Touya, nonostante il suo quirk, aveva una sensazione di gelo che gli era entrata fin nelle ossa con piccoli aghi, portandolo a tremare come una foglia al vento. Il tepore della tazza di tè prima gli riscaldò le mani come un paio di guanti soffici, per poi passare al naso congelato e alla gola secca. Poteva proprio sentire il vapore caldo dell'acqua scontrarsi contro le sue guance arrossate per il freddo.
Si lasciò andare a un sospiro soddisfatto a quella sensazione di calore familiare, ma non invadente, come se fosse avvolto in una coperta di pile. Quasi tuffò il naso nel liquido caldo nel tentativo di ricercare quel piacevole calore. Si allungò per afferrare un biscotto e cacciarselo in bocca, più per gola che per pura fame.
CANNELLA! E MELE! Pensò gongolandosi di aver preso il biscotto giusto.
Per qualche minuto rimasero così, a bere il tè, a godersi il calore che le tazze sprigionavano e a sbocconcellare i biscotti al burro e alla cannella. Quest'ultimi ovviamente finirono quasi tutti nella pancia di Touya, letteralmente dipendente da qualsiasi cosa contenesse cannella. Se in aggiunta poi c'erano le mele, era pronto a vendere persino sua madre per quei biscotti.
Una volta spazzolato per bene tutto il contenuto del vassoio, il professor Miura lo mise da parte e guardò il ragazzo con aria soddisfatta.
«Ti vedo di buon umore oggi, Touya!».
«Tutto merito del tè e dei biscotti, signore. Erano buonissimi!».
«Oh, ne sono contento. Li hanno fatti le mie figlie ieri e, siccome erano avanzati alcuni, ho ben pensato di portarmeli qui a lavoro. Il cibo a volte sa darti conforto dove le parole non arrivano.».
Touya gli sorrise dandogli ragione. «Sa, mia sorella Fuyumi dice più o meno la stessa cosa, solo che lei di solito i biscotti li cucina, poi sono io che me li mangio. Cos'è che canticchia quando fa le torte? "I'm not mentally in a good place, so I'm baking"? Una cosa simile.».
Il dottore rise all'aneddoto appena raccontato da Touya, poi divenne serio tirando fuori da uno dei suoi cassetti nascosti il suo taccuino e una penna.
«Bene, dopo questa parentesi sui dolci, direi di iniziare a chiacchierare, che ne dici? Vuoi riprendere da dove ci siamo fermati ieri o preferisci cambiare argomento?».
Touya ci pensò qualche secondo. Ormai la parte difficile era andata, poteva pure riprendere la storia delle sue "origini" come prohero.
«Vorrei continuare il discorso di ieri, se non le dispiace.
«Allora, eravamo arrivati alla parte dove mostro a mio padre che sono riuscito a sviluppare il mio quirk al meglio, giusto?
«La mia vita cambiò totalmente da quel momento. Papà finalmente non mi vedeva come un figlio malaticcio da mettere sotto una campana di vetro, riusciva a vedere in me quel potenziale e quel fuoco che aveva tentato di spegnere in quegli anni. Non cercò nemmeno di domarlo, di tenerlo sotto controllo, cercò di plasmarlo. Cercò di plasmare me come eroe e non per forza come il migliore di tutti, che avrebbe oscurato l'immensa luce di All Might, ma aveva finalmente iniziato a costruire insieme a me quel ponte per poter anche solo scorgere da vicino l'altra sponda che divideva "tutti gli altri" dal numero uno.
«Ricordo ancora le parole che mi disse quando mi voltai verso di lui: perdonami.
«Non disse nient'altro. Non c'era bisogno che dicesse altro. Anche perché non sarei stato nemmeno a sentire dalla gioia che provavo, come una bomba nucleare che ti esplode nel cuore diffondendo calore in tutto il corpo. Mai in vita mia ho riprovato una sensazione simile.
«Per i primi mesi ci allenammo da soli, io e lui, ma era chiaro che avessi bisogno di un aiuto esterno. Ho chiesto a mio padre di poter provare a fare il test per entrare allo Yuuei, però non sembrava molto convinto, diceva che avevo bisogno di un aiuto speciale. Guardiamoci in faccia, è vero negli anni il mio corpo si era irrobustito e riuscivo a sopportare meglio i contraccolpi del mio quirk, tuttavia molte volte ho rischiato di farmi del male seriamente.
«Papà mi parlò di un programma che stava sviluppando la Commissione di Pubblica Sicurezza degli Eroi: consisteva nel finanziare e promuovere la crescita di nuovi eroi, che però tramite i metodi tradizionali non avrebbero potuto vedere gli albori di una carriera supereroistica. Ovviamente, anche se ero il figlio del Numero Due, c'erano dei parametri in cui rientrare, come lo stato sociale, la situazione famigliare e... la salute fisica. Il programma in particolare prendeva a cuore giovani aspiranti eroi con quirk eccezionali, ma con altrettanto potenti contraccolpi ed io rientravo perfettamente in quel profilo. Per non dire che ero praticamente l'unico in quel programma ad essere entrato con questa motivazione. Oltre al fatto che mio padre ha sborsato tanti di quei soldi da far navigare nell'oro quei bastardi della Commissione per anni.
«Non eravamo molti nel programma, giusto una decina tra ragazzi e ragazze di tutte le età, anche se il più grande avrà avuto sedici anni. Era un programma relativamente nuovo e particolarmente costoso, quindi erano in pochi ad avere il privilegio di accedervi.
«Fu proprio il primo giorno in cui entrai a far parte del programma che incontrai quella palla al piede del mio migliore amico, Keigo. Dio, all'inizio proprio lo odiavo.».
«TOUYA, MUOVITI. SEI IN RITARDO! ».
«SÍ, MAMMA, ARRIVO.».
Quel lunedì mattina casa Todoroki era particolarmente movimentata. Touya, con ancora una frittata mezza mangiucchiata in bocca e il succo di frutta in mano, girava come una trottola per camera sua in cerca di qualcosa. Neanche lui sapeva esattamente cosa.
Era in preda a una frenesia e a un'agitazione che semplicemente gli impedivano di star fermo, di pensare lucidamente. La testa girava, girava, girava come una giostra di cavalli impazzita, facendogli pensare a trecento cose diverse.
Aspetta, aspetta aspetta, e se mi servissero le converse? Metti che mi danno il permesso di uscire qualche volta, che faccio? Vado in giro sempre con le stesse scarpe? Ma che figura ci faccio? E se invece di portare lo zaino piccolo fosse meglio qualcosa di più grande? E se non mi ci sta tutto? CAZZO! Ma ho preso lo spazzolino? DOV'É IL BEUTY? Ah no, merda, mi sono dimenticato della mia maglietta preferita...
Il suo flusso di coscienza fu violentemente interrotto dalla porta di camera sua che veniva sbattuta con forza. E solo due persone osavano sbattere quella porta: suo padre e...
«TOUYA! TE NE STAI PER ANDARE E NEANCHE CI SALUTI? MA CHE MODI SONO! MAMMA E PAPÁ TI STANNO ASPETTANDO DA DIECI MINUTI DI SOTTO, MUOVITI INVECE DI GIRARE COME UN IDIOTA PER LA STANZA.».
Urlò sua sorella dall'alto dei suoi 150 centimetri, braccia incrociate e gambe divaricate pronta a saltargli al collo al minimo passo falso. Da dietro la schiena di Fuyumi spuntarono anche le testoline bianche dei suoi fratellini: Shoto e Natsuo.
«Infatti, fratellone, non volevi salutarci? Quando torni? Ci sarai al mio compleanno? E a quello di Shoto? E...».
La cascata di domande pronta a uscire dalla bocca di Natsu fu brutalmente tagliata dalle parole di suo fratello maggiore.
«Per la centesima volta, Natsu, non lo so quando torno. Di certo sarò a casa per Capodanno, per il resto dell'anno non lo so.» sbuffò Touya spazientito.
Suo fratello stava affrontando quella fase dell'infanzia dove dalla sua bocca uscivano solo domande su domande, a volte riusciva a chiederti "Perchè?" cinque volte di fila senza neanche stancarsi. E il problema è che non si riusciva a farlo smettere. MAI.
«Dove vai? Perchè te ne devi andare? Possiamo venire con te? Non puoi restare...».
«Natsu, ti prego, tappati la bocca! Te l'ho ripetuto un milione di volte: vado in un'altra scuola e no, non puoi venire con me. Smettila di chiederlo!» urlò praticamente contro il fratello più piccolo, mentre rovistava in uno dei cassetti alla ricerca di qualcosa. Di nuovo, neanche lui sapeva esattamente che cosa.
Per fortuna intervenne sua sorella, santa Fuyumi. Sbuffando, si avviò dall'altra parte della stanza rispetto a dove stava Touya, aprì il primo cassetto del suo comò e tirò fuori la sua maglietta bianca con la scritta "FIRE" sul petto. Le gesta di Fuyumi si conclusero con un lancio perfetto dell'indumento che atterrò sulla testa di suo fratello.
«Ecco la maglietta, pollo. Dai, su, muoviti che sei in ritardo!» gli urlò contro per la seconda volta.
Touya con un verso di fastidio si tolse la maglietta dalla testa per cacciarla in malo modo nello zainetto. In realtà, non sapeva nemmeno lui perché volesse ancora portarsi dietro quella maglia: la scritta era sbiadita a causa dell'usura, i bordi erano tutti allargati e sfibrati, c'era persino una macchia sopravvissuta ai centinaia di lavaggi ed era persino bruciacchiata sulla manica. Insomma, uno schifo.
Eppure non riusciva a lasciare quella casa senza prima portarsela dietro, ci si era affezionato. Rappresentava per lui tutta la fatica e gli sforzi che aveva fatto per arrivare a quel punto.
Scese finalmente al pian terreno con i suoi fratelli e sua sorella alle calcagna, che lo seguivano come dei cagnolini. Nonostante spesso si ritrovavano a litigare per avere l'ultima fetta di torta della nonna o anche solo per chi avesse vinto nei giochi, gli sarebbero mancate quelle tre pesti.
Sì, anche Shoto.
In quei mesi suo padre era diventato completamente un'altra persona. Aveva smesso di litigare con la mamma, anzi a volte uscivano solo loro due a cena fuori o anche solo un pomeriggio per poter stare insieme. Nei quattordici anni della sua breve vita, mai era successo che i suoi genitori passassero del tempo insieme e, soprattutto, era contento di poter rivedere il sorriso sul viso di sua madre. Non si era mai reso conto che fosse così bella.
Shoto invece era finalmente uscito dalla sua bolla, fatta solo di urla e di allenamenti sfiancanti. All'inizio, doveva ammetterlo, non era molto entusiasta nel vedere quella pallina appiccicosa bianca e rossa che gironzolava per casa perennemente attaccata ai pantaloni o di Fuyumi o di sua madre. Nel corso dei giorni, però, aveva imparato a conviverci e ad avere un rapporto quanto meno umano con il suo fratellino. Una volta gli aveva persino permesso di abbracciarlo.
Arrivato di fronte alla porta si girò verso la sua famiglia: suo padre era l'unico che sembrava spazientito per quel ritardo immenso, ma sapeva che sotto sotto era un po' commosso anche lui; sua madre, di solito sempre composta e pacata, stringeva in mano un fazzoletto bagnato e cercava di contenersi dal piangere; Fuyumi era ancora a braccia incrociate che lo fissava in attesa di essere salutata decentemente con ancora Natsu e Shoto attaccati ai suoi pantaloni; Natsu neanche ci stava provando a trattenere le lacrime insozzando i pantaloni di sua sorella con un misto di muco e lacrime; Shoto, infine, sembrava l'unico tranquillo, forse perché troppo piccolo per capire cosa stesse succedendo.
«Bene, allora io vado. Ci vediamo alle vacanze invernali di sicuro.» disse, non sapendo esattamente cosa fare per alleviare l'atmosfera.
Sua sorella sospirò esasperata avviandosi verso di lui a grandi passati, trascinando i fratellini con lei.
«Neanche un abbraccio! Sei un ingrato, Touya!» e lo abbracciò stretto.
Il ragazzo rimase paralizzato, come una statua di ghiaccio a quel gesto inaspettato. Voleva bene a sua sorella e passavano molto tempo insieme studiando o giocando a pallone, ma non era mai stato capace di dimostrarle l'affetto che provava nei suoi confronti. Anzi, non era per niente bravo ad esternare i suoi sentimenti in generale. Quindi si limitò solo a circondare con le braccia la sua sorellina stringendola forte.
«Ti voglio bene, Touya. Mi raccomando, stai attento e ricordati che siamo fieri di te. Tutti quanti, più di tutti papà.».
Le parole di Fuyumi gli arrivarono dritte al cuore e furono capaci di farlo sentire uno schifo per tutte le volte che l'aveva considerata e trattato malissimo.
Ancora una volta a corto di parole, cercò di dimostrarle la sua eterna gratitudine stringendola ancora più forte e appoggiando la fronte contro la sua spalla.
Il momento fu spezzato da qualcuno che gli tirò i pantaloni: era Shoto che si sbracciava per fargli capire di voler essere preso in braccio. Touya, per la prima volta, gli sorrise senza rendersene conto e lo sollevò coinvolgendo anche lui nell'abbraccio.
«Ehi, ehi! Anche io, anche io!» si intromise la vocina stridula di Natsu rivolgendo le braccia anche lui verso il fratello maggiore.
«Natsu, sei troppo grande per essere preso in braccio! Dai, su, ometto vieni qui.» gli rispose prontamente Fuyumi salvando Touya da un imminente mal di schiena.
Così tutti e quattro i fratelli si strinsero per la prima volta in un abbraccio fortissimo. Sembravano non volersi staccare mai più. Touya sentì sua madre trattenere un singhiozzo a quella vista e anche lui cercò di contenersi, ma lo stesso delle lacrime sabotatrici gli attraversarono le guance per venir poi assorbite dalla maglietta di sua sorella. Sperava solo che non avesse gli occhi rossi.
Quando si staccarono, Fuyumi aveva le lacrime agli occhi. Ovviamente Natsu non aveva smesso per un secondo di piangere, impiastricciando anche i suoi di pantaloni. Scompigliò i capelli del fratellino cercando di tranquillizzarlo.
Fuyumi gli prese Shoto dalle braccia e afferrò la manina di Natsuo per farlo allontanare da Touya, altrimenti era capace di attaccarsi alla gamba del fratello costringendolo a trascinarlo fino alla sede della Commissione.
Una volta che i suoi fratelli si allontanarono, Touya rivolse lo sguardo ai suoi genitori. Sua madre aveva il viso bagnato di lacrime, mentre suo padre aveva uno strano e malinconico sorriso sul volto. Fu sua madre a fare il primo passo per abbracciarlo lasciandolo di nuovo sorpreso.
Rei aveva il profumo pungente e penetrante delle genziane che suo padre si premurava di procurarle quasi tutti i giorni. Uno dei tanti gesti che si stava impegnando a fare per farsi perdonare dalla moglie. Come si aspettava, sua madre non era particolarmente calda, ma aveva il calore sufficiente a riscaldargli il cuore.
«Siamo così fieri di te, Touya. Inizia a vivere, figlio mio. Ti voglio bene.» gli disse con voce commossa e tremante.
Touya avvolse le braccia attorno a sua madre e si lasciò andare in quell'abbraccio caloroso. Non riuscì a dire nient'altro se non: «Scusami tanto, mamma.».
Rei se lo strinse ancora un po' al petto, per godersi ancora un po' suo figlio prima che se ne andasse. Quando si staccarono, posò le mani sulle spalle di Touya e lo guardò negli occhi.
Non ci sono bisogno di parole per descrivere l'amore incondizionato di una madre nei confronti del figlio.
Dopo che sua madre raggiunse i suoi fratelli, arrivò suo padre con le valigie in mano, pronto ad accompagnarlo alla sua destinazione. Non disse nulla mentre apriva la porta e si dirigeva verso la macchina.
«Ciao, allora. Mi farò sentire tutte le volte che potrò.» fu l'unica cosa che riuscì a dire quel giorno salutando la sua famiglia.
Il viaggio durò tre ore, eppure suo padre non aveva spiccicato parola, se non per commentare le canzoni che passavano in radio. C'era anche un'altra stranezza quel giorno: era Enji a guidare, non il suo fedele autista.
Meno male, pensava, quel tipo mi inquieta.
Finalmente uscirono dall'autostrada e attraversarono la cittadina che precedeva la sede del programma. Non era tanto diversa da Musutafu o da qualsiasi altra città giapponese: stradine piccole, templi, case impilate l'una sopra l'altra, il mercato chiassoso e pieno di persone. Se non sbagliava, dovevano essere vicino Fukuoka.
Presto salutarono anche la città, per dirigersi verso la loro destinazione. Il complesso che aveva costruito la Commissione di Pubblica Sicurezza degli Eroi poteva benissimo essere spacciato per una banalissima scuola liceale.
Alti almeno tre piani, i due bracci, collegati da una struttura in mezzo, abbracciavano un grande cortile, che era delimitato da un cancello aperto. L'edificio era di un abbagliante bianco pulitissimo, decorato con finestre di vetro a cadenza regolare.
Insomma, niente di così sfarzoso.
Appena entrarono nel cortile, Touya si rese conto che qualcuno li stava aspettando. Erano un uomo e una donna. Il primo era in divisa militare del classico color verde smorto, gli anfibi neri per nulla invitanti e il petto decorato da una miriade di medaglie. Lo sguardo truce dell'uomo gli fece venire voglia di mettersi a correre per il cortile. La donna, invece, era molto più sofisticata e rassicurante: tailleur nero con una camicetta bianca e scarpe anch'esse nere, i capelli biondo paglia erano raccolti in uno chignon basso e le mani erano delicatamente incrociate di fronte a sé.
L'auto di suo padre parcheggiò a qualche metro dalle due persone che li attendevano. Prima di scendere dalla macchina suo padre si girò verso di lui, come a volergli dire qualcosa, ma si trattenne. Scosse la testa e scese dalla macchina per andare ad aprire il bagagliaio e tirare fuori le valigie. Lo seguì a ruota per aiutarlo, poi andarono verso i due che li stavano aspettando.
«Salve Todoroki, com'è andato il viaggio? E ciao anche a te, Touya. Sono felice di incontrarti finalmente.».
La prima persona a parlare fu la donna, che rivolse un piccolo inchino prima a suo padre e poi a lui, che prontamente ricambiò.
Non sia mai che mi metto nei guai prima ancora di iniziare!
«Salve presidentessa Okamoto, Salve colonello Ozashi. Il viaggio è andato molto bene.».
Dopo quel breve scambio di parole Touya si ritrovò ben tre paia di occhi addosso.
Va bene essere guardato, ma così mi sembra esagerato.
Cercò di nascondere l'improvviso imbarazzo raddrizzando la schiena e alzando lo sguardo, per osservare meglio le persone che aveva davanti. Se il sorriso gentile della signora Okamoto sembrava volerlo mettere a suo agio, quello truce del colonello Ozashi sembrava volerlo costringere a fare 200 piegamenti e due giri di corsa intorno all'edificio. Non si sarebbe sorpreso se gli avesse urlato in faccia contro come il Sergente maggiore Hartman. Notò che persino suo padre cercava di evitare il contatto visivo con quell'uomo.
BENE. Se quell'ometto con il suo metro e sessanta scarso riusciva a intimorire il Numero Due, due metri e quarantuno di muscoli e potenza di fuoco, come una scolaretta, allora poteva iniziare a dubitare di questo programma.
Prese un respiro profondo per buttare fuori qualche parola e non fare la figura del maleducato.
«Felice di incontrarla anche io, presidentessa. Anche lei, colonello» condito con un breve cenno del capo.
Il sorriso della presidentessa si allargò ancora di più.
Ma non è che ha una paresi facciale sta qui? Come fa a sorridere in questo modo inquietante?
«Come avrai intuito, io sono la presidentessa della Commissione degli Eroi per la Pubblica Sicurezza e ideatrice del progetto "New Hope", Okamoto Danuja. Mentre lui è il colonello Ozashi Tatsuo, a capo del progetto, nonché uno dei tuoi insegnanti.».
Ma sul serio questi hanno chiamato il progetto come il primo film di Star Wars?
Si costrinse ad assumere un sorriso finto, come una banconota da 900 yen. Sentiva i muscoli implorare pietà.
«Quando sei pronto, entriamo così ti facciamo vedere la struttura.».
Questa fu l'ultima frase che la presidentessa gli rivolse prima di allontanarsi in direzione dell'entrata principale dell'edificio insieme al colonello.
Rimasero solo lui e suo padre da soli.
Enji aveva ancora in mano le valigie che strinse ancora nelle mani.
Nononononononononononono.
Se dall'esterno l'uomo sembrava non mostrare alcun tipo di emozione, anche se col solito broncio in faccia sembrava perennemente incazzato come se gli avessero rovesciato il caffè addosso, nella sua testa Enji stava urlando da quando erano usciti dalla macchina.
Aveva insistito a portare lui stesso Touya, per illudersi che all'ultimo suo figlio si fosse girato verso di lui per dirgli che voleva tornare a casa. Per dirgli che voleva restare con lui.
Ovviamente, questo pensiero non aveva neanche sfiorato il cervello di suo figlio.
Voleva supportare suo figlio, aiutarlo in questo percorso che aveva scelto, ma allo stesso tempo voleva proteggerlo da tutti i mali che il mondo teneva in serbo per lui. Voleva tenerlo ancora a fianco a sé per un po'.
Era ancora così piccolo. Aveva solo quattordici anni e già se ne andava da casa.
Per lui era ancora un cosino minuscolo dai disordinati capelli rossi con le guance tonde e con le gambe grassocce che tentava goffamente in tirarsi in piedi nella culla, cadendo ogni singola volta e ridendo.
Ancora lo vedeva a tre anni con gli enormi occhi blu pieni di emozione mostrargli per la prima volta il suo quirk, fiero di avere ereditato la sua stessa abilità.
Per lui Touya era ancora il suo bambino.
Non era pronto a lasciarlo andare così presto.
«Allora... io vado, papà. Ci vediamo per le vacanze, sì?».
La voce di suo figlio lo riscosse dal panico e rivolse lo sguardo verso di lui.
Gli stessi occhi blu che lo guardavano eccitati da bambino lo stavano osservando con attenzione, cercando di capire cosa gli passasse dalla testa.
Enji sentiva letteralmente il cuore in gola, tant'è che non riusciva a parlare. Fece la prima cosa che gli venne in mente: mollò quelle dannatissime valigie e abbracciò Touya stringendoselo addosso come se la sua vita dipendesse da quel momento.
Touya non si aspettava un gesto simile. Rimase pietrificato per i primi secondi, perché erano anni che suo padre non lo abbracciava. Gli venne naturale aggrapparsi alle sue spalle e nascondere il viso nel suo collo.
Suo padre profumava di sandalo, con un accenno di fumo. La barba gli faceva il solletico al collo e il suo corpo irradiava un calore incredibile.
Non ci furono bisogno di parole per salutarsi.
Il cuore impazzito che tamburellava contro il petto di Enji gli mostrava l'ansia e l'agitazione nascosi durante il viaggio.
Le braccia che lo stringevano sempre di più gli mostravano tutto l'amore e l'affetto che suo padre non era mai riuscito a dirgli a parole.
L'abbraccio che solo un padre ti può dare non ha bisogno di parole.
Restarono abbracciati per qualche minuto, in un silenzio confortevole e pieno di parole che non avevano bisogno di essere dette.
Quando si staccarono, Enji posò entrambe le mani sulle spalle del figlio, guardandolo negli occhi.
Aveva le spalle così piccole rispetto alle sue...
Si impose di non pensare e di prendere finalmente il toro per le corna.
Guardò gli occhi blu di suo figlio, che a sua volta che lo osservavano pieni di aspettativa e...
«Sono fiero di te.».
Non ci fu bisogno di altro.
Touya non resistette più e iniziò a piangere, ma nonostante questo continuò a guardare il padre, il cuore gonfio di emozioni.
Il ragazzino annuì con le lacrime agli occhi, senza provare alcuna vergogna nel suo pianto. Enji gli sorrise e si alzò in piedi.
«Mi raccomando, fai il bravo e chiama tutte le sere, se non vuoi far stare in pensiero la mamma.».
Suo figlio cercò di ricomporsi, asciugandosi le guance goffamente con le braccia e le mani.
«Va bene» pigolò.
Gli scompigliò i capelli per cercare di risollevargli il morale, prima di dirgli: «Bene, allora ci vediamo alle prossime vacanze. Ti vengo a prendere io.».
Suo figlio annuì, si asciugò per bene il viso, prese le valigie e si voltò per dirigersi verso la presidentessa e il colonello, che Enji salutò con una semplice alzata di mano.
Touya non si voltò nemmeno una volta verso di lui, entrando con passo sicuro all'interno dell'edificio, pronto ad iniziare la vita che aveva sempre voluto.
Enji rimase ancora qualche secondo a guardare la porta di vetro. Questa volta non sperò che suo figlio tornasse indietro, desiderò solo di andare avanti nel tempo, quando sarebbe tornato a prenderlo per portarlo a casa. Non vedeva l'ora di rivederlo, cresciuto e pieno di speranze per il futuro.
Poi si diresse in macchina.
Si sedette al posto del guidatore.
Afferrò il volante.
E scoppiò a piangere.
Il colonello e la presidentessa gli fecero fare il giro dell'edificio. Ovviamente, si dimenticò tutto nel giro di qualche secondo. Aveva solo capito che il braccio destro del complesso era dedicato alle aule e ai laboratori, quello sinistro alle palestre e ai dormitori dei ragazzi, mentre quello centrale agli uffici e ai dormitori degli insegnanti.
Si guardava in giro spaesato, ma contento ed eccitato per il giorno dopo, quando avrebbe iniziato le lezioni e gli allenamenti.
L'ultima parte da visitare erano i dormitori, che erano divisi in stanze da due persone ciascuna con una zona in comune molto grande e accogliente. Non c'erano molte cose: dei tavoli, un divano accompagnato da puff e poltroncine che si affacciavano a una tv, una libreria e poco altro.
«La sala comune, come vedi, è ancora molto spoglia. Il progetto è partito poco più di sei mesi fa, quindi alcuni spazi sono ancora in via di allestimento. Questa sala è a totale vostra disposizione, potete decorarla e arredarla come più volete. Adesso non vedi i ragazzi in giro, perché probabilmente o sono in camera loro o sono in palestra. Ogni settimana avete due pomeriggi totalmente liberi e autonomi, per poter studiare, fare allenamenti extra o anche solo per prendervi una pausa. Esclusi sabato pomeriggio e domenica, che sono i vostri giorni liberi. Adesso vieni, ti faccio vedere la tua stanza.».
Touya annuì guardandosi attorno incuriosito ed emozionato. Qui avrebbe passato i futuri anni della sua vita! Già aveva decretato che il puff viola era suo.
La presidentessa si indirizzò verso una porta con una piccola lavagnetta bianca su cui c'era scritto un nome: Keigo. Bussò alla porta ed entrò dopo che una voce rispose.
Quando aprì la porta si ritrovò davanti uno spettacolo mai visto prima. Quella stanza era invasa da piume rosse: sulle scrivanie, sull'armadio, sul lampadario, sulle sedie, per terra insieme a una miriade di vestiti tra magliette, pantaloni, calzini e... ma erano mutande quelle?? La cosa peggiore però era che le piume erano anche sui letti.
Sul SUO letto.
«Ah! Keigo, eccoti qui, giusto in tempo. Volevo presentarti il tuo nuovo compagno di stanza, si chiama Touya. Touya, lui è Keigo, è stato il primo ad essere reclutato per questo progetto.» disse con un sorriso a trentadue denti la presidentessa. Cosa avesse da sorridere questa Touya non lo capiva.
Si sentì il rumore di un materasso che cigolava seguito da piedi, probabilmente nudi che schifo, battere sul pavimento. Gli si presentò davanti un ragazzino, forse di un paio di anni più piccolo di lui, basso con una massa incredibilmente riccia di capelli biondi come il grano, abbinati a due occhi color miele. Ma era eyeliner quello?
Una voce squillante ed eccessivamente alta gli stuprò le orecchie.
«Ciao! Mi chiamo Keigo, non vedo l'ora di fare amicizia con te, Touya.».
Touya lo guardò dall'alto in basso come se fosse appena strisciato fuori da un tombino.
Dio, lo odio.
- FUN FACT -
"Danuja" significa "Cavaliere" o "Sovrana", mentre "Tatsuo" significa "Drago".
Credo. Voi fate finta sia così. Santo Google dice così, chi sono io per contraddirlo? Sono dei nomen omen, una sorta di "nomi parlanti", presto scoprirete perché 😉.
Come sempre, vi chiedo umilmente, in ginocchio sui sassi questa volta, di lasciarmi un commentino e/o una stellina per farmi sapere se la storia vi piace.
A lunedì prossimo con la parte due del capitolo! E sopratutto, buon Natale a tutt*🎄!
Giuli🐙❄️.
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