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Capitolo I

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Capitolo I

Il test di ammissione era stato giusto una settimana prima, eppure l'ansia che aveva addosso non riusciva proprio a togliergliela nessuno, men che meno se stesso. Anzi, soprattutto se stesso. Passò la maggior parte dell'attesa del risultato con un mal di stomaco epocale, che avrebbe volentieri evitato prendendo qualche medicina, ma zia May aveva deciso che era il momento di smetterla o gli si sarebbe bucato il fegato.

E aveva dannatamente ragione.

La risposta doveva arrivare quel venerdì sera, e Peter Parker non era più nella pelle; aveva sognato di fare uno stage alla Stark Industries sin da quando era bambino e, aver tentato quel test era già tanto, ma entrare sarebbe stata un'impresa. Il giorno del test si erano presentati qualcosa come mille ragazzi, se non di più, tutti più o meno della sua età e tutti geni. 

Tutti. 

Lui lo era - o meglio, così gli dicevano tutti, ma non si sentiva tale. Amava tutto, dalla scienza, alla matematica fino alla letteratura e, come gli diceva sempre May, riusciva sempre in tutto. Mai come avrebbe voluto, comunque.

Si piazzò davanti al PC; un té caldo di fronte a lui che non avrebbe bevuto mai per colpa dello stomaco in subbuglio e, per temporeggiare, aprì un social network. Ned, il suo migliore amico, lo aveva appena taggato su un post e, svogliatamente ma sempre per pensare ad altro, lo aprì. «Ehi, ehi! So che sicuramente lo avrai già visto ma... guarda un po'!! Sono... così felice!», diceva il trafiletto sul messaggio e sotto, un post condiviso dalla Stark Industries. fu tutto così confuso che aprì la bocca senza riuscire a chiuderla. 

«La Stark industries per anni ha finanziato l'istruzione interna di giovani ragazzi... bla bla bla... solo il meglio... bla bla bla... l'elite della scienza moderna... bla bla bla i nomi dei ragazzi scelti... bla bla bla... Mark Sully... bla bla bla... Cecil O'Neil... bla bla bla... Peter Parker... bla bla bla... Ryan Guns... bla bla bla.»

Peter Parker. Peter Parker? Peter Parker!

Okay, questa cosa era davvero strana. Strana tanto quanto il suono della notifica sul suo cellulare dell'arrivo di una mail, che quasi sicuramente si trattava di quella notizia. Proprio quella che prima di tutto era stata messa di dominio pubblico su un social e poi, con calma, comunicato ai diretti interessati. Peter Parker non sapeva più dove guardare. Non sapeva se fissare ancora il post dove la sua faccia era infilata tra quella degli altri sette scelti o aprire la notifica e confermare quel fatto. Aveva una paura assurda che in realtà non avrebbe letto la stessa cosa, ma doveva farlo. La mail confermò quello che già aveva letto sul post di Ned e non seppe che fare. Aveva voglia di tirare un urlo così forte da spaccare in due il soffitto ma allo stesso tempo sentiva di essersi immobilizzato, così fece la cosa più stupida che potesse mai venirgli in mente: bere tutto d'un fiato il té bollente, scoprendo che sapeva di finocchio e gli fece schifo.

Imprecò ad alta voce.

«Peter?», lo chiamò zia May, il tono preoccupato ma non così tanto che soleva usare. Sua zia sapeva che era un cretino, certe volte... come quando si svestiva e cadeva per terra perché incastrava le gambe nei pantaloni.

«Sto bene! Mi hanno... mi hanno preso alla Stark Industries!», urlò, e si alzò in di colpo dalla sedia quando zia May entrò in camera sua aprendo la porta e palesandosi con gli occhi sgranati e un guanto da cucina nella mano che stringeva ancora la maniglia.

«Ti hanno preso...», mormorò la donna, e si avvicinò.

«Mi hanno preso!», ripeté, sorridendo di cuore, prima di farsi inglobare in un abbraccio strettissimo.

ᏖᎧᎮᏋ

Peter avrebbe voluto urlare al mondo intero la sua felicità, sfogare un po' l'adrenalina vibrante che aveva dentro di sé ma non avrebbe potuto farlo per una questione di dignità e di educazione. Erano le tre del mattino, quando si ritrovò a saltare da un palazzo all'altro come un matto per il puro obiettivo di darsi una calmata, perché cominciava a non sopportarsi più nemmeno lui. E succedeva anche spesso, a dirla tutta. 

Oh, beh untold story, Peter Parker aveva un segreto enorme che teneva per sé da quasi sei mesi e che solo Ned, il suo migliore amico, ne era a conoscenza. Peter era una specie di superuomo, con delle capacità fisiche impressionanti; era in grado di fare salti altissimi, di fermare un tir in corsa con una mano, di arrampicarsi sul muro e sul soffitto senza cadere e aveva dei sensi ultra sviluppati che gli permettevano di percepire il pericolo, ad una distanza considerevole - era uno degli aspetti che amava e odiava di più, dei suoi poteri. Aveva deciso, dopo averli scoperti, di mettersi al servizio della città per fermare i cattivi e aiutare i buoni, dandosi il nome di Spider-Man.

Ogni tanto i giornali ne parlavano, specie quando faceva cose più utili di salvare gattini bloccati sugli alberi o aiutare vecchietti ad attraversa la strada. Si era costruito una calzamaglia orribile, ricavata da un pigiama rosso e blu e si copriva la faccia con un passamontagna, alla quale aveva attaccato degli occhiali da nuoto abbastanza brutti a vedersi. Però facevano il loro dovere. 

Durante le ore di chimica si creava delle ragnatele che, con un dispositivo inventato da lui, riusciva a sparare dai polsi premendo un pulsante. Erano resistenti e elastiche come le vere ragnatele di un ragno e, sinceramente, andava abbastanza fiero di quella sua invenzione. L'ultimo work in progress era una tuta nuova, che lui e Ned stavano cercando di cucire seguendo dei tutorial su YouTube e non stava venendo così male solo che ci stavano mettendo una vita a finirla, siccome non erano per nulla portati a quel genere di cose.

Insomma, Peter era una specie di supereroe ma che si limitava a difendere solo il proprio quartiere dai nemici e, per quello, si era dato il soprannome di amichevole Spider-Man di quartiere. La passeggiata per i grattacieli, quella sera, aveva però il solo scopo di alleggerire il suo entusiasmo e, siccome non succedeva nulla di nulla da un po' di tempo, sperò che anche quella sera potesse essere lo stesso. Dovette ricredersi quando i peli sulle braccia gli si rizzarono e rabbrividì, segno che lì vicino stava succedendo qualcosa e i suoi sensi glielo stavano dicendo.

«Capperi!», esclamò, in una delle sue espressioni più colorite e, cambiando direzione.

Era una specie di supermercato, uno di quelli aperti di notte. Di fronte all'entrata, c'era un uomo con una divisa - probabilmente il proprietario - e quattro uomini incappucciati con decisamente non belle intenzioni. Peter si piazzò sul tetto dell'edificio e, aspettando di scoprire cosa accidenti stesse succedendo, vide l'uomo in divisa indietreggiare.

«Vi ho già dato tutti i soldi, che altro volete da me?», stava chiedendo l'uomo, le mani alzate in segno di resa, mentre il più grosso dei tipi gli puntava addosso un machete.

«Cosa? Seicento miseri dollari? Cos'è, l'incasso della chiesa? Guarda che lo sappiamo quanto guadagni in media giornalmente! Tira fuori la grana!»

«Non ho altro! È un periodo duro, lavoriamo poco. La gente è fuori città, non... non ci sto rientrando nemmeno con i costi! Per favore!», continuò l'uomo, piangendo e Peter si chiese quanto potesse essere umiliante sentirsi dire certe cose, sentirsi dare del bugiardo quando non era così.

«Cazzate!», urlò un altro e fece per scagliarsi contro di lui, e fu il momento di agire.

Peter si fermò di nuovo, però, quando vide un ragazzo uscire dal negozio con un'espressione talmente indifferente da sembrare quasi una presa in giro; un pacchetto di patatine stretto tra le mani. Il tempo si fermò, come nei film quando succede qualcosa e si sente pure il suono di un disco rotto.

«Ecco un altro polletto da spennare», rise un altro dei banditi, mentre gli altri gli andavano dietro.

«Signor Gao, le ho lasciato i soldi delle patatine sul bancone. Il resto può tenerlo.»

«Cosa sei, cieco? Non vedi che lo stiamo rapinando?», domandò uno, sconvolto dalla cosa e il padrone del negozio, il signor Gao, sembrò più confuso di tutti quanti messi insieme.

«Hai chiamato la polizia?», chiese al ragazzo, speranzoso e quello alzò le spalle, quasi scocciato e si voltò a guardare i quattro uomini ancora pronti ad attaccare.

«Per quattro poveracci? Temo sarebbe uno spreco», rispose quello e Peter non ci poteva mettere la mano sul fuoco, ma era chiaro che quello che gli vide comparire in viso fu un ghigno di soddisfazione.

Uno degli uomini si scagliò contro di lui e, quando fu abbastanza vicino da tirargli un pugno, quello lo bloccò. Il malvivente si fermò, urlando di dolore mentre il ragazzo gli girava il polso con una mano, coperta da un guanto rosso di ferro che faceva un rumore elettrico quasi fastidioso.

«Che diavolo...», commentò un altro, immobile e il suo compare si buttò a terra: il polso gonfio, probabilmente spezzato. Il ragazzo, soddisfatto, lo guardava dall'alto con una certa sfacciataggine che quasi dava fastidio.

«Chi altro vuole un braccio spezzato?», chiese, e Peter si domandò quanto potesse essere consapevole del pericolo che stava correndo; lui era lì, a guardare tutto, incapace ancora di intervenire perché bloccato un po' dalla curiosità, un po' dalla paura di creare ancora più panico.

Passò giusto un secondo, quando un altro uomo si scagliò contro quello e, invece di fermarlo come aveva fatto con l'uomo precedente, il ragazzo lanciò un accidenti di raggio dal guanto, scaraventando il nemico contro un'auto. L'impatto fu così rumoroso che alcuni allarmi suonarono. Il terzo e il quarto uomo decisero di agire subito e quello, sempre più spavaldamente, si preparò a lanciare in aria anche loro, alzando il braccio di fronte a sé. Il guanto iniziò a caricare l'energia e, prima di lanciarla, si spense facendo uno sbuffo.

Il sorriso sul suo voltò sparì, lasciando spazio ad una preoccupazione palpabile. Peter vide la situazione capovolgersi in un istante.

«Che cazzo...», mormorò quello, cercando ancora di usare il guanto e quando quelli furono ad una distanza troppo corta per permettere al ragazzo di salvarsi, Peter gli si parò davanti scendendo dal palazzo e interruppe quel teatrino patetico che stava degenerando.

«C-cosa? Spider-Man

«Ehilà, ragazzi! Come butta?», chiese, prima di agire immediatamente: tirò due ragnatele, e li immobilizzò. Strattonò le corde e quelli si ritrovarono a cozzare le teste l'una contro l'altra, più di una volta e, poco dopo caddero a terra, privi di sensi. «Non troppo bene, a quanto pare», concluse Peter, sospirando e con le mani ai fianchi.

Si affrettò a togliere dalle mani degli uomini la sacca con i soldi e, cedendola poi al proprietario, disse: «Questi sono suoi, signor Gao. Io chiamerei la polizia ora, se fossi in lei.» L'uomo lo guardò sconvolto, ancora le lacrime agli occhi e, dopo secondi interminabili, infine annuì. Prese la sacca con i soldi ed entrò nel negozio, chiudendosi dentro. Peter tirò un sospiro di sollievo poi si voltò verso il ragazzo, ancora lì, fermo immobile a fare chissà che.

«Si può sapere che accidenti pensavi di fare?», lo rimproverò, e quello alzò un sopracciglio regalandogli l'espressione più antipatica che Peter avesse mai visto in vita sua.

«Cosa? Beh, se non fosse stato per il malfunzionamento del guanto, sarei riuscito a fare tutto da solo», gli rispose.

«Tutto da solo? Erano in quattro!», esclamò ancora Peter, indicando i quattro uomini con un gesto teatrale.

«Oh, davvero? Grazie per avermelo fatto notare, Spidercoso! Non ci avevo proprio fatto caso, sai? E comunque chi accidenti ti ha detto che potevi interrompermi?»

«Sai benissimo di aver fatto una stronzata colossale! Non fare lo spaccone! Se non fossi intervenuto io, le avresti prese di santa ragione e, credimi, non sono certo ne saresti uscito vivo!»

«Cosa sei, mia madre?»

«Sono qualcuno al servizio dell'ordine cittadino», disse, convinto e annuendo pure per rafforzare quel concetto.

Il ragazzo lo guardò strabuzzando gli occhi, poi esplose in una risata sguaiata, reclinando la testa all'indietro. «E lo fai in pigiama, giustamente!».

Peter non era un tipo violento ma avrebbe volentieri tirato una ragnatela su quella faccia solo per il gusto di vederlo zittirsi e mostrargli un minimo di riconoscenza, cosa che sicuramente non stava facendo.

«Ti ho salvato la vita».

«Molte grazie, Spidercoso. Davvero. Te ne sarò riconoscente in eterno! Ora se non ti dispiace vado a casa; a differenza tua, che te ne vai in giro di notte a salvare le persone, dovrei dormire siccome ho una vita sociale che, a quanto pare, tu non hai.»

Peter era sempre più vicino all'idea di picchiarlo ma, l'idea che era uscito di casa per calmare il suo entusiasmo, lo trattenne dal dargli un destro. Quello di tutta risposta prese il suo silenzio come se avesse incassato il colpo e sfoggiò un sorriso sornione e, prima di abbassarsi a recuperare la busta di patatine che gli era caduta a terra, alzò un braccio per salutarlo.

«Ci vediamo, Bimbo Ragno

Peter lo guardò andare via e girarsi ancora una volta per regalargli l'ennesimo sorriso odioso, poi quello sparì dietro un angolo e l'unico suono che continuò a rendere vano il tentativo di calmarsi, fu quello delle sirene in lontananza della polizia e degli allarmi che non si erano fermati nemmeno per un istante.

Fece un balzo, salì di nuovo sul tetto dell'edificio e iniziò a muoversi tra i palazzi per tornare a casa, con il solo sollievo che New York aveva così tanti abitanti che incontrare di nuovo quell'antipatico sarebbe stato davvero impossibile.

Quel pensiero lo sollevò.

Lo stage alla Stark Industries sarebbe iniziato esattamente una settimana dopo la fatidica risposta alla mail e, con grande sorpresa di Peter, il tempo passò straordinariamente veloce. La presentazione si sarebbe svolta nella grande hall dell'Avengers Tower e Peter non avrebbe mai immaginato di entrarvi, un giorno. La vedeva sempre, quando tornava in treno da scuola, maestosa e inarrivabile... ora, ne stava varcando la soglia, ammaliato e stupito come un bambino di fronte all'albero di natale pieno di regali alla base.

Gli fecero dei controlli di sicurezza, come succedeva anche in aeroporto (o così pensava lui. Non lo aveva mai preso, l'aereo!) e gli chiesero i documenti di identità poi, insieme agli altri sette ragazzi, entrò nella sala conferenze. Il posto era gigantesco, troppo grande per così poche persone eppure l'ansia lo fece sentire come se stesse soffocando e quando vide Captain America... santo cielo, Captain America, comparire proprio di fronte a lui, dovette metterci tutto se stesso per non svenire.

«E' più grosso di quel che sembri in televisione», commentò uno dei ragazzi, rivolto a nessuno in particolare e Peter era d'accordo.

«E' un piacere per me darvi il benvenuto nel nostro quartier generale dove noi Avengers ci riuniamo per prestare i nostri servizi al Governo e, soprattutto, al popolo. Inutile dirvi che il vostro arrivo qui sta già segnando l'inizio di una nuova era di cambiamento e di evoluzione, dove noi supereroi e voi menti , uniamo le nostre forze per un bisogno comune: la sicurezza. Il nostro presidente, nonché fondatore, il signor Howard Stark è impegnato in Corea per un'importante evento Hi-Tech sulle nanoparticelle dove è stato chiamato come consulente.»

Ne parla come se fosse una cosa all'ordine del giorno... , pensò Peter, con un mezzo sorriso, ancora totalmente fuori di sé all'idea di aver abbracciato quel mondo che era sempre sembrata più un'utopia che altro.

Captain America continuò: «Per questo, mio malgrado, ho preso io le sue veci supportato da Happy Hogan, il capo della sicurezza della famiglia Stark nonché vostro prefetto e guida per questa giornata di introduzione», ed indicò un uomo paffutello che, a prima vista, non sembrava esattamente il ritratto dell'entusiasmo. Sembrava più uno che odiava avere a che fare con ragazzi giovani e Peter sperò di sbagliare. Il nome, comunque, di certo non rispecchiava per nulla il suo viso duro ed era quasi palese si trattasse di un soprannome.

«L'obiettivo di questa internship è quella di formare nuovi membri della nostra crew e di portare, grazie alla vostra giovane età, una ventata di aria fresca tra le nostre mura. Siete stati scelti tra molti, il che fa di voi i migliori. Sappiamo che non avremmo potuto scegliere meglio di così, per garantire un futuro sempre più sicuro al nostro popolo e, di tanto in tanto, all'intero pianeta», sorrise ancora Captain America, rassicurante.

Erano parole scritte a tavolino, atte a dar loro una scossa e un minimo di senso di familiarità e, grazie a quel carisma che lo aveva sempre caratterizzato, l'uomo c'era riuscito.

L'uomo chiamato Happy fece loro strada verso una porta che dava su un corridoio lunghissimo privo di finestre e mentre spiegava un po' a macchinetta dove si trovavano, Peter si sentì sempre meno adatto a trovarsi lì e si chiese, sconvolto, come avesse fatto a superare il test con il massimo dei voti per entrare a far parte di un posto pieno di gente capace e carismatica. Oltretutto aveva spesso sognato di entrare a far parte degli Avengers sotto l'identità di Spider-Man, ma sapeva benissimo di non avere le capacità né tantomeno l'indole per fare il supereroe.

Happy fece loro strada verso un ascensore rinforzato, dove salirono e, arrivati al quarto piano, uscirono trovandosi in un nuovo corridoio stavolta più illuminato, siccome c'erano dei grossi finestroni. Chiamò dei nomi e fece entrare ognuno in una stanza diversa, dicendo loro che all'interno avrebbero trovato altre persone, i loro mentori per così dire: gente che lavora lì già da tempo e che avrebbe quindi insegnato loro ogni cosa. Peter fu chiamato per ultimo e, approfittando del fatto che era solo, si rivolse timidamente a Happy mentre continuavano a camminare insieme verso quello che sarebbe stato il suo laboratorio.

«Pensavo lavorassimo tutti insieme, io e gli altri ragazzi! Non credevo aveste deciso di dividerci e affidarci a dei mentori.»

Happy arricciò le labbra e sospirò: «Tenervi tutti insieme? Gente della vostra età si gestisce a malapena nel singolo, figuriamoci nel collettivo! Sarete anche dei geni, ma rimanete dei ragazzini», commentò.

Peter corrugò la fronte e, per nulla intenzionato a lasciar correre quell'accusa che faceva un po' di tutta l'erba un fascio, controbatté: «Non è un po' azzardato apostrofarci in questo modo senza conoscerci?»

«Perché ogni anno mi tocca questo supplizio e so come funziona. Comunque, te lo dico in totale amicizia: ti è andata davvero male, ragazzino. Il mentore peggiore te lo sei beccato proprio tu. Però, con la parlantina che ti ritrovi, magari gli tieni pure testa», rise appena Happy, poi gli indicò una stanza che Peter non fu sicuro di voler raggiungere, dopo quello che gli aveva appena detto.

Era un tipo tranquillo, che non dava fastidio specie mentre lavorava, ma se era messo sotto pressione di agitava e iniziava a straparlare e a combinare guai.

Non ci voleva...

Happy aprì la porta e, senza lasciargli il tempo di realizzare niente, la richiuse lasciandolo dentro apparentemente da solo. Peter si sentì come in quei film horror che non gli piacevano tanto, dove il protagonista viene chiuso in una casa e gliene succedono di tutti i colori... dove la luce dei neon si accende e spegne ad intermittenza. Esattamente come stava succedendo alla plafoniera sopra di lui, che fissò terrorizzato.

«Ehi», lo chiamò una voce e tornò a guardare di fronte a sé; gli occhi ancora velati di una paura infantile.

Il film horror poteva essere considerato finito, ma per Peter non fu così.

Di fronte a lui, in un camice bianco e un paio di occhiali da vista color ambra, c'era un ragazzo pressappoco della sua età, capelli neri come gli occhi, viso lungo e espressione interrogativa sulla faccia. Era poco più alto di lui e, sotto al camice, portava una maglietta di Spongebob a prima vista rovinata dai continui lavaggi. Un ragazzo qualsiasi, ma solo a prima vista perché quando si avvicinò per salutarlo e presentarsi, Peter fu percorso da un brivido dietro la schiena che lo fece sussultare.

Quello gli allungò la mano: «Beh, tu devi essere Parker, a quanto pare. Benvenuto all'Avengers Tower. Io sono Tony.»

Fu terribilmente scioccante realizzare che quel tipo, apparentemente tranquillo e gentile, somigliava troppo, ma troppo, al ragazzo a cui aveva salvato la vita una settimana prima di fronte al negozio del signor Gao. 

Quello stage sarebbe stato uno spasso o, più probabilmente, un incubo. Ciò che lo terrorizzò di più, però, fu la sicurezza che si trattava proprio lui.

Ci mise tutto se stesso per non sembrare un totale deficiente e, ricordandosi che quello non avrebbe mai potuto riconoscerlo visto che si erano conosciuti quando lui aveva addosso quella cosa che aveva il coraggio di chiamare tuta, gli strinse la mano.

«Peter... Parker...», balbettò, e quello alzò un sopracciglio.

«Sì...», commentò Tony e gli lasciò andare la mano, ancora scettico. «Mentre ti aspettavo leggevo il tuo curriculum scolastico. Te la cavi bene in chimica, la cosa è lodevole. Di solito nessuno ci capisce mai niente, di chimica.»

«A-aspetta, tu non sei... un tirocinante come me? Tu sei... tu sei il mio mentore?»

Tony alzò gli occhi dal foglio sulla quale aveva posato lo sguardo per leggere le sue referenze, con un sorrisetto.

«Ti aspettavi Topolino, Parker?».

«Mi aspettavo una persona più... adulta. Di certo non qualcuno della mia età, ma... ehi, nulla in contrario ero solo stupito! Insomma, per fare il mentore devi aver sacrificato molto del tuo tempo dietro a...»

«Non così tanto, a dirla tutta. Comunque sì, sono il tuo mentore. E' già la terza volta che mi occupo dei tirocinanti.»

Peter era davvero stupito. Aveva quasi dimenticato di avere davanti quel demente che si era quasi fatto ammazzare per dimostrare non si sa cosa, ma almeno aveva scoperto come aveva avuto quel guanto; quasi sicuramente doveva averlo creato lui, visto che uno dei compiti dei tecnici di laboratorio di quel posto era quello di costruire anche parti di armature e armi per gli Avengers.

«Sono stupito», ripeté.

«Lo sono sempre tutti», rispose Tony, con un certo orgoglio che gli si leggeva in faccia fin troppo apertamente, poi posò il foglio e si sedette su una sedia, facendo cenno a Peter di fare lo stesso con una poco lontano.

«Allora. Raccontami qualcosa di te, cosa ti piace fare? Perché hai deciso di provare ad entrare qui e soprattutto quali sono i tuoi obiettivi.»

Era troppo strano. Veramente troppo strano sentir parlare un suo coetaneo come se fosse stato un professore e fu quel fatto a lasciarlo in silenzio a boccheggiare come un cretino, finché non trovò la forza di parlare.

«Io... beh, è sempre stato il mio sogno poter lavorare in questo ambito, specie perché adoro la scienza, per me non è solo uno studio ma anche un hobby che coltivo e...».

«In che senso la scienza è un hobby? Cos'è che fai, costruisci armi subatomiche in cantina?», rise Tony e Peter si sentì avvampare.

Creo le ragnatele che ti hanno salvato la vita, idiota. , avrebbe voluto dirgli ma l'unica cosa che fece fu mordersi un labbro fingendo di pensarci su.

«Mi piace molto sperimentare. A volte senza voler fare nulla in particolare, mi piace avere a che fare con fialette e cose così...»

Tony abbassò lo sguardo su un nuovo foglio su cui scrisse qualcosa: «Un hobby comune. E... vorresti lavorare qui, dopo lo stage oppure vorresti girare un po' e vedere che aria tira altrove?».

«È già moltissimo essere arrivati fin qui, che semmai doveste decidere di assumermi, non credo che avrei l'arroganza di lasciare un posto del genere...», rispose Peter, con un sorrisetto e Tony sospirò, quasi amaramente.

«Voi tirocinanti pensate sempre che non esista nessun posto migliore di questo. Forse perché sembra chissà che, e invece col tempo scoprirai che non è tanto diverso da molti altri posti.»

«Sono certo che qui non sia come altri posti», azzardò Peter, trattenendo una risatina di scherno, siccome quelle parole erano sembrate un'idiozia.

«È il miglior laboratorio del mondo, lo ammetto. Il problema di questo posto, sono le persone e mi includo in tali fecce.»

«Mh?».

Tony sospirò di nuovo e, poggiando svogliatamente il foglio che aveva in mano su una scrivania, intrecciò le mani tra loro e Peter seppe che stava per fargli un qualche discorso noioso. Represse la voglia di alzare gli occhi al cielo.

«Senti Parker, probabilmente Happy ti avrà già avvertito come fa con tutti e voglio essere sincero: io sono un rompipalle, okay? Sono un precisino metodico dalla cura nei dettagli che rasenta il maniacale. Se mi gira male me la prendo con la prima persona che ho davanti, e per trenta ore a settimana quella persona sarai sempre tu! Se non lavori bene, ti urlo contro. Se combini disastri, meglio che me lo dici subito o sarei capace di ucciderti. Questo è quello che ti aspetta, sei sicuro di voler restare?», chiese Tony, lo sguardo duro, quasi lo stesse sfidando e Peter, effettivamente, si sentiva come se lo stesse facendo.

Lo guardò per un minuto intero senza dire una sola parola, dando forse l'idea di star prendendo quella decisione che in realtà aveva già preso, ed era ovvio che fosse positiva. Aveva fatto tanto per entrare lì, e di certo il primo sbruffone che passava non gli avrebbe fatto cambiare idea. No, il problema era un altro. Peter voleva dimostrargli quanto poteva valere, come aveva fatto quel giorno della rapina e, annuendo con convinzione, rispose.

«Ci proverò.»

«Non ci devi provare, Parker! Lo devi fare e basta!», esclamò Tony e si alzò in piedi, facendogli cenno di seguirlo, dandogli la prima dimostrazione del suo odiosissimo carattere.

Peter si alzò in piedi e tutto ciò che riuscì a fare fu seguirlo mentre reprimeva uno sbuffo. Ci mancava solo quella: l'idiota della rapina che gli faceva fa mentore. Ridicolo, a dir poco.

Lo seguì fino ad una stanza circolare, dove vari macchinari da laboratorio campeggiano al centro di alcune scrivania di metallo. Le finestre erano coperta dalle tende, il che rendeva l'ambiente ancora più cupo, specie a causa delle luci al neon che di caldo avevano ben poco.

Peter si guardò intorno, sistemando meglio lo zaino sulla spalla, mentre riconosceva alcuni di quei marchingegni e altri non li aveva mai visti in vita sua. Tony si poggiò col braccio su un gruppo computer dalla ventola rumorosa, che pareva uscito da uno di quei film di fantascienza che Peter amava tanto.

«Allora? Nuovo a questi macchinari?»

Peter alzò un sopracciglio: «Non totalmente. Alcuni di questi li usiamo a scuola e altri ho avuto modo di usarli durante un tirocinio che ho fatto l'anno scorso in un laboratorio medico.»

Tony parve stupito per un attimo da quella notizia e Peter non riuscì totalmente a nascondere la sua soddisfazione, così dovette fingere un colpo di tosse per non dare a vedere che gli stava venendo da sorridere.

«Non è il primo tirocinio che fai?»

«Ho vinto una borsa di studio, l'anno scorso. Potevo scegliere se partire per un'Erasmus o fare uno stage di qualche mese in un'azienda farmaceutica. Ho scelto la seconda, per... alcune ragioni legate all'impossibilità di lasciare la città.»

«Genitori apprensivi?», chiese Tony, con una risatina che a Peter non divertì per nulla ma che, comunque, nemmeno lo ferì.

«Una zia apprensiva», lo corresse. «Non... vivo con i miei loro sono... morti quando ero piccolo», rispose, e fu felice di essersi già tolto quel peso, perché era un peso, dato che ogni santa volta tutti lo guardavano come se fosse un cane bastonato e lui, invece, non aveva alcun problema a parlare di quell'argomento.

Non se li ricordava nemmeno, i suoi genitori, figuriamoci...

Tony però non parve stupito, giusto un lampo attraversò i suoi occhi, forse la voglia di mostrare un minimo di compressione di cui Peter di certo non aveva bisogno. Non più. Poi, dai lui?

Ridicolo.

«Beh, mi dispiace per questo cosa, Parker. Non lo sapevo», disse infine il ragazzo di fronte a lui, facendo correre lo sguardo nella stanza come alla ricerca di qualcosa. Forse un modo cambiare argomento.

«Ovvio, non l'ho scritto sul curriculum. Per fortuna certe informazioni non servono», cercò di ironizzare Peter, con un sorrisetto e Tony ricambiò lapidario, per poi tornare a farsi serio.

«Beh, mettiamoci al lavoro. Mettiamoci al lavoro.»

Sembrava davvero a disagio, dopo quella conversazione e Peter annuì semplicemente senza abbandonare quell'espressione beata e sorridente, perché dopotutto un po' si sentiva soddisfatto per averlo quasi zittito.

Uno a zero per me, idiota!

Fine Capitolo I

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